Al Teatro Cucinelli di Solomeo (e in programma anche all’Elfo Puccini di Milano) è andato in scena Arizona, per la regia di Fabrizio Falco da un testo del 2005 di Juan Carlos Rubio. Recensione
Minuteman è il nome del progetto di milizia civile statunitense che inviava al confine sud del paese gruppi di cittadini volontari, incaricati di proteggere le frontiere. Così in Arizona, testo di Juan Carlos Rubio, scritto nel 2005, quindi nel pieno del governo Bush, che oggi risuona di un’inquietante attualità. Poche settimane fa il New York Times ha rivelato la configurazione sognata dal presidente Trump per il muro di separazione tra USA e Messico: una trincea popolata di serpenti, coccodrilli e soldati incaricati di sparare alle gambe di chi tentasse l’attraversamento clandestino.
Fabrizio Falco porta sulle scene italiane il testo di Rubio (nella traduzione di Giorgia Maria D’Isa, in collaborazione con Pino Tierno): sul palco una coppia di coniugi americani, George, interpretato da Falco, e Margaret (Laura Marinoni). Sono appollaiati sulle loro sdraio, in questa sottilissima terra di mezzo, tracciata dallo srotolarsi di un prato finto e punteggiata di pochi oggetti scelti: un binocolo, una radio (il medium della propaganda, dei jingle pubblicitari ma anche delle canzoni di Julie Andrews, amate da Margaret), un frigorifero, un cactus, messo lì a sorreggere un fucile e, naturalmente, una bandiera a stelle e strisce.
Il sottotitolo, Una tragedia musicale americana, rinvia simbolicamente al genere della commedia musicale ma anche alla tragédie en musique francese, tracciando i contorni di un’allegoria originale, che sembra situarsi fuori dal tempo. Anche i due protagonisti appaiono collocati in un’epoca imprecisa, in cui il richiamo alle procedure difensive dell’amministrazione di Bush stinge nell’estetica del vintage, allusa da tutti gli oggetti in scena e dagli abiti anni ’50 di Margaret, appena svisata dall’abbigliamento di George, gilet da cacciatore e bermuda mimetici, a suggerirne la virilità prevaricatrice e prêt-à-porter.
I nuclei dello spettacolo, ha dichiarato il regista in un’intervista alla vigilia del debutto bolognese (è una produzione Ert e sarà programmata anche al Teatro Elfo Puccini di Milano), sono tre: «il possesso di armi e il loro utilizzo sempre più smodato con la falsa scusante della difesa personale, l’ossessione per la presunta invasione da parte degli “altri” con la conseguente insaziabile paura nei confronti di tutto ciò che è diverso, e infine la dilagante misoginia tristemente endemica in ben più di una famiglia delle nostre società». Il messaggio di denuncia, denso e attuale, sembra definirsi sin dalle prime battute che i due scambiano, facendo affiorare, nelle penombre del teatro dell’assurdo predisposto da Rubio, un ménage di coppia connotato secondo stilemi visivi e verbali che risultano, a dispetto dell’atemporalità, schiettamente realistici. Allo stesso tempo, la “retrodatazione” dell’opera, concorre a disegnare il perimetro di una narrazione sospesa tra la verosimiglianza, la distopia e la profezia.
La prossemica è costruita sulla conservazione di una breve distanza tra i due (spezzata solo nelle scene, sincopate, del ballo e del sesso) che sono però in costante interazione verbale: è attraverso il dialogo che si articola – a volte suggestivamente, altre in modo troppo esplicito («Margaret, stai di nuovo pensando?» «Magari fuggono da qualcosa, come i nostri nonni…» replica lei) – il controsenso della loro funzione di avamposto corporale ai confini del deserto.
La memoria viene definita, a più riprese, il tratto di George, mentre Margaret si muove sui registri della svampita dimenticanza. Nelle note di regia si legge che la memoria danneggiata di lei evoca, come una sineddoche, i guasti della memoria collettiva e storica, che condanna l’umanità al perpetrarsi dei medesimi errori. Eppure il parallelo sembra giocato su di un piano inclinato perché i cedimenti di Margaret evocano lo smarrimento della cognizione e dei presupposti alla base del progetto e quindi una paradossale e ambigua via di salvezza («Cosa siamo venuti a fare?»), sempre interdetta dall’assertività del marito, la cui decodifica del reale è inquinata sin dalle fondamenta ed eseguita senza incertezze.
A margine, e per accenni, sembra delinearsi una riflessione sul linguaggio: le parole che introducono l’insinuarsi dei dubbi («eppure», «però»…) sono bandite dal progetto, più volte Margaret ripete gli slogan del marito e la sua incapacità di interpretare il linguaggio metaforico-simbolico («Gli americani sono nostri figli? Tutti? Che strana sensazione essere madre!») produce un effetto di singolare iperrealismo, in una designificazione progressiva che, sul finale, vede George (spalle al pubblico, intento a lucidare il fucile alla luce del frigo aperto) mormorare «zenith» e «tramonto» riscontrando meccanicamente che siano «parole belle». Anche l’andamento confortante della preghiera può essere piegato, senza alterarne la ritmica, alle esigenze dell’istanza bellica: «Così come noi difendiamo il nostro territorio» recita, a un tratto e con sussiego, George.
In qualche modo, sembra dirci il regista, la parola non può essere mai latrice di vera comunicazione ma funziona all’inverso, come un dispositivo di definizione e convalida di ciò che è predisposto dal sistema: «E se tutti perdessimo la memoria, chi definirebbe il sud e il nord, chi si occuperebbe di trovare la parola che definisce ognuna delle nostre azioni?».
Si tratta di una materia drammaturgica straniante e complessa, marcata però da qualche ripetizione di troppo e da una certa prevedibilità, che gli interpreti portano con naturalezza, controllando l’enfasi già programmaticamente instillata nel climax dei loro conflitti. In qualche frangente – e sono forse le tracce più suggestive del realismo cercato dall’adattamento di Falco – si intravede, sotto la riflessione politica, la tragedia sentimentale di una coppia che si dedica alla milizia civile come a un esperimento, per il bisogno trovare di qualcosa di “ideale” che li unisca, tant’è che Margaret, quasi sul finale, ipotizza un altro scenario («Potremmo andare a Long Island a salvare le balene!»), denunciando amaramente l’intercambiabilità di ogni causa.
L’ultimo quadro, avvolto da una penombra inanimata e artificiale che lo fa somigliare a una fotografia di Gregory Crewdson, è attraversato da suoni naturali, guaiti e vento, poi il rumore lontano di un aereo, nessuna voce umana.
Ilaria Rossini
Teatro Cucinelli, Solomeo – novembre 2019
Fino al 1 dicembre al Teatro Elfo Puccini di Milano
ARIZONA. UNA TRAGEDIA MUSICALE AMERICANA
di Juan Carlos Rubio
traduzione Giorgia Maria D’Isa in collaborazione con Pino Tierno
regia Fabrizio Falco
con Laura Marinoni e Fabrizio Falco
scene e costumi Eleonora Rossi
luci Vincenzo Bonaffini
musiche e suono Angelo Vitaliano
assistente alla regia Maurizio Spicuzza
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione