IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Numero speciale questo #100 appuntamento, all’interno del quale pubblichiamo un manifesto filosofico in cinque punti sulle capacità del teatro di farci guardare oltre l’abisso.
Se qualcosa si deve salvare dalla catastrofe, lo si deve dire forte e chiaro. Questa è la funzione essenziale di un manifesto: presentare idee di vita e pensiero come se si dovesse morire tra un attimo, pur sapendo che parole e azioni non potranno mai esaurire l’ideale vagheggiato. Il teatro è forse una delle arti o delle scienze che occorre tentare di preservare, perché può assolvere alcune funzioni efficaci a rendere la nostra vita migliore, o almeno più tollerabile.
Si possono isolare cinque possibili direzioni dell’attività teatrale. Su ciascuna converrebbe discutere a lungo. Qui urge esprimere in forma sintetica di fronte alla possibilità di un disastro imminente.
Chiamo questa tendenza impossibile verso un ideale di ricchezza vitale e intellettuale nella consapevolezza della propria irrimediabile nullità come “butismo” (da βυθός = “abisso” o “profondità”). Si vive e si pensa sempre sull’orlo di un precipizio, dove l’alternativa è volare o cadere.
- Siamo nati per godere e per pensare
Ogni vivente aspira per natura all’unione di conoscenza e piacere. È questo che accomuna esseri così diversi come gli umani, le bestie e gli dèi. Una divinità è una mente ineffabile che conosce e gode in eterno, senza però patire mutamenti e calarsi nel mondo. La bestia gode e conosce solo quel che è contingente, è il dominatore assoluto del presente e aderisce pienamente all’attimo. L’essere umano è invece come sospeso tra il bestiale e il divino, tra l’effimero e l’eterno. Esso è anzi l’unico vivente che pensa e gode attraversando questi due volti del tempo.
Nella ricerca di piacere e pensiero si accede, quasi automaticamente, all’esperienza dell’infinito. Un godimento può infatti diventare sempre più grande e intenso, senza di fatto esaurirsi mai, se non con la distruzione dell’individuo. Una gioia troppo immensa può in fondo far scoppiare cuore e neuroni, quando l’ente o l’attività che diffonde questi moti gioiosi, come la contemplazione di un nuovo e incomprensibile mondo, è molto più enorme di noi. Un pensiero può invece diventare sempre più abissale, poiché una scoperta porta a ulteriori problemi e piste di indagine, che a loro volta apriranno l’accesso ad altri spunti di ricerca senza una potenziale fine.
Il teatro può giovare, forse, a mescolare in modo equilibrato piacere e pensiero. Quest’arte cerca di godere dell’attimo come se fosse eterno, quindi di rendere infinita un’esperienza piacevole o conoscitiva di durata finita. Un evento che accade sulla scena può caricarsi, infatti, di significati potenzialmente illimitati e creare vaste risonanze, come ad esempio il suono della corda di violino che si spezza ne Il giardino dei ciliegi di Čechov. Grazie a questo accadimento, lo spettatore si trova davanti a un mistero che lo stimola a capire che cosa sia successo e a ricavare da questa indagine un intenso piacere. Perché questa corda si è spezzata? E se c’era un violino invisibile, che faceva risuonare una musica finora rimasta inudita, perché non si era mai riuscito finora ad ascoltarla?
Cercare questa buona mescolanza di piacere e pensiero è forse quello che più ci avvicina alla felicità. Il teatro è dunque un potenziale veicolo di benessere, che coglie qualcosa di eterno attraverso il contingente. Si tratta di un paradosso insolubile: come fa infatti l’eterno o l’indistruttibile a passare attraverso qualcosa che è di per sé morente e fragile? Ma è tra paradossi che noi ci addentriamo.
- L’essere umano è un’ombra che danza
Basta illusioni. Il piacere e il pensiero umano proprio dell’unione dell’effimero con l’eterno non è destinato a durare, o a essere ricordato a lungo, per quanto derivino da oggetti ed esperienze infinite. Abbiamo subito bisogno, dopo aver evocato qualcosa col teatro, di fare una nuova scoperta teatrale. Il mutamento domina sulla permanenza, e la morte avrà sempre l’ultima parola. Forse, anzi, l’esperienza del morire è propria solo dell’essere umano. La morte non colpisce il divino, che è per natura eterno, ma nemmeno l’animale, che stando solo nel presente non può esperire il momento del trapasso. Se infatti la bestia è sempre “qui e ora”, e se l’esser presenti significa percepire di non esser morti, allora gli animali non muoiono mai, perché quando muoiono non sentono nulla e quando son vivi non fanno ancora esperienza dell’esser morti. Noi esseri umani abbiamo, invece, cognizione assoluta della morte attraverso il pensiero. Possiamo guardare la durata del nostro presente e dei nostri attimi dal di fuori, constatando che essi sono un’ombra senza consistenza al confronto con la totalità del tempo. Noi siamo tutelari del mostruoso privilegio di essere i soli a sapere di morire.
Si può leggere questa fragilità in modo negativo o positivo. Nell’un caso, si conclude di essere un’ombra fugace. Nell’altro caso, si può provare a paragonarsi a un’ombra che danza. Se la durata della nostra vita è limitata, occorrerà cercare di renderla più intensa, dinamica e piena possibile, di infonderle insomma una scansione ritmica. Creare un ritmo significa, del resto, far sì che in un tempo limitato non ci siano momenti morti o pigri, ma che ogni singolo istante segua una scansione serrata e vitale. Ora, il teatro è un’arte che può forse riuscire a dare una scansione ritmica agli eventi della vita. Sulla scena, infatti, tutto concorre affinché si concentri in pochissimo tempo quello che vale la pena vivere o conoscere in un’esistenza intera. Ciò ha l’effetto paradossale di rendere la durata della vita dell’essere umano migliore di quella dell’animale e di dio. L’eternità divina ha un suo peso, è come un macigno che, non potendo essere mosso e mutato, permane fisso nello spazio e nel tempo. La piena contingenza animale è un flusso che non si arresta, ma anche disordinato e casuale. L’essere umano può raggiungere, di contro, per mezzo del ritmo del teatro, una sintesi efficace tra la sfera bestiale e quella divina. Si cerca di creare un tempo che è leggero e non pesante come quello di dio, ma anche più incisivo di quello fluttuante del mondo animale.
Cercare di infondere un ritmo a ombre inafferrabili è dunque forse l’attività che più ci coinvolge piacevolmente e intellettualmente. Il fascino di questi contorni sfuggenti è infatti superiore persino agli oggetti che proiettano questa oscurità. Cos’è mai la luce del sole che arriva sulla terra al confronto delle macchie solari, depressioni nere dentro una rovente superficie bianca, rossa e gialla? O quanto più leggere e fresche sono le ombre dei corpi, in quanto forme pure e senza imperfezioni?
Gli imperi che potevano frantumare civiltà crollano, i santi muoiono, gli amori si accartocciano o non iniziano mai. Laddove penso a queste cose, un essere umano mi pare fango impastato malamente. Quando vedo un mendicante che sogna o un bimbo che gioca o un poeta che scrive un verso o uno scienziato che misura l’universo, mi pare di trovarmi al cospetto di un dio mortale.
- Diventare un Giano bifronte
Ogni essere umano è come spezzato. Il suo tempo è diviso in tre aree che spesso restano separate. Uno è trattenuto dai ricordi del passato, un altro si abbandona al flusso di un presente ferino, un altro si proietta sempre in avanti verso un futuro incerto. In questo suo andar per frammenti, non si trova un individuo integro. Un “io” coincide raramente col “tempo” della sua vita.
Il teatro forse prova a sanare la frattura. Esso può provare, ad esempio, a concentrare i fatti della vita in un gesto o in un’unica scena, o a sottolineare come il passato e gli spettri dei nostri ricordi incidano sulle scelte / sulle azioni che compiamo “qui e ora”, o a dischiudere scenari che ancora non esistono e che è nostro compito cercare di realizzare, dunque un altro tempo e un nuovo spazio ancora inesistenti. Gli eventi dell’esistenza che sarebbero altrimenti caotici, separati, informi raggiungono così una bellezza e un’armonia in virtù della forma teatrale. I frammenti legati producono a loro volta musica. Un suono isolato produce infatti rumore. Tanti frammenti sonori creano invece una melodia che va ascoltata e danzata.
Il teatro forse mostra, anzi, l’irrealtà di questa tripartizione del tempo. L’armonia che si genera mostra, infatti, come l’attimo sia un punto infinitesimo del continuum spazio-temporale: una cosa infima che acquista importanza solo in quanto parte di un intero gigantesco e senza fondo. Questa consapevolezza crea un effetto di straniamento che induce ad accettare il distacco dalle poche porzioni temporali a cui siamo affezionati e a sperimentare più modi di attraversare il tempo. Chi è troppo nostalgico del proprio passato diventa cieco alle visioni che prefigurano scenari o accadimenti situati in avvenire. Quanti sono ossessionati troppo dal futuro si perdono il piacere della dimenticanza e della mancanza di pianificazione, che consente almeno per un attimo di aderire totalmente al presente e di essere animalità o carnalità pura. E chi brama troppo l’ebbrezza di questo presentismo non si accorge di quanto abbandonarsi ai ricordi ci metta di fronte a un materiale straordinario e in realtà mai compreso fino in fondo.
Non c’è insomma parte del tempo che debba essere favorita. Passato, presente, futuro hanno senso se studiati e attraversati nella loro totalità. La sfida del teatro sarebbe quella di trovare, paradossalmente, gesti o discorsi che consentano di mandare in cortocircuito i nostri modi più ordinari di stare nel tempo, tra cui rammentare il futuro (= anticiparlo come già accaduto), prefigurare il presente (= abbandonarsi al flusso animale che ci porterà verso il meglio), vivere il passato (= trasformare il ricordo morto in un gesto vitale e concreto). Per cogliere l’intero, occorre diventare un Giano bifronte. Guardare contemporaneamente verso il passato e verso il futuro, stando ben saldi nel presente.
- La massima espressione dell’ordine coincide con l’estrema espansione del caos
Da un certo punto di vista, il teatro ordina le esperienze e le conoscenze, rendendole tangibili e comprensibili. In questo ordinamento si nasconde, tuttavia, una ripercussione sinistra e misteriosa. Quanto più si raggiunge l’ordine e si comprende meglio qualcosa, tanto più si aprono scenari altrettanto insondabili dei precedenti, e la mente diventa preda di un nuovo caos.
Prendiamo un nesso qualunque, ad esempio quello già citato tra ritmo e vita. Abbiamo visto che la struttura ritmica introduce in un arco di tempo finito un’intensità vitale estrema, che avvicina noi esseri umani all’infinità. Ora, questa constatazione apre più problemi che soluzioni. Come fa una cosa a essere insieme finita e infinita? Di cosa parliamo, poi, quando parliamo di intensità? Come si produce? Si crea una modificazione del tempo reale, o solo un cambiamento nella nostra percezione della temporalità? E ancora, in che modo questo ritmo temporale trasforma anche il nostro atteggiamento verso lo spazio? Credendo di aver capito o conosciuto qualcosa, ci scopriamo insomma più ignoranti rispetto al punto di partenza. Più si impara, più si disapprende.
Vivere significa allora passare da un labirinto all’altro. “Ordine” e “caos” si mostrano essere, invece, due opposti inestinguibili. Una mente ordinatrice e che mette luce è esposta a maggiori inquietudini, o si cala in un’oscurità ancora più profonda. Il teatro infittisce il mistero.
- La verità è un abisso ghiacciato
A questo punto, il solo modo di contenere il caos in un ordine è usare un ragionamento bastardo.
Si immagini la verità come un profondo abisso in cui animali, umani e dèi si sono calati dall’inizio dei tempi fino a oggi, e forse continueranno anche oltre. Essendo stata solo in parte scoperta e portata in alto, essa è rimasta a lungo senza la luce e il calore dell’intelligenza. I recessi più profondi sono dunque come delle lucide pareti di ghiaccio, in cui il ricercatore del vero può vedere rispecchiata l’immagine autentica del mondo e di se stesso. Da sempre ci si è accontentati di rompere una parte di questa lastra ghiacciata e di portare il frammento alla superficie, prospettandola come la forma di conoscenza più salda e sicura. Ma ciò ha comportato col tempo la perdita del suo valore. A contatto con l’aria e la luce, infatti, il ghiaccio presto si scioglie e si sporca, perdendo così la sua capacità di rispecchiamento e il suo nitore accecante.
Sogno dunque un teatro che prosegua con coraggio questa discesa negli abissi, senza voler pretendere di poter raggiungere il fondo ed esaurirla. Esso indica per un attimo la parete, e dice: “ecco, questo siete voi, e questo è il nostro mondo, in larghissima parte ancora da costruire, perfezionare, conservare”. Ma lo squarcio presto si richiude e dunque invita a ridiscendere ancora, per ritrovare un’immagine altrettanto nitida, nuda, pulita. Il teatro raggiunge così il suo limite, perché di fronte all’abisso si trova costretto a un’unica azione: riconoscere l’incomprensibilità attuale dell’essere umano e del mondo, scardinando così certezze e presupposti che limitano la ricerca. Noi non sappiamo ancora niente. L’arte del teatro fa sperare che, in futuro, si riesca almeno a raggiungere la minima cognizione di ciò che siamo e del nostro posto nell’universo.
Fuori c’è il sole, le viole cominciano a sbocciare. Ma dentro fa freddo, and I am sick at heart (Hamlet, I 1, v. 9).
Enrico Piergiacomi