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Nuova lirica, fiaschi e successi. Flaiano e i marziani

«Recensione su Un romano a Marte, opera del 2015 di Vittorio Montalto e Giuliano Compagno, sulla figura di Roberto Flaiano e sul fallimento della sua commedia del ’60 Un marziano a Roma. In scena al Teatro Costanzi di Roma per il debutto assoluto con la regia di Fabio Cherstich e la direzione di John Axelrod.

Foto di Yasuko Kageyama

“Ennio Flaiano, 1910, non è nato a Roma, non è stato un fascista della media ora, non è stato un antifascista dell’ultima, non proviene da una ricca famiglia borghese, non si è mai gloriato di essere un artista, non possiede un’indole particolare, non è un uomo chiassoso e festaiolo, non è stato un comunista, non è stato un intellettuale inoffensivo, […] non è stato compreso. Non è stato compreso perché non conveniva comprenderlo, non è stato un autore satirico, non è stato un umorista indifferente, non è morto felice, non è stato invano, non è morto triste, non assomigliava né a Fellini, né ad Antonioni, non assomigliava a nessuno, non c’è un suo aforisma che lo descriva…”

Voce narrante, Un romano a Marte

 

È con questa serie di negazioni che si apre Un romano a Marte, opera composta da Vittorio Montalti, con il libretto Giuliano Compagno, vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma nel 2015, in scena per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma, dal 21 al 24 novembre. Diretta dal regista americano John Axelrod (già al Costanzi con Ascesa e caduta della città di Mahagonny quattro anni fa) e con la regia di Fabio Cherstich, vuole raccontare la storia di Ennio Flaiano, della sua Roma, ma soprattutto del suo Un marziano a Roma.  La commedia, in scena Teatro Lirico di Milano, 23 novembre 1960, con Vittorio Gassman e Ilaria Occhini, fu un clamoroso fiasco, segnale della cesura culturale tra la decadente città di Roma – città del cinema, dei caffè, dei divi, della Dolce Vita – e la Milano imprenditrice, proiettata verso il futuro. Questo è lo spunto per la creazione da parte dei due autori di un’opera nuova, moderna, costruita come una babele di riferimenti ed elementi crossmediali. Un’esperienza sotto ogni punto di vista unica, non solo per le fattezze dello spettacolo, quanto per la natura dell’evento in sé per sé.

Foto di Yasuko Kageyama

Difficile e, in un certo senso, anche molto emozionante scrivere di un’opera nuova, inedita. Per giustificare tale enfasi per questa prima rappresentazione assoluta, sarà necessario però aprire una parentesi. Per ragioni fondamentalmente storiche, quella che per la prosa è la normalità – assistere a spettacoli mai messi in scena prima – è invece una vera rarità per l’opera lirica. A partire dalla seconda metà del ‘900, la musica cosiddetta classica e quella operistica, hanno subito una battuta d’arresto, conseguenza di uno scollamento tra la sperimentazione estrema da parte dei musicisti e il conseguente e progressivo allontanamento del pubblico di massa. Se a questo si aggiunge l’ascesa dei nuovi media e il costo elevatissimo della produzione operistica, si capirà come, si sia lentamente smesso di investire nella lirica con nuove creazioni, a favore delle vecchie sicuramente redditizie opere di repertorio (per capire, l’ultima prima assoluta al Teatro Costanzi di Roma è la Sakùntala di Franco Alfano, nel 1952). Questa messa in scena, dunque, aldilà della sua riuscita artistica, è già una grande vittoria per il teatro operistico che dimostra, apprezzabilmente, di non voler soccombere. 

Un romano a Marte nell’intenzione degli autori è un omaggio a Roma e a un personaggio capitale nella storia romana: Ennio Flaiano. Artista inafferrabile, inclassificabile, attraversato da un’eterna malinconia personale che diventa riflessione comico-grottesca; lui e il suo rapporto di odi et amo con la città diventano i protagonisti. Quando il sipario si alza siamo a teatro, nel ’60, sul palco con Ilaria Occhini e lo stesso Flaiano. Dopo la sonora batosta del fiasco, li vediamo imbarcarsi insieme al marziano Kunt in un viaggio nella Roma del futuro, finendo per dover mettere in scena un’opera sul loro Marziano fallito. Il tutto narrato dalla figura del critico, personaggio soltanto parlante in scena. Trama, questa, faticosamente desunta, avendo a che fare con uno spettacolo sfaccettatissimo e, per certi versi, di difficile decifrazione. Si tratta di qualcosa che, come detto, non si è abituati a vedere dal velluto rosso di queste poltrone.

Foto di Yasuko Kageyama

Uno spartito a metà tra l’opera lirica e il teatro musicale, che degli stilemi e delle strutture classiche non ha più nulla. Drammaturgicamente, non vi sono atti, non c’è una vera progressione drammatica: sono sedici scene, come si legge da libretto, collegate sì al tema di base – la storia del Marziano di Flaiano – ma che si costruiscono più che altro per contrapposizione musicale. Montalti, parlando del metodo di lavoro adottato con il librettista, per questa e le precedenti tre opere realizzate insieme, dice: «Si è partiti dalla precisa individuazione di un mondo, per poi sviluppare una drammaturgia comune che non risultasse in alcun modo lineare. […] è impossibile scrivere musica e testo su un filo senza mai cadere nel vuoto espressivo». Ci si concentra quindi sulla resa delle «fasi emotive», bruscamente contrapposte l’una all’altra, nel tentativo di rendere la complessa emotività del protagonista. 

La vera ricchezza sta certamente nella raffinatezza della sperimentazione musicale. Montalti (classe ‘84), attualmente alla sua quarta collaborazione operistica con Compagno, vincitore a soli trent’anni di un Leone d’Argento per la creatività alla 54° Biennale di Venezia per il Festival Internazionale di Musica Contemporanea, realizza qui una partitura sorprendente. Coinvolgente, pur nella sua atonalità e in assenza di melodia, per cui si avvale di un organico tutto sommato ristretto, composto principalmente da archi, sonorità elettroniche e percussioni. Queste ultime non sono altro che dischi dei freni di automobili, bottiglie di Bacardi, padelle e teglie da forno; la parte elettronica è una campionatura di suoni, in particolare degli archi, che fungono da lunghissimo tappeto sonoro. Ancor più particolare però è la tecnica vocale dei cantanti, che pronunciano frasi reiterate, spezzettate, cantando solo alcune parole e sussurrando velocissimamente il resto della frase. Sembra, a tutti gli effetti, un rifiuto in partenza della comprensione del cantato, a favore di una intellegibilità più sensoriale e emotiva, piuttosto che linguistica, del testo. L’effetto complessivo è a volte confusivo, a volte stridente, quasi disturbante, in altre è incalzante e coinvolgente, ben in linea con la buffoneria grottesca che pervade gli elementi dello spettacolo. 

Foto Yasuko Kageyama

Un divertissement, dunque, uno sberleffo ironico e caustico, come i lavori di Flaiano, ma non solo. Cherstich è messo a dura prova dall’elevata complessità del testo operistico e, non sempre, le soluzioni registiche che adotta risultano a favore dell’intellegibilità dell’opera. Ad esempio, la presenza aggiuntiva dei due mimi in scena, spesso risulta confusiva, sovraccaricando d’azione fisica delle scene che musicalmente necessitano di tutta la concentrazione del pubblico attento al cantato. C’è da dire che la quantità di elementi e citazioni nel testo è tale da rendere difficile percorrere una strada chiara e univoca. Oltre alle mille citazioni alla vita e al lavoro di Flaiano, fanno il loro ingresso nel testo: il Gruppo 63, i drammi di Ibsen, Giovanni Papini, Gramsci, versi in latino, Nino Rota, Claudia Cardinale e Caterina Martinelli. Quest’ultima, personaggio in carne ed ossa interpretato da Valeria Almerighi, è una donna delle pulizie, sempre presente in scena. Sul finale, recita in romanesco una poesia di Hristo Botev, Pianto ridicolo, alla quale (da libretto) succede un video di Tonino Guerra, che racconta personalmente del suo amico Ennio. 

La visione dell’opera di Cherstich carica ulteriormente il significato del testo operistico. Lo snodo metateatrale del libretto diventa lo spunto per parlare del significato odierno del disfacimento del teatro d’opera: l’assenza di scenografia, i macchinisti in scena, le poltrone, l’americana di luci e le funi che cadono, i costumi mescolati, sono tutte espressioni di un teatro in rovina, da ricreare, così come tentano di dire con la musica e il testo Montalti e Compagno. Vera chicca della messa in scena è il video, costantemente proiettato sul fondo, interamente realizzato da Gianluigi Toccafondo, che rende arte le immagini di repertorio, corredando di un apparato visivo suggestivo e onirico, fil rouge dell’intero spettacolo. 

Le domande a sipario chiuso sono ancora tante. Alla fine, il pubblico applaude, anche se non è tanto convinto. È uno spettacolo difficile, pieno di elementi, cogliere tutto a un primo ascolto e a una prima visione è impossibile. Tutavia, quello che è chiaro a tutti, istintivamente, è il virtuosismo dei cantanti, dei musicisti, del direttore d’orchestra, di tutte le maestranze teatrali che hanno contribuito alla creazione dello spettacolo. Si meritano i “bravo!” Rafaela Albuquerque, Domingo Pellicola e Timofei Baranov, tutti cantanti giovanissimi provenienti dal progetto Fabbrica Young Artist del Teatro dell’Opera di Roma. Ma sul palco, per una volta, possono salire a prendersi i meritati applausi anche compositore e librettista, constando di persona che, al contrario di quanto avvenne col Marziano a Roma, il Romano a Marte, è stato un successo. Il vero marziano è allora Flaiano, mai del tutto capito perché mai del tutto incasellato, impossibile da categorizzare e da etichettare, così come avviene per la musica contemporanea. 

Flavia Forestieri

UN ROMANO A MARTE

 
direttore
John Axelrod
 
regia
Fabio Cherstich

 

scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo

luci Camilla Piccioni

PRINCIPALI INTERPRETI

ILARIA OCCHINI Rafaela Albuquerque*
ENNIO FLAIANO Domingo Pellicola*
KUNT IL MARZIANO Timofei Baranov*
IL CRITICO Gabriele Portoghese
CATERINA MARTINELLI Valeria Almerighi

dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

con sovratitoli in italiano e inglese

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Flavia Forestieri
Flavia Forestieri
Flavia Forestieri ha studiato all’Università “La Sapienza” di Roma, laureandosi in Letteratura, Musica e Spettacolo, con una tesi in storia della musica sull’opera di Bertolt Brecht “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, e, successivamente, in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi sulla regia lirica contemporanea, analizzando quattro regie de “La traviata” di Verdi. Dopo aver vinto il bando Luiss “Generazione cultura”, ha lavorato in ambito della comunicazione come addetta e stampa e social media manager alla Reggia di Caserta. Attualmente frequenta il Master in “Drammaturgia e Sceneggiatura” all’Accademia Nazionale “Silvio d’Amico” di Roma. Dal 2017 collabora con Teatro e Critica occupandosi di recensioni di spettacoli d’opera.

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