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La danza butō oggi: il corpo è critico e antisistema

Durante la decima edizione del festival Testimonianze, ricerca azioni, il Teatro Akropolis rinnova l’appuntamento con la giornata nazionale dedicata alla danza Butō, dai maestri alle nuove generazioni di performer. Una riflessione.

«Ho pensato che il movimento avrebbe potuto addirittura accendere le luci in sala», è lo stato di possibilità tensiva a farlo credere, a guardare il gesto amplificarsi imperituro in un’azione, naturalissima, che sovrasti quella meccanica e artificiale. La convinzione che possa essere il danzatore Tadashi Endo a compierlo alla fine della prima assoluta di Souls in the Sea, vuol dire conferire a quella danza un grado di fattualità che travalichi il logos e giunga alla necessità del bios. Accade nella giornata dedicata alla danza butō programmata durante la decima edizione (2010-2019) del festival Testimonianze, ricerca azioni del laboratorio Teatro Akropolis, un momento unico nel panorama nazionale che ha permesso di ragionare attorno alla parola, al corpo e alla trasmissione attraverso due debutti, una prima nazionale, un incontro e l’inaugurazione di una mostra fotografica.

C’era il corpo? Se sì, «quale corpo è andato perduto? La risposta che dobbiamo dare a questa domanda non può che essere un’ulteriore altra domanda: quale significato di corpo dobbiamo tentare di recuperare per restituire una direzione ad un percorso di consapevolezza di noi stessi tornando a praticare, o quantomeno a elaborare, un’azione non più ridotta a un’ombra di se stessa?». Questo è l’interrogativo posto dai due direttori artistici Clementi Tafuri e David Beronio ne L’oscura radice dell’animalità, saggio inserito nel decimo volume edito da Akropolis Libri.

Foto di Davide Colagiacomo

Chiaroscuri danzanti riempiono il freddo autunnale delle due sale del Maggior e Minor Consiglio del Palazzo Ducale di Genova; solenni e nobiliari nell’ospitalità, accolgono gli spettatori numerosi come un tempo, quando erano luogo di feste, balli e spettacoli. Tra l’alternanza cromatica delle venature marmoree, si dispiega quella «festa della conoscenza» che raccoglie insieme pubblico, operatori, critici, artisti, studiosi davanti all’abisso della parola danzata di Tadashi Endo, un omaggio ai migranti morti e dispersi nei flutti e agli interrogativi che porrebbero a noi vivi se la loro anima potesse abbandonare i loro corpi annegati e venirci a trovare. È nell’esperire quel «fenomeno emozionale significativo», come indicato dal prof. Raimondo Guarino, che non possiamo fare a meno di tracciare una linea di coerenza nell’azione di pensiero con le parole di Imre Thormann, un altro tra i più grandi danzatori di butō al mondo e incontrato qualche anno fa sempre grazie al Teatro Akropolis. «Il corpo è una sfera piena d’acqua nella quale le ossa nuotano»: la sfera immaginata da Thormann è come quella di Endo, entrambe mirano a ribadire l’universalità di un gesto la cui trasmissione giunge sino alla danza contemporanea, la quale continua a porre un’interrogazione mai esaurita «all’interno dell’Essere», come sottolineato dal prof. Alessandro Pontremoli. Così, tra la visione e la riflessione accademica, la danza butō e la ricerca che le gravita attorno riempiono questa giornata di questioni nodali che ricomprendono – nel significato di una rinnovata comprensione – l’ambito dell’arte tout court. In tempi di crisi, il butō è espressione inevitabile e, per dirla à la Artaud, crudele di un paesaggio interiore, intimamente rivolto al sé ma spinto a comunicarsi, nel quale ciascun osservatore può cogliere la propria di intimità. Quello che emerge dall’incontro Danza, scrittura, libri. Il caso del butō curato dalla ricercatrice Samantha Marenzi, è quanto di più sospeso nell’impossibilità di una definizione, rispetto alla quale se ne possono solo «coltivare le fratture» (Guarino) lungo una temporalità che – sin dalle origini e dagli insegnamenti del fondatore Tatsumi Hijkata innervati dalla parola artaudiana che vedrebbe secondo alcuni studiosi la sua piena realizzazione nel butō (Marenzi) – dimostra tutte le sue più stimolanti e imprevedibili idiosincrasie. Non c’è nulla di pacificato nel silenzioso incedere, neanche in quello grottesco e bestiale di 110 light years of solitude della danzatrice Yumiko Yoshioka. Nulla può dirsi risolto, tanto nella carne di colei che muove l’esistenza di una creatura unica nella sua specie e costretta a vivere in solitudine, quanto nello sguardo incredulo dello spettatore, il quale sembra essere anche un po’ disturbato da questa rappresentazione, la quale vorrebbe far leva sulla naïveté della maschera di animale ma in realtà annoia la visione.

«In primis la danza è la proiezione dei desideri della carne; è riaprirsi ogni volta alla sorgente, alla risposta originaria e all’ambiente circostante». Rispetto a queste parole da lei indicate nel testo Un’originaria esposizione al mondo, una metodologia spirituale (che cita Il corpo di Umberto Galimberti, 1987) la danzatrice Alessandra Cristiani apre la sua corporeità dapprima allo sguardo fotografico di Alberto Canu e Samantha Marenzi per la mostra Corpus imaginis e poi allo spettacolo Corpus delicti presentato in prima assoluta e ispirato ai corpi di Egon Schiele. Nell’iniziale bagliore di un corpo claustrale, il gesto organico si scioglie in un percepirsi graduale, in continuo ascolto del proprio respiro all’interno del movimento stesso che è posa ieratica. Un’archittetura del movimento sofisticata inscritta a sua volta nella sofisticazione neoclassica della Sala del Minor Consiglio. Corpus delicti è un soliloquio danzato in cui la scrittura coreografica aderisce perfettamente al sé che ora incorpora il gesto pittorico e sensuale schieliano. La nudità di Cristiani, la cui ricerca parte dalla materialità del corpo, illuminata alla luce fioca di una candela non è esposizione ma sensazione: si sente ed è a sua volta sentita, percettibilmente, dallo spettatore. Nel biancore abbacinante di una veste che diventa abito per il corpo ora non più nudo, si passa poi al tumultuoso cromatismo di un paio di pantaloni e di una giacca dalle tinte vivide e espressioniste. Nella luce di Gianni Staropoli che avvolge con discrezione il corpo di Cristiani, come fosse uno dei tanti lenzuoli evanescenti dei nudi di Schiele, il suono di Gianluca Misiti cesella questo tempo e spazio in cui «l’autoreferenzialità intrinseca che è ragion d’essere della danza butō» trova i suoi rispettivi piani dimensionali.

Siamo tornati al corpo attraverso il corpo che si fa parola, poi immagine mentale e fotografica e poi corporeità. Abbiamo allora forse recuperato il corpo? Probabilmente, e per farlo abbiamo osservato quello che la studiosa Katja Centonze definisce come «quel corpo critico che, mettendo in questione il sistema, costituisce la critica stessa, instaurando uno stato di raffinata anarchia e delineando una forma di resistenza radicale». La sregolatezza sovversiva dell’Essere è una cosa semplice e per questo destabillizzante, e non dovrebbe possedere sovrastrutture di ragionamento perché sa manifestarsi nella sua istintualità e bestialità primigenia. È lì che si torna, è lì dove la parola nasce e rincorre il corpo, e crudelmente gioca affinché si faccia carne.

Lucia Medri

SOULS IN THE SEA, HOMMAGE TO THE REFUGEES WHO LOST THEIR LIVES IN THE MEDITERRANEAN SEAS

Prima assoluta

di e con Tadashi Endo

CORPUS IMAGINIS

Mostra fotografica a cura di Samantha Marenzi.
Alberto Canu (fotografia/scatti), Alessandra Cristiani (danza/posa), Samantha Marenzi (fotografia/stampa). In collaborazione con Alfabeto Performativo / La Lupa (Tuscania) e Officine Fotografiche (Roma).

CORPUS DELICTI

Concept e performance: Alessandra Cristiani | Musica e suono: Gianluca Misiti | Luce: Gianni Staropoli | Produzione: PinDoc | Coproduzione: Teatro Akropolis | Con il sostegno di: Armunia Festival Inequilibrio | In collaborazione con: Lios, Alfabeto performativo | Con il sostegno di: MIBAC, Regione Siciliana

100 LIGHT YEARS OF SOLITUDE

Regia, coreografia, danza: Yumiko Yoshioka | Co-regia: Miguel Camarero | Costume: Pablo Alarcon | Light design, direzione tecnica: Spiros Paterakis | Musica: Tomas Tello, Zam Johnson

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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