Acanio Celestini con Barzellette ha debuttato al Teatro Vittoria per il Romaeuropa Festival. Recensione
«Venite, signori, entriamo con passi leggeri nel mondo delle storielle popolari. È un mondo bonario e gentile, che è stato perfino calunniato. Non è cattivo, non vuol far male a nessuno. […] Non chiede che un sorriso. Direte: scusate se è poco. Un sorriso! Una delle cose più importanti della vita. Ci aiuta a vivere. Ci asciuga una lagrima. Ed è così difficile strappare un sorriso al prossimo, mentre quasi tutti non cercano che di farci piangere! Ma il maggior torto delle storielle popolari è d’essere troppo ingenue. […] Esse evocano un mondo che non c’è più. In esso, figuratevi, gli alberi danno frutti del cinque per cento, i monti sono a volte di pietà, le valli sono di lagrime e la Petito, moglie del famoso Pulcinella, viene mangiando.»
Achille Campanile scrive il suo Trattato delle Barzellette nel 1961. Un trattato impossibile su un materiale, la storiella popolare, delicato, volubile, quasi quanto le Fiabe Italiane che Italo Calvino aveva pubblicato qualche anno prima. Materiale cangiante che in Barzellette, presentato a Romaeuropa Festival, anche Ascanio Celestini decide di utilizzare, in quanto matrice fedele di una cultura popolare di un mondo in parte perso, in parte sempre attuale. Proprietà della barzelletta è, infatti, quella di sapersi adattare a nuove esigenze, di aggiornarsi sul piano dei contenuti, e di farsi di volta in volta termometro di istinti e saperi profondi, non sterilizzati. Stessa sorte per tutti quei modi di dire, proverbi, scioglilingua, tutto quell’archivio di cultura orale che periodicamente si rinnova per potersi preservare (tutto il repertorio contemporaneo di meme e vignette che caratterizza l’umorismo online potrebbe essere considerato come erede diretto).
“Non è proprio un destino, ma ci rassomiglia parecchio”. La necessità di avere una destinazione è quanto accomuna i personaggi di cui Celestini racconta e che vediamo sfilare sui binari della narrazione. Un semplice uomo del ramo ferroviario, un vestito decente, un brogliaccio da riempire. Lui e il suo capostazione, sulla panchetta lisa di una stazione terminale. Si raccontano la vita, alla ricerca di un’identità, cercano i propri ruoli e personaggi tra le tante barzellette raccolte. L’itinerario del narratore è segnato dall’approdo in stazioni tutte uguali, poiché tutte uguali sono le stazioni e tutti umani, a loro modo, i personaggi che le abitano. Chi parte, chi arriva. Alcune tappe però sono diverse dalle altre, ma nonostante tutto non manca lo spazio per ridere: Auschwitz, con il suo portone di ingresso e dove oggi l’erba cresce; Bologna, con i suoi tre piani sotterranei, là dove “il biglietto è stato già pagato”, una volta per tutte.
Il viaggio di Celestini ricorda tanto quello di Antonio Tabucchi in Requiem, del 1991. Anche in Barzellette il viaggio del protagonista è scandito non tanto dai luoghi quanto dagli incontri con personaggi senza nome, sinonimi di categorie umane (il capostazione, il venditore di uova, il barbone… come nelle storielle, del resto). Ogni personaggio racconta le proprie barzellette e permette al viaggiatore di continuare nel proprio percorso. Un viaggio di memoria e fantasmi, anche questo. Lo suggerisce la stazione terminale, luogo del ricordo e del futuro, ma mai del presente; e quel binario solitario, alla fine, disabitato. Un viaggio che può avere per unica, inevitabile destinazione lo stesso punto di partenza.
Durante tutto lo spettacolo Celestini si rivolge all’unica figura che abita con lui il palcoscenico, Gianluca Casadei, autore ed esecutore live, al pianoforte e alla fisarmonica, della colonna sonora – danzante, delicata, cinematografica. Figura silenziosa, solida e impassibile, che il protagonista scambia per un becchino (soprannominato “il geometra” per la precisione nello scavare la fossa) che attende la salma del “carcamano”, un termine portoghese che designa, non proprio positivamente, l’italiano all’estero; perché è lui, senz’altro, che è morto; lui, quello c’è in tutti i piccoli paesi, quello che prende, parte, vive mille avventure, diventa ricco e fa appena in tempo a tornare. Solo nel finale i due si troveranno insieme sulla stessa panchetta di legno, a decidersi un ultimo, inevitabile ruolo.
Sono molti i riferimenti che si possono trovare per un lavoro come Barzellette: le passeggiate felliniane, i diari alla Moretti, la citazione immancabile di Campanile; Celestini – con quel fare balbettante, con quella fisicità lucidamente indecisa, con la tenerezza di un racconto che non può, non vuole darsi ragione – in questa sintesi è in grado di costruire un mondo, di calore e tenerezza, in grado di farci compagnia e, sì, di strapparci quel sorriso. Non è la barzelletta a farci ridere, è l’ironia stessa di un ruolo e di una consapevolezza che qui si concedono il lusso di prendersi un po’ meno sul serio, di valicare le frontiere di senso e lasciare fuori, anche per poco, l’angoscia delle cose che non fanno affatto ridere. A vincerci è la tenerezza di un umorismo ingenuo, non aggressivo, che ancora non ha digerito la rabbia che serve perché sia satira. E la dolcezza, quella delle piccole messe, scarne, essenziali, di una piccola preghiera per tutti i binari morti, per tutte le destinazioni mai raggiunte, e per quelle ancora da raggiungere.
Angela Forti
Novembre 2019, Teatro Vittoria, Roma, Romaeuropa Festival
Barzellette
Di e con Ascanio Celestini
Musiche di Gianluca Casadei
Produzione: Fabbrica srl
Distribuzione: Mismaonda srl
Foto © Musacchio, Ianniello & Pasqualini
Dolci e ingenue? Anche quelle sui pedofili? Non ammetto sarcasmo sugli orrori. Donne razzismo bambini… Ignobili.