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Čechov oscurato nel dagherrotipo di Serra

Presentato in anteprima durante la Biennale Teatro 2019, Il giardino dei ciliegi diretto da Alessandro Serra è adesso in scena in prima nazionale al Teatro Massimo di Cagliari. Recensione

Foto Alessandro Serra

Secondo un logoro aneddoto, Čechov reagì con stupore, addirittura indignazione, alla cifra con la quale Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko restituirono sul palcoscenico del Teatro d’Arte di Mosca il testo del Giardino dei ciliegi, in quel gennaio 1904 nel quale i tre rivoluzionari delle arti sceniche sembravano interpretare, per l’ultima volta, un’irripetibile triangolazione di genialità. Pur avendo immaginato la parabola di Ljuba Ranevskaja, di Lopachin e del vecchio Firs come una commedia, ciò a cui Čechov si trovò ad assistere era di fatto una tragedia, nella quale risultavano del tutto assenti gli accenni e le suggestioni, tipiche della farsa, della quale l’autore aveva disseminato l’opera. Lungi dal costituire un banale screzio artistico, l’episodio ha avuto l’onore, ormai storicizzato, di illuminare la natura ancipite dell’ultimo dramma cechoviano, nel quale un vertiginoso equilibrio di tonalità chiaroscurali trovava sintesi compiuta. E proprio “chiaroscuro” sembra essere il lemma in grado di descrivere con maggiore aderenza la versione del Giardino diretta da Alessandro Serra, presentata in anteprima nel corso della Biennale Teatro 2019: a emergere è stato uno stratificato accostamento di atmosfere, un tessuto cangiante di sfumature reso evidente nelle scelte scenografiche e illuminotecniche – firmate, com’è sua consuetudine, dal regista stesso – così come nella temperatura generale dello spettacolo, e si direbbe infine nel suo stesso esito. L’abilità compositiva di Serra, nota anche alle platee internazionali grazie al Macbettu, sembrava infatti – al termine della lunga rappresentazione al Teatro Piccolo Arsenale, in due atti per tre ore di azione – non riuscire a incidere il proscenio, né a dilagare verso la platea e coinvolgere così lo spettatore in un atto che fosse qualcosa di più, o di diverso, da una mera, estatica, contemplazione.

Foto Alessandro Serra

Alle drammaturgie, in un significativo plurale, Antonio Latella dedicava questa terzo anno di direzione artistica, comprendendo così «diversi tipi di drammaturgia e dell’esser drammaturghi», in un’ampiezza di sguardo in grado di muoversi «dalla scrittura propria del teatro visivo a quella del teatro che ha una matrice musicale o che è a stretto contatto con il teatro-danza», come approfondito nel testo di presentazione della quarantasettesima edizione. Ed è per questa varietà di possibili declinazioni dell’azione drammaturgica che ha trovato pienamente senso l’inserimento in cartellone della nuova creazione di Serra, benché questa avesse come punto di partenza uno dei classici più rappresentati, e rappresentativi, del Novecento teatrale. La poetica del regista – contraddistinta fin dai suoi esordi dalla cura millimetrica e parossistica posta al disegno luci, ai costumi, alle soluzioni visive e a quelle sonore – si è rivelata negli anni capace di costruire una peculiare narrazione ulteriore, posta a latere del lavoro attorale e della parola, attraverso la quale «incarnare in scena l’immagine del testo», citando le dense e preziose note di accompagnamento del Giardino dei ciliegi curate da Serra stesso e contenute nel catalogo della manifestazione veneziana. Lo spazio, la luce, gli oggetti, il suono, i corpi degli attori: tutti gli elementi che concorrono alla creazione del fatto spettacolare acquisiscono nelle intenzioni di Serra una valenza prettamente drammaturgica, capace di «disvelare l’immagine che si nasconde dietro al testo». 

Foto Alessandro Serra

Appare così evidente come, una volta ancora dopo la versione barbaricina del dramma shakesperiano, Serra abbia costruito, al di sopra e accanto all’opera cechoviana, una sofisticata architettura sonora e scenica, debitrice sia di un universo visuale variegato, sia di una ricerca vocale, musicale, coreutica che qui si è espressa nei timbri delle voci, nelle posture degli interpreti, nelle brevi sequenze danzate o cantate. Esemplare, in questo senso, l’immagine sulla quale si apre l’opera: uno spazio notturno e cinerino, nel quale gli attori entrano uno alla volta, circospetti, osservando l’ambiente immerso nel silenzio che solo il rumore dei passi, amplificato, è capace di spezzare. Ognuno sembra avere una gestualità caratteristica, una malcelata angoscia o una quieta risoluzione, che traspare dalle membra e conferisce una biografia al corpo; tutti, infine, si sdraiano a terra, colti da un sonno fin troppo simile alla morte. A cristallizzarsi davanti agli occhi dello spettatore, prima che la vita rianimi il gruppo, è un polveroso dipinto a olio, un frame di una vetusta pellicola cinematografica che già tradisce lo sfacelo del tempo e il destino che incombe sull’amatissimo giardino di amareni. È una suggestione pittorica che Serra rende tanto a livello scenografico quanto prossemico: su un palco pressoché costantemente vuoto, sono i fondali – ora scuri, ora color seppia, infine dorati come in una tela di Klimt – a costituire la superficie dalla quale si staglia, come in un ritratto d’epoca, un ensemble coeso, nel quale si segnalano la Ranevskaja trattenuta di Valentina Sperlì e il Lopachin di un eccezionale Leonardo Capuano. Freeze fotografici interrompono le diagonali veloci, il formarsi di piccoli gruppi, le singolari processioni percorse dagli attori, in un impianto di movimento che si definirebbe a buon diritto coreografico; i corpi illuminanti – a tratti agiti, secondo la cifra di Serra, dagli stessi attori – proiettano ombre e tagli di luce, conferendo un’atmosfera debitrice del magistero di Caravaggio, dei fiamminghi, di Rembrandt. A svolgersi è così un’alternanza di statutario immobilismo e nervosa iperattività, nella quale il gruppo di famiglia sembra quasi essere eterodiretto, dominato da un fato – come nella sequenza dei giochi di prestigio di Carlotta Ivanovna – che ne dirige i passi verso un improcrastinabile tracollo.

Foto Alessandro Serra

Eppure, a fronte di una tale, straordinaria accuratezza, ciò che sembra mancare è l’intuizione, l’afflato che conduca il Giardino verso quella contemporaneità del quale il Macbettu – con il ricorso a una compagnia monosessuale, filologico e al contempo modernissimo; con la traduzione in limba sarda che era affondo in uno spazio e in un tempo altri rispetto alla Scozia è stato superbo veicolo. A permanere è un’impressione di fredda, distaccata esecuzione di una partitura, i cui cromatismi sembrano limitarsi alla dimensione formale senza rivelare di essa l’anima, senza suggerire di un racconto che è anche testimonianza di una temperie storico-politica chiusasi da più di un secolo, e in quanto tale a rischio di una resa puramente illustrativa quei sensi inaspettati che il Macbeth, una volta ancora, sembrava dischiudere. La bidimensionalità, timbro con il quale Serra sembra aver voluto firmare questo Giardino, sconfina dal piano pittorico a quello contenutistico, appiattendo in una fotografia o forse in un dagherrotipola vertiginosa indagine cechoviana, emotiva e psicologica, di un gruppo di esistenze colte nell’istante di declino di un mondo. Fuori il tempo scorre inesorabile e lancinante, abbattendo alberi e sogni, conferendo nuovi prestigi e posizioni; qui, esso è soltanto una gigantesca catasta di vecchie sedie, raccolte nella casa prima luogo di giochi e amori, e adesso pesante bagaglio di spalle troppo deboli per sorreggerlo. 

Alessandro Iachino

Teatro Piccolo Arsenale, Venezia agosto 2019

IL GIARDINO DEI CILIEGI
regia 
Alessandro Serra
con
 Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini
drammaturgia, scene, suono, luci, costumi 
Alessandro Serra
consulenza linguistica Valeria Bonazza, Donata Feroldi
realizzazione scene Laboratorio Scenotecnico Pesaro
direzione tecnica e tecnico della scena Giuliana Rienzi
collaborazione ai costumi Bàste
tecnico luci Stefano Bardelli
tecnico del suono Giorgia Mascia
organizzazione e distribuzione 
Danilo Soddu
produzione Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE – Teatro Piemonte Europa, Printemps des Comédiens (Montpellier)
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Triennale Teatro dell’Arte di Milano

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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