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Trasmettere le pratiche creative, è possibile?

Dopo aver preso parte a Trasmissioni, prima sezione di Teatri di Vetro 13, cerchiamo di dare risposta ad alcuni quesiti sorti durante la tre giorni in Tuscania.

Foto di Margherita Masé

Eredi del Novecento teatrale, la cui tradizione ha saputo imporsi sulle pratiche sceniche in maniera incisiva delineando, e segmentando anche, una pluralità di approcci distinti in scuole e metodologie, ci ritroviamo oggi in un orizzonte alterato da contaminazioni, incursioni multidisciplinari che rendono l’insegnamento e lo studio sempre meno impostati. Ormai dunque, docente e discente non sono più ruoli ma variabili inserite all’interno di una comunità che osserva, ascolta e attraverso la partecipazione e condivisione diventa tramite di un processo.

I festival si fanno sempre più custodi di un’attenzione precipua e continuativa al lavoro degli artisti, dimostrando prossimità ai processi durante tutta la stagione teatrale e smarginando oltre la durata definita dei giorni della rassegna. Teatri di Vetro, in anticipo della prossima e tredicesima edizione dello storico festival delle arti sceniche contemporanee diretto da Roberta Nicolai, ha trasmigrato alla fine del mese di settembre dal caos urbano verso la calma della provincia viterbese di Tuscania. Uno spostamento questo che, come prologo anticipante il festival che si terrà nel mese di dicembre al Teatro India, si prende tempo per riflettere attorno alla complessità del fare scenico, indagando così i poli della trasmissione e della creazione. Trasmissioni è proprio il nome scelto per questa prima sezione di Teatri di Vetro che si concentra sul tema della trasmissione in danza selezionando, ogni anno, tre coreografi che durante la residenza di cinque giorni conducono un laboratorio con tre classi diverse di allievi. Una pratica questa che non si conclude nella performance ma che si apre nel suo divenire al pubblico di storici della danza, teorici, operatori, critici, artisti e spettatori per interrogarsi insieme sulle modalità attraverso le quali si dispiega la pratica.

Foto di Margherita Masé

Esiste ancora il metodo? Nel prendere parte ai laboratori dei tre coreografi selezionati, Silvia Gribaudi, Chiara Frigo e Salvo Lombardo, ci siamo resi conto come i contorni della docenza sono sempre meno definiti ma si costruiscono, e sono costruiti, dal dialogo che la comunità, sia dei partecipanti al laboratorio che degli astanti uditori, intrattiene con essi attraverso l’ascolto e l’interrogazione. A conferma dell’introduzione fatta dalla direttrice Nicolai, si diventa così tutti «complici poetici che osservano un’indagine». Nell’abbandonare quel lascito metodologico che contraddistingueva gli insegnamenti dei maestri della danza della scuola novecentesca, oggi l’attività didattica si ripensa partendo proprio dalla necessità di definire il contesto semantico: come si trasmette una pratica, ma soprattutto, come si parla di una trasmissione? È primariamente una questione di lessico, di definizione di un vocabolario condiviso che, una volta esplicitate delle categorie, le decostruisce e le rende fluide. Il metodo non si impone più dunque, il metodo non è metodologia implicita ma si configura allora come una traccia da rispettare, quella che Chiara Frigo definirà «informazione originaria da sporcare il meno possibile». La pratica è in nuce e permane intatta nel rispetto del suo principio ma “si corrompe” e muta quando viene resa attraversabile dalle tre performer che hanno preso parte al laboratorio. Infatti durante Stato H_d – il quale prende avvio dal processo artistico della performance Himalaya_drumming – a emergere è primariamente l’esperienza intima, sensibile e di cura che precede lo stato performativo e che assume i contorni di una latenza.

Foto di Margherita Masé

Esistono ancora i maestri? Abbandonando un’impostazione gerarchica tra teoria e pratica, Salvo Lombardo con Atrio, ha preferito creare un workshop che fosse «un dispositivo mobile, fluido e aggiornabile» in cui far confluire un tempo, e altrettanti tempi diversi, attraverso una componente ludico interattiva. La figura del maestro è ricompresa in una pratica di realtà che stabilisce una relazione orizzontale tra docente e discente. Accompagnato dalle due colleghe Fabritia D’Intino e Margherita Landi, Salvo Lombardo ha suggerito un tema di lavoro edificabile tanto da sé e le sue collaboratrici che dai partecipanti alla piattaforma. «Nell’imbarazzo, la decisione ritmica» questa una delle indicazioni date da Silvia Gribaudi nel suo territorio di esplorazione che è stato Mon Jour Studio, produzione 2020 che troverà compimento nell’ambito del progetto Corpo Links Cluster promosso da Torino Danza. Durante la prima parte dell’esito, Gribaudi fornisce delle indicazioni live ai performer che permettono loro di guidarli nella restituzione e di modificarla in base alle reazioni del pubblico: «l’empatia col pubblico crea dipendenza». Il crinale di questa che lei definisce «antropologia artistica» è quello dell’indecisione, a rendere tanto l’insegnamento che l’habitat creato dalla pratica manifesta, modificabile.

Esisterà ancora lo spettacolo? «Siamo nella trasmissione, non nello spettacolo», dirà Gribaudi, e Lombardo risponderà che «i processi non necessariamente saranno preludio di alcuna opera». La difficoltà non è solo relativa alle modalità attraverso le quali si trasmette una pratica, analisi che dipende necessariamente da un’elevata capacità di straniamento e di osservazione dall’esterno del proprio modus didattico; ma anche nel raccontare questa vicinanza al lavoro degli artisti.

Foto di Margherita Masé

Non siamo stati parte di un processo, siamo entrati nel momento in cui esso si fa trasmissibile. Il racconto è dunque in medias res e come la trasmissione si costruisce performativamente, esso va costruito anche attraverso la memoria dei luoghi esplorati: il Supercinema, i mitologici Magazzini della Lupa di Marcello Sambati e l’ex Tempio Santa Croce. La trasmissione si fa logos, appartato e discreto rispetto alla con-fusione festivaliera e ritrova quella densità di protezione in cui si inscrive anche il ritorno dopo dieci anni di un’artista come Chiara Frigo che, tramite questo momento di trasmissione preliminare allo spettacolo Himmalaya _drumming in cartellone a TDV13, ha scelto gradualmente di rientrare nel suo corpo e nella pratica: «e poi ho premuto play».

Lucia Medri

Teatri di Vetro, Tuscania – settembre 2019

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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