E se parlassimo, caro lettore, come non ci accade mai? È il solo modo di dirci dell’arte e degli artisti. Ne conosco uno, si chiama Giulio Stasi…
Caro lettore,
siamo soli – tu e io – in mezzo a tanti e da parecchi anni, a darci conto di una passione che affonda nel rigore e nella meraviglia, intrisa dalla disciplina e dall’apparizione. Ci conosciamo appena. Eppure. Ci conosciamo tanto, siamo stati fratelli in sale buie, abbiamo gioito dallo stupore e pianto dal dolore, condiviso spazio e tempo nel solo modo possibile a una condivisione: nell’astrazione, ove ogni uomo è l’altro e l’altro è l’uomo. Tra di noi, lettore, c’è affinità non meno che distanza, una fessura che ogni volta si allarga e si restringe secondo il compimento della sensibilità, talvolta arresa a una catarsi intima e profonda, talvolta impedita, immobile sul limite della superficie.
È raro che io ti parli così. Spesso il nostro dialogo è fatto di un linguaggio più formale, di una mediazione conveniente a mantenere i ruoli. Ma importa forse il ruolo o la missione? Ci sono poi certi momenti in cui non posso io per primo fermarmi nella convenzione, ci sono parole che non possono stare in gabbia, perché sono il ringraziamento per qualcuno che le ha liberate e ora hanno bisogno che tu le ascolti. Ora, ora che voglio parlarti di un artista. E, così, parlarti dunque dell’artista. Si chiama Giulio Stasi e vive negli interstizi del nostro mondo di teatro, fatto di produzioni, residenze, prove, montaggi e repliche, in quel margine dove convivono il pericolo di scomparire e la gioia di aver conservato un segreto, pur sotto un misero strato. E in quello spazio marginale, quella buia intercapedine, Stasi tiene unite in uno stesso pugno la vita e la propria vocazione, cercando di coniugare le scelte esistenziali e quelle artistiche, più ch’è consentito a un uomo in questo tempo che gli artisti non li vuole.
Un uomo, caro lettore, coglie l’arte quando sa tenere insieme la visione interna e quella esterna, gli occhi e l’anima coesistono uno spazio e un tempo, perché siano il campo di indagine di infinito spazio e di infinito tempo. E allora prima di ogni cosa c’è un furgone, dove vivere in movimento; dentro c’è un letto e scatole di abiti, il necessario per portarsi casa dietro, ovunque si voglia andare, ovunque porti il viaggio, ovunque non sia la meta; Stasi vive nel furgone in giro per l’Italia, dove il viaggio lo conduce, attende il sospetto di vita che c’è negli accadimenti imprevisti ed improvvisi, lo segue con fiducia al divenire che solo un artista può avere. Questa performance, dal nome Morandi, non può che cominciare dal furgone, insieme a poche persone come in una zattera di fiume si raggiunge un luogo dedicato – inutile rivelare – e una voce dispone l’ascolto di ogni solitudine; Stasi racconta la propria vita nomade, cerca di confidare quanto si riesce a vedere quando gli occhi non sono che gli ultimi testimoni di uno sguardo interiore, profondo; poi, come eterodiretti, si entra in questo luogo scelto per significare di nuovo uno spazio nascosto della città, ma si entra nello stesso tempo in una dimensione intima per significare di nuovo sé stessi.
Stasi ha scelto, per sua natura e quindi proprio dentro la natura, di spostare il punto di osservazione, allontanarsi appena un poco fuori dal cono di luce, nello spazio d’ombra in cui la luce è, appunto, una scelta cosciente; l’artista, separato dalla realtà, la riconquista attraverso un processo sensibile e come il Bartleby di Melville preferisce di no, privilegia di partecipare la realtà avviluppandosi a essa in una concomitanza quasi viscerale, consistendola, diventando lui stesso la realtà.
L’artista è colui che ti sussurra in un orecchio e ti suggerisce di immaginarne un’altra, di realtà, o meglio, di guardare la realtà e supporne un’altra; l’artista Giulio Stasi rivela che la realtà è in offerta al mercato dei sogni, lui conosce il prezzo ma non importa, c’è un forziere di monete e desideri d’oro puro appena sotto il mare, nell’oceano da cui la vita ha origine. È dunque allora, caro lettore, in questo guardare spazi vuoti dell’esistente e riempirli con qualcosa di proprio, silente, che prima non c’era e adesso c’è, che si compie il miracolo dell’arte: ognuno raccoglie un segreto appena accennato nel visibile, dentro un intervallo polveroso e inerte in cui la vita ha mille strati di una morte; ma dove, proprio in quel piccolo frammento del finito, rinnovare l’intenzione all’infinito.
Simone Nebbia
Ovunque, Roma, Settembre 2019
MORANDI
di e con Giulio Stasi
driver Luna Romani