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Edinburgh Fringe. Viaggio nel festival più grande del mondo

Un viaggio nell’Edinburgh Festival Fringe. Siamo stati tra le venues e gli spettacoli dello storico festival scozzese. Prima parte di un reportage in due puntate.

Foto Angela Forti – Cowgate

Passeggiando per le vie della vecchia Edimburgo sembra di perdersi tra le pagine di Charles Dickens. Con la sua geometria industriale di vicoli stretti e profondi, di palazzi accalcati, la vittoriana Edimburgo respira nei vetri delle finestre che ovunque riflettono il cielo e ciò che accade intorno.

Quattro festival internazionali durante il mese di agosto. Assembly Festival, finanziato da una delle più importanti aziende produttrici di sidro della Scozia, International Book Festival, Edinburgh International Festival, per il teatro “on”, con nomi del calibro di Ian McKellen, e, ovviamente, il Fringe, il più grande festival off di arte performativa e teatro del mondo.

Duecento venues allestite nei luoghi più improbabili – nel museo di chirurgia, negli spazi dell’università, nelle chiese, negli hotel – ogni giorno mille spettacoli tra cui poter scegliere. Migliaia di persone si accalcano nei vicoli, ai box office, nei pub. Follia, è la prima cosa che viene da pensare appena arrivati. 

Per le strade i performer trovano i modi più disparati e assurdi per promuovere il proprio show e distribuire cartoline di ogni genere – quelli che nella borsa del giornalista diventano chili e chili di carta. Gente tappezzata di volantini, performer in desabillé con le cartoline nelle mutande, intere compagnie che sfilano danzando per le strade. Ovunque manifesti, locandine, a cui ogni giorno vengono aggiunte le nuove recensioni, le stelle scintillanti di qualche nuovo giornale.

Nel programma da 461 pagine – una specie di elenco telefonico – bisogna muoversi un po’ a naso, poiché le categorie sono molto ampie (Commedia, che qui gode di una categoria separata, Varietà, Children Shows, Danza e Physical Theatre, Teatro, Musica) e ogni spettacolo sfoggia poche righe di presentazione, spesso tratte da recensioni di giornali di cui, noi poveri italiani catapultati qui, siamo pressoché ignoranti.

Foto Angela Forti – Grassmarket

Tutto fa un po’ paura all’inizio, soprattutto la dinamica economica per cui la compagnia, alla ricerca disperata di pubblico e “recensori” – brutale traduzione del brutale “reviewers” –  deve promuoversi da sola, in totale concorrenza con tutte le altre; conviene non tenere addosso il vistoso pass arancione della stampa, se non si vuole essere fermati a ogni angolo dal PR dell’ennesima compagnia, che cercherà di catturare il vostro interesse con i metodi più studiati: dal regalarvi utilissimi gadget all’intervistarvi – quest’ultima mi è successa con una compagnia di teatro d’ombre di Taiwan e Macao, ai quali stavo cercando di proporre una video intervista per poi ritrovarmi con una sagoma cinese in mano a parlare del loro spettacolo davanti alla loro telecamera.

Paura e entusiasmo, poiché è davvero una visione rassicurante e felice quella di centinaia di persone venute da ogni angolo del mondo in fila per il biglietto di uno spettacolo teatrale.

Foto Angela Forti

L’organizzazione è impeccabile. La città è pulita, ordinata, tranquilla nonostante i fiumi di gente e di – ottima, ovviamente – birra. Il festival, avendo organizzato una decina delle venues con street food e open bar, sconti operatori compresi, centralizza l’affluenza nei principali luoghi di interesse, riesce a creare luoghi di scambio e di incontro dove poter coronare l’esperienza teatrale. Alla centrale del festival, luogo dedicato a operatori e compagnie, ci si scambia opinioni e punti di vista, si incontrano realtà internazionali, si crea dialogo.

Nel programma si trovano qua e là spettacoli di tipo eno-gastro-performativo. Shakespeare for Breakfast, Dickens for Dinner, degustazioni di whisky, serate a tema scozzese, nel tentativo di dare allo spettatore/critico una prospettiva completa di un festival internazionale che però non rinunci allo specifico del luogo che lo ospita. La Scozia diventa protagonista in una serata dal taglio più turistico, un grande cabaret allestito alla storica Prestonfield House, con la compagnia folk The Famous Taste of Scotland, così come in momenti più raffinati, come nel percorso di degustazione All senses ahead organizzato alla Scotch Malt Whisky Society, tra le più antiche distillerie scozzesi. Con il teatro forse non si mangia nemmeno in Scozia, ma a teatro sì. 

Un’app android appositamente creata permette all’avventore di salvare gli spettacoli di interesse, di calendarizzarli, di trovare le venues. Tutto in un’atmosfera comoda, accogliente, in cui il messaggio principale sembra essere “tranquilli, abbiamo tutto sotto controllo”. 

Foto Angela Forti – The Scotch Malt Whisky Society, Queen Street

Forse non è l’amore per l’arte, la passione incondizionata, la credenza tenace nel ruolo vitale del teatro, a guidare tutto questo. In questo generatore di soldi (per tutti, tranne che per chi fa spettacolo) sono le compagnie stesse a investire nel proprio progetto artistico, a finanziarsi la presenza in una delle più importanti vetrine per il teatro internazionale. A sostenersi a vicenda negli spettacoli, fronteggiando così il rischio di una guerra aperta per lo spettatore.

È una macchina economica, è vero. Ma funziona da Dio.

About bodies. From the East, with love

Nel programma di danza e teatro fisico – che vede nomi di rilievo internazionale come Okham’s Razor, i russi Alyona Ageeva’s PosleSlov Theatre, la nostra Chiara Bersani – le compagnie orientali segnano un punto sul tabellone. La performance è tecnologica, tecnicamente sensazionale. Oltre la danza e oltre il teatro, in una precisa collaborazione tra i linguaggi della scena, nella fusione tra oggetto macchina inanimato e corpo vivo e teso che freme. Ma al di là dell’aspetto estetico, ciò che più salta agli occhi è l’urgenza – quella parolaccia brutta che usiamo sempre più spesso e sempre meno a ragione – politica e concettuale di un progetto di ricerca che valica i limiti dell’evento spettacolare. Victor Fung con From the top porta l’interpretazione ironica del rapporto dispotico danzatore-coreografo su un piano politico, con un appello al sostegno degli spettatori in quella che ormai si è fatta lotta civile per i diritti in tutta la regione di Hong Kong. In Monster di Yen-Cheng Liu (Taiwan) tempo meteo e cronologico si intrecciano in una riflessione corporea sulla frenesia del moderno: un corpo che esplode silenziosamente, nel cui ventre il pubblico è ammesso a osservare la catastrofe in corso, in una scena fumosa, dove le informazioni blaterate si sovrappongono, dove la rilassata flemma di uno schermo bluetooth continua a scandire le condizioni meteo – disastrose, irreversibili – impassibile rispetto al performer che, nel frattempo, si scioglie.

Dall’est, con amore. Una cartolina in bianco e nero dall’Oriente, piena di interrogativi ma anche di speranza e tensione creatrice; dove il futuro dell’arte può farsi sentiero suggerito alla redenzione dell’uomo.

Foto Duan Shin Te Production – Monster

About wor(l)ds

Il “politically correct”, così come altre trovate contemporanee con dicitura rigorosamente anglosassone, “privacy”, “audience development” e consanguinei, domina la nostra quotidianità. Ormai è difficile trovare il politicamente scorretto perfino nelle provocazioni, come non è così semplice, del resto, individuare il confine tra correct e uncorrect – e già questa mia affermazione è ambigua. Restando in questo ambito privilegiato – quello dell’ambiguità intendo – ci sono un sacco di cose che “non sta bene”, “non è il caso”, un sacco di argomenti delicati, taboo, un sacco di perifrasi francesismi eufemismi coniati appositamente per non urtare la sensibilità di alcuno; più tutti i sinonimi che troviamo per sostituire più comodi e comprensibili insulti – i quali devono essere relegati alla nostra sfera privata, se proprio ci teniamo ancora a essere volgari. Sarebbe interessante analizzare quel “politically”. Mi si conceda la scorrettezza: applicando la locuzione ai più svariati ambiti della nostra vita, non certo solo a quello che il senso comune individua con la politica (forse, a ben guardare, il meno corretto di tutti), le possibilità sono due: lo applichiamo male, oppure la nostra vita è molto più politica di quanto crediamo.

La Middle-Weight Theatre Company con Amendments: a play on words, immagina un mondo distopico (ma forse anche no) in cui la politically correctness ha decisamente preso il sopravvento: la scena è interamente ambientata nell’ufficio del manager Kenneth, dove lo sventurato John Chesterton è costretto al quarto grado per averci provato con una collega – in modo spudorato, per giunta, chiamandola per nome e prendendola a braccetto; un atteggiamento davvero alle soglie della molestia. Ogni frase, ogni parola di John che non rispetti gli standard aziendali viene istantaneamente corretta dal grande capo con un gesto di visibile disapprovazione e una spunta rossa; le peggiori scatenano addirittura il cartellino giallo. Amica? No. Angela? Peggio che mai. Collega?! Oh, perfetto John. “Mi piaci” diventa, così, “Apprezzo la tua professionalità”. Banditi tutti gli insulti, tutte le affermazioni decise, tutti i rimproveri. “Possiamo raggiungere obiettivi ancora più alti” va al posto di “Hai sbagliato” e di “devi ancora imparare”, tutto il linguaggio viene conformato all’insegna della correttezza e del vocabolario aziendale. Prodotto in serie, anche lui, con lo stampino. Non si dovrebbe dire mai in una recensione, ma la commedia è perfetta: brillante, ritmata, pervasa da uno humor sottile e ingegnoso. Del vertiginoso testo in inglese non si perde una parola, la mimica dei due attori è precisa nei tempi comici, esilarante nelle espressioni del capo-despota-ipersensibile. La questione, inoltre, appare più complessa del previsto. Quando John attacca con l’atteso, meritato, forse prevedibile monologo sull’importanza della sincerità, della variabilità e ricchezza del linguaggio, su quanto sia sbagliata la politica dell’uniformità e del non prendere posizione, lo spettatore in poltrona pensa: vi prego non finitela così, non può finire così. Perché è davvero troppo banale, troppo corretto che finisca così.

E infatti… Kenneth, che finalmente rivela un’umanità sotto la maschera patologica dell’ansia e del rigore, contrattacca alla grande sui danni della parola incosciente e istintiva, sull’importanza di motivare il prossimo e di farlo con tutta la gentilezza possibile, sulla necessità di annullare tutte le distanze linguistiche aprioristiche pregiudicanti, da quelle di genere a quelle sociali. La questione che questo finale va a spalancare vale più di tutte le risate precedenti. 1 a 1, e la partita resta aperta.

A proposito di parole poco corrette, Broken English è il titolo di un altro spettacolo di prosa, della compagnia londinese PoetryHouse.

La locuzione, anche nota come “fractured English”, letteralmente “inglese frammentato” o peggio “inglese guasto”, designa le varianti incerte o non ben strutturate delle lingua inglese (un non inglese che parla inglese, in sintesi); essa viene applicata a tutte quelle varianti che, derivate da una ormai antica esportazione della cultura anglosassone (in termini meno corretti colonialismo), si sono col tempo sviluppate come lingue autonome.

Ne è un esempio il patois giamaicano, una lingua creola basata sull’inglese parlata in Giamaica, nazione di origine del regista Jamhar, Costa Rica e Panama. Quelli che potrebbero essere i nostri dialetti, per capirci – per quanto non vada dimenticata la differenza fondamentale tra l’italiano, una lingua consuntiva, e le varianti sopra citate, tutte nate dall’innesto dell’inglese britannico con le lingue del luogo.

L’idea è quella di un viaggio nella storia geografica dell’inglese, per redimere quelle che non sono “lingue guaste”, figli bastardi della grande mamma Inghilterra, bensì nuove lingue dalle mille svariate potenzialità, anima di culture autonome. Ad accompagnarci quattro performer provenienti da altrettante zone anglofone, in un misto di rap, scioglilingua e monologhi volti a svelare il potenziale denigratorio e differenziale delle definizioni, e dei sinonimi ingannevoli.

to be continued…

Angela forti

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Angela Forti
Angela Forti
Angela Forti, di La Spezia, 1998. Nel 2021 si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza Università di Roma, con un percorso di studi incentrato sulle arti performative contemporanee. Frequenta il master in Innovation and Organization of Culture and the Arts all’università di Bologna. Nel 2019 consegue il diploma Animateria, corso di formazione per operatore esperto nelle tecniche e nei linguaggi del teatro di figura. Studia pianoforte e teoria musicale, prima al Conservatorio G. Puccini di La Spezia, poi al Santa Cecilia di Roma. Inizia a occuparsi di critica musicale per il Conservatorio Puccini, con il Maestro Giovanni Tasso; all'università inizia il percorso nella critica teatrale con i laboratori tenuti da Sergio Lo Gatto e Simone Nebbia e scrivendo, poi, per le riviste Paneacquaculture, Le Nottole di Minerva, Animatazine, La Falena. Scrive per Teatro e Critica da luglio 2019. Fa parte della compagnia Hombre Collettivo, che si occupa di teatro visuale e teatro d’oggetti/di figura (Casa Nostra 2021, Alle Armi 2023).

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