Secondo capitolo del reportage dal Fringe Festival di Edimburgo. Il focus è sul teatro di figura
Leggi la prima parte: Edinburgh Fringe. Viaggio nel festival più grande del mondo
About puppetry
Quando si muore si muore tre volte. La prima spirando, la seconda durante il funerale, la terza l’ultima volta che il nostro nome viene pronunciato. Muore tre volte Ebony, in The Three Deaths of Ebony Black, una performance dai toni macabri e ironici alla Funeral Party. La famiglia e i magheggi da testamento sono in primo piano, in un gioco scenico vivace e dal ritmo serrato: da pupazzi stile Bunraku a piccoli pupazzi a bastone (stick-puppet), il linguaggio scenico è variegato e d’effetto.
Un piccolo spettacolo da tavolo intorno a una bara, sei personaggi tipizzati e comici animati con precisione da Amberly Cull e Robert Wood, che in scena fanno tutto da soli, con pulsanti e telecomandi nascosti sotto al piano di lavoro, dentro le tasche: dalla musica agli effetti luce in stile cinematografico, ironizzando sulle défiance e sui passaggi tecnici a vista, che in questo modo diventano parte integrante della drammaturgia. Il tono di humour che aleggia sulla bara della defunta Ebony contribuisce a togliere l’argomento da un consueto tono di pesantezza e di circostanza. Gli animatori si fanno presenza viva insieme ai loro puppet, interagiscono, la finzione è totalmente dichiarata, ma non ciò non toglie al pubblico – prettamente adulto – di lasciarsi trasportare nel ritmo della scena.
Al Fringe di Edimburgo – e in generale, si potrebbe dire, nell’Europa di oggi – il teatro di figura non fa specificamente riferimento al teatro infanzia. Per questo nel programma del festival non ha una sezione dedicata ma si trova abbondantemente spalmato su tutte le categorie. Esso è linguaggio scenico prettamente teatrale, sfruttato da tutti gli altri in termini di potenza scenica. E spesso, decisamente non adatto ai bambini – o quanto meno non a loro dedicato, se è vera la teoria che i bambini a teatro possono vedere tutto, o quasi tutto. Si tratta di spettacoli come l’incredibile Frankenstein di Manual Cinema – vedi il focus che segue – e Looking Down on Me di Unexpected Places, spettacolo più convenzionale e autobiografico che sfrutta il rapporto scenico tra attori e pupazzi di stoffa di grande formato per trattare il tema della morte e dell’elaborazione del lutto in età infantile.
È forte in tutto il festival la presenza di compagnie orientali: un’occasione per loro non scontata di valicare i confini delle proprie nazioni, per noi non usuale di incontrare culture teatrali potentemente attuali pur se distanti.
Nel fortuito accampamento di un senzatetto rivive Il principe felice di Oscar Wilde come simbolo del gesto di gentilezza in grado di generarne mille altri. Una recitazione stilizzata, quella dei coreani Modl Theatre, lontana dai nostri schemi di visione e tesa alla sintesi emotiva: in una sequenza mimica che amplifica gesti topici viene presentato tutto insieme il personaggio, con la sua vicenda personale e il suo stato d’animo.
Su un insolito telo di proiezione – un cellophane rattoppato e stropicciato che il protagonista usa come coperta – le ombre colorate di sagome meccaniche restituiscono i personaggi della storia originale, mentre l’eroe della scena si appresta a ripeterne i gesti, a rinnovarne il messaggio di amore e gentilezza.
Particolarmente interessante è stato l’intervento dello Shadow Legends Drama Group di Taiwan e Macao: veniamo introdotti a una lezione-spettacolo sulla pratica del teatro d’ombre tradizionale cinese – che riecheggia nel teatro d’ombre contemporaneo occidentale, ma che comunque ha perso con il tempo il proprio specifico. Vengono illustrate le modalità costruttive delle sagome, un processo complesso ancora basato sui metodi artigianali, e ne viene spiegato il metodo di animazione: la sagoma rimane sempre appoggiata contro il telo di proiezione, in totale assenza di profondità e con movimenti solo sul piano verticale; l’animazione è di tipo orizzontale, ovvero la sagoma è manovrata dall’alto, con due bacchette: una per la testa e una per il braccio destro (ogni sagoma e personaggio ha poi le proprie articolazioni). Durante lo spettacolo, riproposte con temi e personaggi dell’immaginario infantile contemporaneo, ci vengono mostrate le sequenze topiche del dramma tradizionale di ombre cinesi: la scena d’amore, la divinità, il combattimento, mentre un’assistente di scena fa ruotare lo schermo di proiezione per rendere visibile il backstage, dove gli animatori si agitano e urlano per dare voce ai personaggi. Gli spettatori sono invitati a sperimentare l’animazione in prima persona e a prendere parte attivamente alla costruzione dell’evento.
Viene da ridere pensando quanto tali tecniche di primo impatto ricordino alcuni dei nostri linguaggi tradizionali, i pupi siciliani ad esempio: una recitazione stilizzata e iper-espressiva, sagome animate dalla testa, con un solo braccio, il destro, articolato, sagome pensate per smontarsi durante i combattimenti, i quali sono sviluppati su un serrato schema ritmico-musicale accompagnato dalle percussioni tradizionali live e dai moduli vocali standardizzati degli animatori. Forse non siamo così distanti.
FOCUS – Manual Cinema’s Frankenstein
La McEwan Hall, in Bristo Square, è la sala di laurea dell’università di Edimburgo e una dei venue più lussuosi di tutto il festival. Trovandomi lì per caso un pomeriggio ho scelto, altrettanto casualmente, uno degli spettacoli in programmazione, il Frankenstein di Manual Cinema.
Gli spettacoli del Fringe sono di solito caratterizzati da una dimensione ridotta della scena e soprattutto da un apparato scenico essenziale – questo a causa dei tempi di montaggio limitati e dell’uso di spazi adattati e non prettamente teatrali.
Questa volta, invece, entrando in sala subito si è colpiti da un palcoscenico ben più grande della media e da un denso ingombro di attrezzature, oggetti, postazioni, in quello che sembra un grande disordine: su tutto troneggia lo schermo. La pluripremiata Manual Cinema, si legge nelle dieci righe di descrizione dello spettacolo, combina teatro d’ombre, tecnica audiovisiva e musica dal vivo per dare vita a performance visuali immersive adatte “for stage and screen”, “per palcoscenico e schermo”, per lo “schermo teatrale”, o per “il teatro visuale”. Prima di entrare, il significato di quello “stage and screen” rimane oscuro.
Frankenstein associa al romanzo omonimo la vicenda biografica di Mary e Percy Bysshe Shelley, dalla nascita della piccola Clara – morta dopo appena due settimane – alla concezione del racconto. Molto presto quel palcoscenico disordinato e disabitato prende vita, una decina tra animatori-attori-musicisti prende postazione, ha inizio un brulicare sommesso, preciso e ininterrotto. Sul grande schermo, come al cinema, d’ora in avanti vediamo sciogliersi un film di animazione e di cinema muto, ma lo spettacolo vero e proprio sembra svolgersi subito sotto e richiama puntualmente la nostra attenzione.
Quattro postazioni con lavagna luminosa, un telo di proiezione per le ombre, una postazione per una telecamera fissa. Una telecamera mobile per la presa diretta dei primi incerti passi del pupazzo-mostro. Tre postazioni per i musicisti – flauto, clavicembalo, pianoforte – e un immenso tavolo di percussioni che ospita dai vasi da fiori alla marimba.
Sullo schermo si susseguono scene di notte e tempesta, in cui gli attori interagiscono in ombra con le sagome, di fronte alla telecamera con oggetti di cartone stilizzati, rendendo i movimenti di camera tramite gli spostamenti del proprio corpo, mentre da ogni parte i performer corrono, si scambiano, indossano un nuovo costume. Anche i musicisti vanno da una postazione all’altra, integrando ora gli effetti percussivi, ora le postazioni per le ombre proiettate.
Alle ombre è affidato l’ambiente: tutti i paesaggi, gli effetti atmosferici, i “campi lunghi” sono dati dalla sovrapposizione delle sagome sulle quattro lavagne luminose. In queste si muovono i personaggi, ora dietro al telo, ora davanti alla telecamera.
Nell’intersezione tra classica ed elettronica, la musica è interamente eseguita dal vivo, così come l’effettistica, nella commistione perfetta tra manualità (artigianali sono le sagome e i loro metodi di animazione, così come standardizzata ed espressiva la recitazione) alla tecnologia. Quella che prende vita sotto lo schermo è pura ingegneria del ritmo e della puntualità, le combinazioni e i gesti sono programmati al secondo. Ogni presenza sul palco ricopre il proprio ruolo e quello di tutti gli altri, in un organismo in cui ogni pezzo dipende osmoticamente dal tutto. In una corsa frenetica e ordinatissima lunga 75 minuti, il mostro – di nuovo vivo, tenero nella sagoma sfigurata, nel pupazzo di stoffa che passeggia sul fronte palco – non è più solo il protagonista della storia. All’insegna di un teatro che nella propria totalità riesce a includere anche ciò che per definizione teatro non è, il nuovo mostro è lo spettacolo.
Angela Forti
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