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Dossier Napoli: tradizione, innovazione e formazione. Dialogo con Alessandro Toppi

Abbiamo intavolato un dialogo con il critico Alessandro Toppi (Il Pickwick, La Repubblica) così da approfondire le dinamiche istituzionali e di politica culturale, e inquadrare la funzione, i linguaggi, la tradizione e l’evoluzione artistica di una città che – ieri come oggi – si configura quale specifico e decisivo polo per il teatro nazionale e non solo. Intervista, seconda parte.

Leggi la prima parte

Il giardino dei ciliegi. Regia di Alessandro Serra

In una delle sue lezioni alla Sapienza di Roma negli anni Ottanta Eduardo traslitterava la parola tradizione definendola come un punto di arrivo e un punto di partenza da cui trarre e rielaborare elementi per l’evoluzione della scena nel senso più ampio. Quale rapporto sussiste tra tradizione e innovazione sui palcoscenici napoletani?

La lezione eduardiana mi pare riguardi il teatro in quanto teatro tant’è che attendiamo Il giardino dei ciliegi di Serra o Il gabbiano di Licia Lanera non per risentire le parole di Čechov ma per comprendere quale forma esse avranno e in che modo riusciranno a parlare un’altra volta di noi e della vita. In un libro fondamentale sulla teatralità cittadina (La resistenza teatrale, Bulzoni) Marta Porzio scrive che ha «poco senso porre dei paletti tra ricerca e tradizione in un territorio in cui il teatro ha sempre lavorato per contaminazioni, travaso di esperienze e passaparola di maestranze» e lo scrive nel capitolo sull’Anti-campanilismo, che precede quello dedicato alle Confluenze. Anti-campanilismo. Perché per decenni tentando di gettare l’acqua sporca (gli stereotipi dell’intrattenimento, gli aspetti vuoti del folklore) si è rischiato di gettare via anche il bambino: pensa al rancore verso Eduardo, considerato colpevole di aver ritardato la nascita di nuove pratiche sceniche e di una drammaturgia che fosse europea. Ma, mentre l’anti-campanilismo conduceva la sua battaglia privilegiando visività massmediatica e autori stranieri, Neiwiller metteva assieme Pessoa e Petito, Ruccello debuttava con La cantata dei pastori di Perrucci, De Berardinis usava ‘O Zappatore a Marigliano, Cecchi apprendeva dalla sceneggiata cos’è lo straniamento, De Simone con La gatta cenerentola rendeva il melodramma una favola musicale mentre Servillo – tra i più audaci esponenti della Nuova Spettacolarità – vedendo l’ultimo Eduardo e il suo modo «di rubare la vita attraverso l’esposizione del corpo» comprendeva un’altra maniera di fare teatro. Ecco dunque anche le confluenze, alimentate dalla precarietà lavorativa (l’attore della scena ufficiale che recita nell’off) e da una trasversalità di sintonie umane e culturali che si oppongono a ogni separazione di sistema. E ora? Intervenendo in un convegno universitario Neiwiller oppone «il tempo perdurante della conoscenza e del sapere» alla cronometria «bruciata» della comunicazione e del consumismo: abbiamo bisogno, dice, «di ripensare e approfondire nel tempo» facendo sì che «le cose ritornino, si amplifichino e attraverso noi si riarticolino» ed è questo che chiama «tradizione». È la tradizione come «permanenza sedimentata di una spettralità» – un gesto attoriale, una vecchia regia, un testo, un personaggio, uno spettacolo di cui hai sentito parlare – che mi pare caratterizzi le ultime generazioni le quali manifestano un bisogno di recupero, di studio e di scontro/confronto con un patrimonio considerato irrinunciabile. Vogliono possederlo, facendolo entrare nella propria formazione, (talvolta) realizzandone cascami scenici. Vale per Tonino Taiuti, che attore con Neiwiller lo fu per anni, quando allestisce Scarpetta o Petito, duetta con Musella ripristinando frammenti di opere che ha già recitato, riconvoca il Maestro in assito; vale per Carlo Cerciello e Imma Villa con Scannasurice, per Linda Dalisi – che si confronta drammaturgicamente con la sceneggiata (C’è del pianto in queste lacrime) e casa Cupiello –, vale per Punta Corsara, che parla del presente con gli inciampi, le botole e i fraintendimenti della farsa. Vale per loro e per Vulie Teatro, che lavora sui figli delle opere di Eduardo (A-medeo); per Sergio Del Prete e Roberto Solofria quando agiscono lembi di Moscato, Ruccello, Silvestri e Patroni Griffi (Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori); per Antonio Piccolo che riscrive l’Antigone come fosse un cunto di Basile (Emone); per le regie di Saponaro o per i fratelli Russo, che si confronteranno con Le cinque rose di Jennifer, e vale anche per quell’atipicità assoluta che è Mimmo Borrelli, nella cui scrittura (accanto alla Bibbia, Dante, le poesie di Sovente e le lingue flegree) si cela Viviani.

Invece.

All’innovazione nata dal tradimento traduttivo della tradizione credo vada opposta la convenzione che, per dirla con Moscato, non de-regola ma replica assecondando con trame e immagini preconfezionate il bisogno di rassicurazione del mercato, le certezze pretese dal botteghino, quello che si aspetta la gente. Mi pare convenzione la sceneggiata riproposta tal-quale al Trianon, ad esempio, o la città stereotipata da Gassman quando adatta la trama anch’essa stereotipata de Il grande silenzio di De Giovanni; mi paiono convenzione gli interni di Buccirosso e di Salemme o lo Scugnizzi con Sal Da Vinci; mi pare convenzione pure l’utilizzo della periferia in chiave auto-propagandistica o le battute dette sempre impugnando una pistola: anche quando va in scena un testo di Eduardo in cui le pistole giacevano, non a caso, posate sopra un tavolo.

Emone di Antonio Piccolo

Il termine formazione tende negli ultimi anni ad accrescere la sua applicazione nell’attenzione alla spettatorialità. Percorsi di accompagnamento alla visione, incontri, seminari, laboratori, tentativi di nuove concezioni delle stagioni trovano asilo all’interno di consolidate o più piccole realtà, tra festival, cartelloni di “teatro indipendente” e più faticose incursioni nel sistema di istituzioni riconosciute. Come, e se, tale tendenza si riflette nel contesto teatrale napoletano e campano?

Officina Teatro, dopo lo spettacolo, offre una cena ad attori e spettatori, trattenendone l’incontro; il Civico 14 organizza un ciclo di approfondimenti, consentendo la conoscenza degli artisti e dei loro percorsi creativi; funziona come un foyer viaggiante, e dunque come un’opportunità per il commento a posteriori, la navetta che riporta dal Teatro Area Nord di Scampia al centro storico, si parla anche di teatro a LaterzAgorà, libreria che ha sede nel Bellini, mentre al Teatro dei Piccoli Le Nuvole formano gli insegnanti che accompagneranno i loro allievi in sala. Scintille, tentativi intermittenti che avvengono lì dove è possibile discutere della proposta perché ancora esiste una direzione che si assume la responsabilità della scelta, che ancora riflette sulle relazioni tra l’artista e il pubblico, che ancora privilegia la meritocrazia qualitativa e che dunque quest’opera – proprio questa – vuole sia conosciuta e condivisa. Di cosa parliamo invece quando l’unico interesse è il sold-out in prevendita? E che percorsi di accompagnamento vanno organizzati da chi programma imponendo messinscene che non ha visto e che sono il frutto di scambi, reciproci rigonfiamenti dei bilanci o di coproduzioni allestite per assecondare il Ministero? In particolare. Il Teatro Pubblico Campano – ovvero il Circuito – ha il dovere di organizzare «laboratori, conferenze, seminari che contribuiscano a una maggiore conoscenza dell’arte teatrale» mentre il Nazionale dovrebbe realizzare «interventi di educazione e promozione presso il pubblico a carattere continuativo» ma né l’uno né l’altro adempiono agli obblighi previsti dai loro Statuti mostrando degli spettatori una concezione quantitativa: sono audience, riempitivi di poltrona, numeri da rendicontare alla Commissione Prosa. Ebbene: questa voluta diserzione (in)formativa verso la platea mi pare la conseguenza dell’incuria culturale con cui tali istituzioni programmano, di anno in anno, le proprie stagioni tant’è che per la Qualità della Proposta Artistica il TPC è ultimo tra i Circuiti finanziati dal Mibac mentre lo Stabile di Napoli è penultimo tra i Nazionali. Insomma. Agli uomini e alle donne che stanno in platea viene dato poco – quasi niente – perché viene considerata poco – quasi niente – la ricerca del fatto d’arte realizzato dagli uomini e dalle donne che stanno in assito in una situazione in cui conviene invece, si privilegia infatti e viene offerta dunque la commercialità, l’autore “di chiamata” e l’ospitalità concessa a chi ospita a sua volta il mio spettacolo.

Marianna Masselli

Leggi la prima parte:  Dossier Napoli: politica e teatro

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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