HomeMedia partnershipRitrovare la vita in provincia. Intervista a Oscar De Summa

Ritrovare la vita in provincia. Intervista a Oscar De Summa

Nell’ambito di Todi OFF 2019. Oscar De Summa presenta il primo capitolo della Trilogia della provincia, Diario di provincia. Intervista realizzata in Media Partnership.

Mi racconteresti di tre momenti che hanno caratterizzato, con un segno di conferma o un cambio di rotta, il tuo percorso artistico?

Ho avuto la fortuna di incontrare Claudio Morganti all’inizio del mio percorso, una figura che mi ha guidato per tantissimi anni. Lui mi ha subito indicato un modo di essere attore autore, di pensare la scena o di pensare l’attore e le sue responsabilità nei confronti del regista, degli spettatori o dei colleghi. Ancora non credo di essere uscito fuori da quei binari, nel senso che credo che il fuoco del teatro ruoti attorno all’attore e allo spettatore; le maestranze contribuiscono a dare forza a questo rapporto diretto, ma se questo viene a mancare c’è qualcosa che non torna.

Un altro momento importante è stato proprio Diario di provincia, che ho scritto nel 2003 dopo un periodo di quasi tre anni in cui mi ero dedicato ad altro. In quel periodo era mio desiderio ritornare al teatro con una narrazione brillante a sfondo tragico proprio per ritrovare quella relazione diretta con il pubblico nella forma teatrale più diretta e semplice possibile, perché mi sembrava che in quegli anni il mondo teatrale si parlasse un po’ da solo, in sala, nei festival vedevo molti colleghi ma pochissimo pubblico. Quindi ho pensato a quali potessero essere le forme e le tecniche più incisive – la brillantezza delle battute, l’ironia insita – per entrare più velocemente in sintonia con  gli spettatori.

In quel periodo lavoravo con Ascanio Celestini a un suo spettacolo alla Corte Ospitale che aveva appena aperto, lui stava scrivendo Vita, morte e miracoli e io avevo appena finito Diario di provincia e ci eravamo trovati entrambi a riflettere sulle forme di relazione nel teatro. Poi Diario ha fatto moltissime repliche anche nei luoghi più diversi, teatri, case, pub, ristoranti, nelle cave… l’idea era di andare ovunque, e che la questione tecnica non fosse un problema.

Poi dopo questo spettacolo ho fatto anche lavori parecchio diversi; il ritorno a questa forma di teatro con Questa sera sono in vena, che è il secondo della trilogia, è stato un altro momento importante, non di svolta ma di ritorno a quella forma essenziale, dopo 15 anni.

Ma la mia storia non è fatta solo di monologhi, un altro spettacolo per me importante è stato Amleto a pranzo  e a cena che era una rivisitazione comica dell’Amleto prodotta dall’ERT con la quale abbiamo girato per sei o sette anni e che era un altro modo di intendere la relazione col pubblico. Il classico dei classici fatto per un pubblico di non addetti era stato finanziato da Pietro Valenti che aveva affittato un tendone itinerante nei paesi dell’Emilia Romagna dove non c’erano teatri, e l’idea era di fare per due o tre giorni consecutivi degli spettacoli di teatro e danza assieme ad altri artisti della scena contemporanea, come Menoventi, gruppo nanou… In qualche modo ogni spettacolo rappresenta un nuovo inizio, perché cambia il contesto e ogni volta bisogna ricalibrare la relazione con gli spettatori, cosa stai raccontando e a chi.

Che cosa è che più ti spinge alla creazione?

In genere mi lascio sedurre da cose che mi incuriosiscono però non le capisco perfettamente. Per un periodo abbastanza lungo le metto da parte senza voler dare loro una forma, finché non ne sento proprio l’urgenza. Lo stesso Diario di provincia è nato su commissione, durante alcune serate leggevo per dieci minuti delle cose che avevo scritto durante il giorno e che riguardavano la mia infanzia; mi sono reso conto che stavo raccontando una storia senza averne consapevolezza.

Altri spettacoli più sperimentali come Self Potrait presentano comunque un principio creativo simile, nascono dalla raccolta di frammenti della realtà che mi incuriosiscono, generano una tensione inaspettata, ma che tengo da parte finché non si delinea una storia. Invece il lavoro sui classici corrisponde a trovare la domanda che ti stavi facendo e cerchi di “agire quella domanda” per capire una risposta.

Parliamo del Diario di provincia, lo spettacolo che presenterai il prossimo 27 agosto e che fa parte della Trilogia della provincia assieme a Questa sera sono in vena e La sorella di Gesucristo. Come sono legati i tre lavori?

All’inizio è nato proprio come un desiderio di raccontare e di incontrare direttamente gli spettatori. Mi sono trovato a parlare della mia adolescenza nella sua parte più ironica, proprio perché i personaggi di questo paesino della Puglia sono in realtà figure archetipiche che ho ritrovato dappertutto. Credevo di essere nato nel paese più sfigato di Italia, poi, man mano che portavo questo spettacolo in giro, ho scoperto che tutti si sentivano sempre lontani dai centri culturali di riferimento, e riconoscevano questo senso di inferiorità e il desiderio di prendere in mano la propria vita e cambiarla.

In quegli anni ero stato eroinomane e non lo avevo mai detto a nessuno; a un certo punto mi sono messo a riflettere sul perché non ne avessi mai fatto cenno all’interno dell’ambiente teatrale e ho iniziato a parlarne e a fare tante interviste anche durante la tournée di Diario di provincia. Ho scoperto che ogni paese d’Italia ha vissuto il dramma dell’eroina durante gli anni Ottanta e che ogni famiglia vantava la sua “pecora nera” che ne aveva sofferto la dipendenza. Una tragedia che ha contato 30.000 morti l’anno e che non è mai stata raccontata davvero se non che nei termini del “recupero del tossico”, cioè di colui che abbassa la testa, chiede scusa e si rintana di nuovo nella società. Ma studiando l’argomento, quel disagio primario che aveva portato me e gli altri a usare la sostanza era un disagio reale, connaturato con l’essere umano. Questo fa sì che la maggior parte dei ragazzi (e non solo) che vengono a vedere questo spettacolo, nonostante il contesto sia cambiato e l’eroina non sia così presente, si ritrovino in quella sensazione di sentirsi sbagliati, a disagio. Quel desiderio di cambiamento e di miglioramento che apparteneva a Diario di provincia ha trovato un altro approfondimento con Stasera sono in vena.

La sorella di Gesucristo fa sempre parte di questa grande riflessione sugli anni Ottanta. Perché poi questo periodo? La nostra società stava iniziando a essere liquida, avevamo abbandonato i principi della cultura contadina ma ancora non avevamo le idee chiare. Ci siamo venduti certi valori per un frigo nuovo. In quegli anni c’era l’idea di uno sviluppo infinito, c’era un sacco di lavoro, la sensazione che saremmo diventati tutti ricchissimi, dimenticandoci di quello che ci stava attorno. Poi, vedendo i due spettacoli, qualcuno mi ha chiesto perché ci fossero così poche donne, e allora ho iniziato a pensare su quale potesse essere la mia idea dell’energia femminile. Da lì allora è partita una riflessione socio antropologica sull’Italia riguardante quanto sia ancora profondamente radicata la dominazione maschile.

Le mie questioni personali diventano materiale di spettacolo solo quando mi rendo conto che tutto questo non riguarda solo me ma sto intercettando altre forze, che non gestisco, non controllo. Allora decido di rendere evidente questa forza che mi guida e che tocca tutti.

In quale maniera hai lavorato all’interpretazione? 

In realtà non ci ho mai riflettuto, l’unica cosa che mi importa è avere un rapporto chiaro col pubblico, che non sia “teatroso” come lo definisce Daniele Timpano. Cerco di togliere il  più possibile senza rinunciare alla tecnica; questa è vera finché non è visibile. Poi in realtà è la forza della storia che ti spinge ad avere un registro o un altro, ad avere una precisa drammaturgia anche interpretativa. Per esempio, io scrivo tantissimo prima di andare in scena, per La sorella di Gesucristo ho scritto circa 75 pagine anche se poi ne saranno andate in scena solo 20 o 25. Io ho bisogno di creare tutto un mondo all’interno del quale la storia si muove anche se poi prendo solo quello che mi diverte di più fare, ma che soprattutto è più funzionale.

Lo spettacolo non si ferma mai, è un organismo vivente: si arricchisce, perde delle cose, è un movimento costante. Diario di provincia continuerò a farlo solo fino a quando continuerà a dirmi qualcosa; nel momento in cui inizierà a sembrarmi soltanto una partitura, cioè non mi dirà più niente, non mi darà più quell’idea di mistero l’andare in scena, allora smetterò di farlo. Fortunatamente il rapporto diretto con gli spettatori mi mette ancora a repentaglio, in una situazione di rischio.

Redazione

Al Nido dell’Aquila, Todi, per TodiOFF 2019 – 26 agosto 2019

DIARIO DI PROVINCIA
di e con
Oscar De Summa

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