Nell’ambito di Todi OFF 2019, Marco Chenevier presenterà Quintetto: tra ironia e disperazione, una riflessione sulle difficoltà di ricerca. Intervista all’autore. Contenuti in mediapartnership.
Mi racconteresti di tre momenti che hanno caratterizzato, con un segno di conferma o un cambio di rotta, il tuo percorso artistico?
Sicuramente l’incontro con Isaac Alvarez [presso il Théâtre du Moulinage a Lussas in Francia, ndr] – è stato importante; lui è stato il maestro che mi ha portato a cambiare rotta, da un’idea prettamente teatrale che avevo acquisito nella mia iniziale formazione in Italia, verso un fuoco più strettamente legato al corpo, rivoluzionando gli strumenti espressivi che utilizzavo. Ho avuto fortuna nell’incontrare dei maestri generosi come Annapaola Bacalov, Diana Damiani e di lavorare negli anni con grandi artisti quali Carolyn Carlson.
Il ri-trasferimento in Francia circa undici anni fa è stato sicuramente un momento molto significativo, che mi ha messo in contatto con realtà artistiche e modi di lavoro diversi dal nostro, che mi hanno fatto realizzare come questo possa essere davvero un mestiere e non soltanto un hobby per ricchi; in Francia, anche gli spettatori hanno una consapevolezza diversa. Ho poi cercato di tutto per riportare queste pratiche in Italia, anche se ho subito realizzato quanto potesse essere estremamente complicato!
Un altro momento fondamentale racconta un processo più lungo ed è legato alla volontà di programmazione, sulla quale avevamo iniziato a muoverci più di dieci anni fa con un piccolo festival che si chiamava Morg-Ex Machina. Sia singolarmente che come Teatro Instabile di Aosta abbiamo sempre pensato che lavorare all’organizzazione di un festival, di una rassegna, di una stagione ti permetta di avere una reale influenza estetica e politica. Quattro anni fa dunque presentammo un progetto molto ambizioso; eravamo sicuri non sarebbe passato e invece lo abbiamo vinto con finanziamenti quasi tutti privati: così è nato T*Danse, tra danza e nuove tecnologie. L’anno scorso poi è arrivata la proposta da parte dello spazio La Cittadella dei giovani di Aosta di entrare nella gestione e proprio tre settimane fa abbiamo vinto la gara di appalto per un progetto di quattro anni con una stagione, con delle residenze finanziate… Per me organizzare un evento è comunque un’attività legata alla creazione artistica. Lo sottolineo perché è molto importante restituire alla creazione la sua portata politica e all’organizzazione la sua valenza poetica.
Che cosa è che più ti spinge alla creazione?
Per me l’approccio politico è naturale, non ne posso proprio farne a meno, sebbene procedere in questa direzione ti esponga a continui attacchi su più livelli. L’ultimo lavoro su cui sto lavorando a partire da Bach è quasi una sorta di ripiegamento su me stesso, un urlo silenzioso nei confronti di una tematica politica che è sempre fondante per me. Di Quintetto hanno detto che era uno spettacolo di non-danza, qualcosa di volgare, solo un cabaret, qualcosa che non aveva spazio nella danza. Oppure è stato ignorato: non siamo riusciti a inserirlo in diversi contesti, non ha ricevuto fondi ministeriali; anche questa è una forma di censura, no?!
Poi, nella creazione degli spettacoli, tutto questo si è tramutato in una maniera molto evidente dal punto di vista estetico. Mi sono sempre posto in un’ottica relazionale nei confronti del pubblico, anche a discapito di come possa apparire io. Per me è fondamentale la sua esperienza, non la mia, che si genera attraverso una capacità comunicativa che passa anche attraverso il disturbo, sebbene io abbia un modo di procedere abbastanza ludico, ironico e leggero.
Se fai qualcosa di autoreferenziale riservato a una cerchia di pochi eletti, per quanto tu possa trattare di tematiche politiche, di fatto continui a mantenere un rapporto di potere elitario. Al contrario, se ti metti al livello del pubblico, puoi anche non parlare di politica direttamente, però sei in una dinamica politica. A tutti i livelli, anche nella programmazione. Si può programmare qualunque cosa, anche lavori più complessi ma tutto dipende da come porti il pubblico all’interno di un percorso di ricerca. È compito del programmatore, dell’artista, del coreografo, del regista, accompagnarlo. Con il pubblico e per il pubblico.
Come è arrivata la scelta di spostare sempre di più quest’asse?
L’interazione col pubblico è una conseguenza, sebbene appartenga a diversi miei lavori. Ad esempio, in Saremo giovanissimi e bellissimi sempre / Eckhart Project c’è una destrutturazione parziale del codice, e io metto in atto un dialogo con il pubblico ma non c’è interazione diretta; in Quintetto c’è un’interazione reale con un gruppo di persone; in Questo lavoro sull’Arancia c’è un’interazione che non è totalmente improvvisata poiché noi abbiamo previsto dei modelli di azione da parte degli spettatori a cui sappiamo come rispondere. A seconda di dove va il pubblico noi ci muoviamo. Ma tutto questo deriva dal fatto che ci siamo posti delle domande all’interno del processo di creazione che ci hanno portato a quel tipo di cifra e di estetica.
Noterai che dico sempre noi, perché per l’appunto è sempre un lavoro a più mani: di drammaturgia fatto con Elena Pisu, di co-creazione con Alessia Pinto; c’è un enorme lavoro che faccio assieme ad Andrea Sangiorgi che è il nostro direttore tecnico da tanti anni, lui stesso costruisce con noi non solo la luce ma anche la drammaturgia, per quanto dal suo punto di vista. Anche Lia Ricceri che si occupa della distribuzione ha un ruolo fondamentale nella scelta delle tappe, nei consigli che ci dà rispetto a una direzione o a un’altra. È proprio a partire da questa composizione che non arriva un’immagine top-down, patriarcale, di uno spettacolo che porta la verità in scena e la elargisce ai sudditi, ma diventa un processo collettivo e politico.
Parliamo di Quintetto, lo spettacolo che presenterai il prossimo 27 agosto a Todi Off, osservando alcuni dei principi che sottendono questa creazione e come vi hai lavorato per renderli evidenti al pubblico.
Mi piace strutturare gli spettacoli sempre su diversi livelli, anche se non sono distinti secondo un ordine gerarchico. Uno di questi prende in considerazione l’idea ludica, giocosa e fortemente disperata del dire “non ci sono i soldi, quindi ci dovete aiutare salendo sul palco”. Dico disperata perché effettivamente lo spettacolo di cui racconto all’inizio, Montalcini Tanz, esisteva: in scena c’erano cinque danzatori e per farlo avevamo anche bisogno di due tecnici; ci è successo davvero che, all’inizio, quando eravamo ancora più underground di quanto non siamo adesso, ci proponessero delle cifre ridicolmente basse. Quintetto allora è proprio nato dalla domanda: “che cosa succede se allo spettacolo io tolgo tutto?”. Poi c’è anche il livello legato alla destrutturazione della coreografia, di aprirla come un gioco e di rimontarla assieme alle persone. Quindi a questi si aggiunge necessariamente il livello della denuncia rispetto al sistema fallimentare, raccontata attraverso una dimensione drammatica. Rispetto a quanto non funziona, noi decidiamo di farne uno spettacolo, proprio raccontando quella cosa lì, non mettendo in scena un prodotto ben confezionato, che ha un sacco di economie per raccontare della crisi. Io gioco molto su questo. Per il teatro non è saper mentire, è l’unica cosa vera. Poi c’è dietro molta tecnica per far sì che quella destrutturazione lì risulti interessante. Fermarsi solo al concetto è una pigrizia mentale, capisco che sia il lavoro più difficile, ma è attraverso quella forma che riesci a far sì che l’idea emerga e che il pubblico possa vivere quell’esperienza. Muovere piacere, pensiero e sorpresa allo stesso tempo. Se è solo piacere è solo intrattenimento, se si tratta di pensiero e basta sarebbe filosofia, se è solo sorpresa siamo al luna park.
Redazione
QUINTETTO
di e con Marco Chenevier
Produzione ALDES e TIDA con il sostegno di Mibact e Regione Autonoma Valle d’Aosta
con il sostegno di Mibact /Direzione Generale Spettacolo dal vivo e Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo