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Temperature fuori dal centro. Intervista alla Piccola Compagnia della Magnolia

La Piccola Compagnia della Magnolia, all’interno di Todi OFF 2019 presenterà lo spettacolo Mater Dei, sul testo di Massimo Sgorbani. Intervista alla regista e direttrice artistica della compagnia Giorgia Cerruti. Interviste create in Media Partnership.

foto ufficio stampa

Mi racconteresti di tre momenti che hanno caratterizzato, con un segno di conferma o con un cambio di rotta, il percorso artistico della Compagnia della Magnolia?

Il primo momento emblematico è stato l’abbraccio caldo che il mio maestro ha dato alla nascita della compagnia formata assieme a Davide Giglio. Parlo di Antonio Dìaz-Floriàn, direttore e regista del Théâtre de l’ Epée de Bois/Cartoucherie di Parigi, il quale ci ha regalato la regia del nostro primo spettacolo, La casa di Bernarda Alba, che ci portò molta fortuna. Ci ha passato inoltre un certo modo di intendere il teatro come un’esperienza familiare.

Questo si scontra con una seconda linea, un cambio di rotta avvenuto tra il 2012 e il 2013, un secondo momento emblematico che ha comportato una svolta nel nostro modo di lavorare. Fino a prima avevamo attraversato una crescita esponenziale molto forte, lavoravamo intensamente con i circuiti, c’erano le economie che permettevano una circuitazione dignitosa alle compagnie. Poi però ho avvertito una cesura. L’Italia è cambiata, anche nel modo in cui gli artisti si approcciano al teatro; quello che per noi era un continuo avvicinare compagni e farli vivere nel gruppo e condividere tutti gli aspetti del teatro è venuto meno. Non lo dico come una sorta di lamentatio ma come la lettura di un mutamento della società culturale e teatrale. Inoltre, gli spazi teatrali hanno cambiato il modo di vivere le programmazione, si è qualificato un certo trend, trasformando il teatro in una società degli amici degli amici. L’Italia ha la tradizione delle compagnie di giro, ma questa pratica sta venendo sterminata, non possiamo continuare a essere gli eterni young e andare in perdita. Di certo questo è un discorso che deve per forza considerare i diversi contesti con cui ci si confronta: un conto è pretendere sostegno dalle strutture finanziate, un altro è invece sposare la causa di spazi piccoli, compagni di avventura; in quel caso ci si accontenta anche di dividere l’incasso, si riducono le scene, si dorme a casa loro; è fondamentale entrare in contatto con questi posti, perché lì c’è la vera resistenza pacifica.

Un altro momento fondante è avvenuto questo gennaio: la compagnia ha avuto la possibilità di resistenza permanente presso un teatro storico e meraviglioso che si chiama Teatro Espace, a Torino. Per tanti anni abbiamo affiancato alla creazione anche la gestione di teatri in piccoli comuni aperti alle nostre idee, ma adesso abbiamo la possibilità di ritornare a fare produzione pura. Per gli artisti indipendenti non è tanto difficile mantenere alta la qualità, ma mantenere alto il dialogo tra qualità e sopravvivenza.

A venticinque anni non avrei mai pensato che fare teatro potesse essere un’attività per ricchi, adesso mi arrabbio molto a pensare che possa essere così, ciononostante porto avanti la mia lotta e continuo a provarci. Credo che non ci troviamo un buon momento storico, è inutile raccontare le cose diversamente: i più grandi maestri italiani, come Claudio Morganti o come Danio Manfredini, lavorano poco o non quanto dovrebbero; vuol dire che qui qualcosa non funziona. Avverto un dilagante e disinvolto “mi piace farlo”, ma non si ragiona in base alle reali competenze. Ti faccio questo discorso da spettatrice, e riscontro che spesso anche molti spettatori si gongolano nel riconoscere quello che già conoscono, hanno dei  riferimenti culturali ed emotivi molto bassi. Mi sta a cuore questo, con rabbia.

foto ufficio stampa

Che cosa è che più vi spinge alla creazione?

Quello che ci interessa è la comunione tra attori e pubblico, la prima cosa che ci spinse a fare teatro. Lo spettacolo per funzionare deve essere posizionato sull’attore. Noi amiamo lavorare con un attore che faccia percorsi immersivi più che intellettuali. Questi percorsi, siano essi legati al testo o a un ambiente scenico musicale o multimediale, si relazionano con l’attore, che passa attraverso un perenne studio delle tecniche attorali. Anche nelle fasi non finalizzate alla creazione di uno spettacolo noi non abbiamo mai smesso di fare ricerca sulle tecniche d’attore. Alcune ci stanno più care di altre, come quelle che ruotano attorno all’utilizzo dell’energia fisica, mutuate da tutta la storia del teatro orientale o dal recupero della biomeccanica, che evita gli psicologismi e procede nel rapporto con la materia. È importante che il corpo sia poetico e non analitico in scena. L’attore per noi deve farsi medium tramite un’evocazione e non figlio di processi di immedesimazione.

Proprio una settimana fa abbiamo terminato un laboratorio con Michele Di Mauro, un artista e pedagogo che stimiamo molto, sull’innalzamento della consapevolezza pre-creativa. Ogni spettacolo per noi è una tappa di un viaggio più lungo, non è un punto di arrivo, a volte si porta dietro qualcosa, a volte perde qualcosa di quel più lungo processo. Il pre-creativo è figlio di una consapevolezza e di un’analisi, è importante per giustificare ogni giorno il ruolo politico che assume l’arte.

Io faccio politica indirettamente, e anche per questo faccio delle scelte su che cosa portare in scena e che cosa no. Noi abbiamo sempre ragionato a cavallo tra sacro e profano. Tutti i nostri spettacoli ruotano attorno all’amore e alla tremenda paura che gli amori possano collassare, sui legami di sangue e la loro recisione. Questo ha delle radici nella tragedia, in Shakespeare… Mi piace sondare l’umano ai bordi perché forse lì ci sono temperature più dionisiache che il tran-tran quotidiano ci impedisce di sentire e vedere. Mi piace il teatro che permette questa trascendenza, non ha niente a che fare con il religioso o con l’essere zen, ma con una sacralità pervasiva, con una fratellanza. Sarebbe bello ad esempio chiedere a degli spettatori di seguire una parte del percorso di creazione degli spettacoli… un momento schietto, non falsato, permettendo loro di essere fratelli e sorelle nella costruzione dello spettacolo. Questo va difeso quando l’approccio è onesto, quando traspare il lavoro che c’è dietro, anche se magari non è sempre esteticamente riuscito.

foto ufficio stampa

Parlando di Mater Dei, lo spettacolo che presenterete il prossimo 31 agosto, come avete trattato dal punto di vista scenico e drammaturgico le questioni che emergono dal testo di Massimo Sgorbani (il mito, le passioni e i legami di sangue)?

Massimo Sgorbani scrisse questo testo molti anni fa, quando non ci conoscevamo nemmeno, poi ci conobbe due anni fa e ci chiese di leggere questo lavoro perché era convinto che potesse essere in sintonia con il nostro percorso. Per noi era una sfida in quanto non abbiamo mai trattato drammaturgia contemporanea. Parla però di tutto quello che è il nostro mondo, probabilmente con una lingua e uno stile nuovi per noi ma assolutamente affini nei contenuti. Massimo ha uno stile riconoscibile, forse in questo testo ancora di più che in altri, nei termini della scabrosità della parola e dell’erotismo fortissimo, nel flusso ininterrotto di parole prepotenti, che mangia la protagonista e mangia il pubblico. E con questo suo stile abbiamo trovato un comune denominatore, in quanto per me è molto importante la riconoscibilità del nostro percorso. Non ho mai scelto un testo per un bando ad hoc o perché un autore andava di moda.

Ci siamo ritrovati nel mito tra sacro e profano, nell’inseguire un sentimento che crolla e diventa miseria umana, questo testo parla di quanto possiamo essere orribili noi esseri umani, non perché decidiamo di fare cose orribili ma perché la paura del distacco ci rende mostri. Penso che il testo di Sgorbani ci parli con una sapienza alchemica che trasforma la parola in qualcosa non di cognitivo ma di sensoriale.

Come si traduce la poesia della parola con quella dell’attore?

Il personaggio non esiste, esistono dei fogli di carta morti, finché non si decide di prendere in carico l’esistenza di qualcuno e attraverso un’evocazione non lo si fa vivere. La poesia della parola credo che possa affiorare quando ci facciamo carico di una possibile esistenza, non attraverso il percorso psicologico ma attraverso delle tracce personali. Esiste una mappatura dei segni corporei e vocali figlia di tutta la nostra vita e di tutte le esperienze che abbiamo vissuto; come queste si trasformano e sublimano evocando un’altra persona? Questo percorso e questa proporzione mai ferma tra quanto c’è di quella persona da evocare e quanto di chi la evoca è la vera lotta, che avviene durante l’ora di spettacolo, e che è a rischio di perpetui errori. Quanto di lei e quanto di me, minuto dopo minuto. Questa proporzione tra l’attore che esiste e quella persona che non c’è e che devi far esistere credo dia la curva poetica al lavoro.

Senza contare che per me la parola poetica passa attraverso una drammaturgia della sintesi, nella quale la parola non si stende in maniera narrativa, ma viene usata in maniera simbolica, attraverso picchi lirici. Non posso non legare tutto questo al suono della voce e a tutto il contesto che le sta attorno e nel quale entra. Per la prima volta con Mater dei abbiamo fatto un grande lavoro live sul suono e sulla sensorialità.

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