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Graces di Silvia Gribaudi. La bellezza magnifica e comune

Graces è l’ultimo lavoro della coreografa torinese Silvia Gribaudi andato in scena al Teatro Il Lavatoio durante Santarcangelo Festival. Recensione

Foto di Claudia Borgia

«Non partiremo da un’idea preconcetta di Bellezza: passeremo in rassegna le cose che gli esseri umani hanno considerato come belle». Questo l’anelito divulgativo di Umberto Eco evidenziato nell’introduzione alla Storia della Bellezza (Bompiani, 2012), viaggio filologico e narrativo sull’idea del bello nel corso dei secoli, su ciò che si considera tale a prescindere del desiderio: non tutto ciò che è bello è, dimostrerà l’autore, desiderabile. Bella è stata la dimensione ludico-partecipativa che ha contraddistinto questa edizione di Santarcangelo Festival l’ultima diretta da Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino prima di cedere quella del cinquantenario al ritorno dei Motus dal titolo Slow and Gentle, quasi a voler riprendere il canone winckelmanniano dell’armonica passione. Nel primo weekend si è potuto assistere non solo a spettacoli autonomi ma a momenti di confronto conoscitivi del territorio, restituzioni di processi in divenire e workshop, documentari; tutti “pensati” tenendo presente non solo la comunità teatrale ma anche quella del territorio, che vi partecipa in quanto chiamata in prima persona a essere protagonista di un dialogo fluido che incrocia le estetiche e gli spazi sociali. Continuiamo perciò a riflettere sul bello, sulla preesistenza data e incorporata di un codice che muta, modificando i paradigmi di costruzione e ricezione dello stesso; Graces, il nuovo lavoro della coreografa Silvia Gribaudi, coprodotto proprio da Santarcangelo dei Teatri, è l’ultima testimonianza di un processo che vede l’artista torinese interrogarsi sulla bellezza. Ma come si riflette oggi sul bello?

In un’intervista curata da Roberto Berti e relativa alla presentazione del lavoro a Castiglioncello, al festival Inequilibrio, Silvia Gribaudi afferma: «Durante la mia riflessione sulla bellezza ho incontrato Andrea Rampazzo, Siro Guglielmi e Matteo Marchesi, lavorando già da tempo con Matteo Maffesanti e, con la new entry, Giulia Ghinelli. Tutti noi ci siamo conosciuti a Bassano del Grappa dove sono conservati dei bozzetti di Antonio Canova. Da qui la scelta del tema delle Tre Grazie». In linea col pensiero neoclassicista di Johann Joachim Winckelmann, il gruppo scultoreo del Canova raffigurerebbe la predisposizione serenatrice delle tre figlie di Zeus, Aglaia, Eufrosine e Talia rappresentanti splendore, gioia e prosperità. Da un punto di vista scenico vedremo, sul palco vuoto e bianco del Teatro Il Lavatoio di Santarcangelo, tre figure maschili (i danzatori Rampazzo, Guglielmi e Marchesi) insieme a Gribaudi in pants e calzini neri. Semplicità ed essenzialità saranno inscritte in partiture di movimenti in cui il codice della danza classica e il codice della bellezza vengono posti dialetticamente in parallelo e entrambi destrutturati. Sempre nell’intervista, la coreografa ribadisce infatti: «tre persone magnifiche che attraverso i movimenti permettono ad un essere umano “comune”, che è sul palco con loro, di sperimentare, di fare da mediatore tra il pubblico e loro (che diventano un corpo solo) e che permettono a questo essere, una signora che sarei io, di sperimentarsi nuovamente». Al di là dell’ironia che contraddistingue il linguaggio di Gribaudi tanto da determinarne la cifra stilistica ormai riconoscibile, il vero cortocircuito è il guizzo contemporaneo sotteso a far coincidere l’idea del bello con il suo fenomeno e a dispiegare, sia dal punto di vista coreografico che drammaturgico, una performance atta a desacralizzare entrambi. La gestualità è ibridata tanto da elementi propri alla pratica agonistica che dagli stilemi della danza classica, ora agiti non solo da corpi “normati” per la danza, come lo sono quelli dei tre interpreti maschili, ma resi di libero accesso in un dialogo con gli spettatori che, attraverso le fattezze di Gribaudi, riscoprono una danza liberata e di pubblico dominio. L’equilibrio indagato non è perciò la relazione tra bellezza e natura, né tanto tra bellezza e arte, quanto quello più spiccatamente pop del binomio bellezza e il suo fenomeno. Corpi che si fanno guardare nei loro prodigi e che necessitano dell’approvazione e dell’incoraggiamento, o meno, di chi li guarda. Corpi che si danno e danno spettacolo.

Foto di Claudia Borgia

La matrice empirica è rintracciabile nella struttura stessa della performance che vede le partiture dei movimenti aprirsi a intermezzi dialogici in cui Gribaudi commenta le azioni sceniche ponendo delle domande agli spettatori finalizzate a sottolineare il carattere analitico della performance: «un momento delicato che stiamo costruendo con voi» oppure «ecco, adesso il vostro occhio cosa sta osservando?» e anche «se avete qualcosa da dirci, così prendiamo un attimo di fiato». Ciononostante queste “aperture” sembrano rivelarsi poco funzionali perché Graces si configura di per sé come un lavoro già autonomo e non in divenire, già nutritosi di questi impulsi provenienti dal pubblico (a seguito anche delle occasioni residenziali precedenti al debutto) e che non necessita di essere interrogato ulteriormente in una dimensione live. Gli spettatori applaudono, ridono, si dimostrano estremamente ricettivi – in una delle repliche è seguita una standing ovation – perché il coinvolgimento non si legittima solo attraverso la condivisione di un codice e la consapevolezza della sua decostruzione ma soprattutto tramite il puro e scanzonato entertainment. Tempestas e tranquillitas, poli assunti del pensiero winckelmanniano, si fondono sulle note leggiadre di Vivaldi e di Strauss, si dispiegano sui tappeti elettronici dei Matmos e a quelli di Koudlam, mentre i danzatori si prestano tanto a disciplinate pose plastiche che a scomposte scivolate sull’acqua (come non pensare ai virtuosismi del precedente R.OSA), comode e divertenti a sostituzione delle canoniche prese.

La bellezza si fa dunque esperibile, non si contempla annoverandola in qualcosa di aprioristicamente dato ma se ne usufruisce come oggetto fenomenico, da modificare. L’uso dei modelli e la partecipazione a modalità di gioco e di coinvolgimento all’interno delle quali essi sono inseriti rende la loro valenza concettuale accessibile, sprigionandone il carattere di intrattenimento. Ecco allora che la bellezza diventa oggi qualcosa di estremamente divertente e comune.

Lucia Medri

GRACES

drammaturgia e coreografia Silvia Gribaudi, Matteo Maffesanti
con Siro Guglielmi, Silvia Gribaudi, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo
luci Antonio Rinaldi
direzione tecnica Leonardo Benetollo
produzione Zebra
coproduzione Santarcangelo Festival
con la collaborazione di Klap – Maison Pour la danse, Centro per la Scena Contemporanea/Operaestate Festival, Orlando
con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Lavanderia a Vapore Centro di Residenza per la danza regione Piemonte, Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto/Teatro Dimora – La Corte Ospitale), ARTEFICI – Artisti Associati di Gorizia, Dansstationen, Danscentrum Syd, Skånesdansteater
con il contributo di ResiDance XL
vincitore di CollaborAction#4 2018/2019

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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