In linea con la natura processuale di questa edizione del Festival Fuori Programma 2019, abbiamo preso parte alla giornata iniziale del Summer Intensive Sharing del coreografo israeliano Emanuel Gat. Workshop della durata di 5 giorni il cui esito finale sarà presentato al DAF (Dance Arts Faculty) il prossimo 31 luglio. Contenuto creato in media partnership con Fuori programma 2019.
Lo scopo della creazione e i principi che sottostanno alla metodologia di lavoro del coreografo israeliano Emanuel Gat sono strettamente interconnessi, come ci racconta lui stesso prima di iniziare il workshop Summer Intensive Sharing negli spazi del DAF (Dance Arts Faculty), Centro Internazionale per la Formazione e il Perfezionamento Professionale nella Danza. «La mia priorità è definire uno spazio per i danzatori con i quali lavoro: una dimensione creativa all’interno della quale poter dispiegare un processo e costruire un ambiente, permettendo ai performer di potenziare la loro espressione». Questo è il secondo anno consecutivo in cui il progetto di studio intensivo diretto da Gat e dai suoi storici collaboratori Sara Wilhelmsson e Michael Loehr ha luogo durante Fuori Programma.
Una full immersion nel metodo del coreografo che vede la partecipazione di 32 danzatori professionisti provenienti da tutto il mondo di cui 7 italiani. «Non esiste per me un’unica tipologia di danzatore; sono molto diversi l’uno dall’altro sia per tecniche che fisionomia. Le qualità che solitamente ricerco sono l’indipendenza, la curiosità, la generosità, l’essere di larghe vedute e reattivi rispetto alla creazione».
Nella sala grande al primo piano del DAF, il gruppo di partecipanti è stato inizialmente diviso in 5 sottogruppi, a ciascuno è stato richiesto di elaborare brevi phrases: a rotazione un singolo danzatore assume il ruolo di “creatore” di una breve partitura, condivisa e riprodotta dagli altri secondo una logica di azione e reazione. «Consegno loro un lavoro di cui devono essere responsabili, non come esecutori ma come parte integrante e attiva di un processo che non può essere semplicemente insegnato. Il mio ruolo è più quello del coach di una squadra: non dico loro quando calciare la palla, li aiuto a percepirsi parte di un gruppo coeso e a trovare il proprio ruolo all’interno; quando il danzatore “gioca” io ho fiducia in lui». In questa prima fase del lavoro, il coreografo ha invitato gli astanti a scardinare le proprie abitudini stilistiche facendo attenzione all’immediatezza del movimento e alla sua comunicabilità. Focus sui dettagli, consapevolezza del gruppo, gestione del tempo, sentirsi parte di un insieme sono state le linee guida di questa fase propedeutica.
«Esattamente come quando creo una coreografia, anche durante questi cinque giorni non partirò da idee preconcette: il processo è un adattamento ai danzatori, i quali sono lasciati liberi di sperimentare. Studiando poi le loro reazioni, sarà mio compito selezionare e combinare assieme gli elementi. Come se fossero dei pezzi di Lego con cui costruire la struttura finale». Prassi lavorativa che sarà poi superata in favore del consolidamento di un unico ensemble, la cui costituzione sarà frutto di un bilanciamento tanto del materiale proposto dai danzatori che delle forze messe in campo. La scrittura coreografica di Emanuel Gat si dimostra anche in questa occasione non aprioristica: «i danzatori sono al centro e sta a loro sviluppare il proprio potenziale creativo, l’esito di questo processo ne sarà la risultante. Non lavoro mai su qualcosa ma con qualcuno».
Redazione
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