Intervista ad Andrea De Magistris, direttore artistico del gruppo romano Dynamis, la cui pratica si basa sull’esplorazione delle possibilità al limite del teatro attraverso performance, installazioni, formazione.
Da un orizzonte legato a una ricerca finalizzata alla creazione spettacolare, come Dynamis vi siete allargati a un orizzonte di tipo performativo. Mi parleresti del vostro percorso artistico?
Dynamis è una forza in potenza, una forza che precede l’atto stesso dell’agire. C’è un costrutto latino che rimanda al participio futuro, qualcosa in procinto di avvenire. Mi piace fare una metafora legata al calcio: il portiere che si prepara al calcio di rigore è in attesa, quel “prima” non è una stasi passiva, perché sta prevedendo quali potranno essere le possibilità di azione per parare la palla. La performance è dare forma a qualche cosa. Noi raccontiamo ciò che ci accade attorno con il nostro linguaggio, quando mi chiedono se facciamo teatro contemporaneo e partecipato, mi piacerebbe poter semplicemente dire: «io faccio teatro».
La nostra è un’entità multipla, ci sono molte persone che vi ruotano attorno e che collaborano attivamente con il gruppo, ma lo zoccolo duro è composto da cinque persone, con ruoli diversi. Le collaborazioni spaziano spesso oltre il teatro: architetti, sociologi, pirati informatici… Il teatro è un punto di incrocio. Anche in ragione della natura delle collaborazioni, Dynamis non è una compagnia ma un gruppo di lavoro e di studio che promuove, con serena ostinazione, un lavoro di ricerca e formazione teatrale attraverso la sperimentazione di diverse forme e linguaggi espressivi.
Non siamo trincerati dietro una cifra stilistica, sicuramente abbiamo un metodo di lavoro attoriale legato al corpo e all’espressività del sé, ma non è un dogma bensì un punto di partenza. Le tradizioni, anche quelle perfettamente e formalmente strutturate, se non attuano un cambiamento almeno del 20%, si dice che muoiano. Noi non rinneghiamo la tradizione ma mi chiedo sempre come possiamo trasformare qualcosa per non farla morire. Si fa sempre qualcosa per mostrarla a qualcuno. Tuttavia, il termine “spettacolo” mi sta un po’ stretto. Il punto fondamentale che ritrovo nella pratica performativa è il riconoscimento con la platea, perché se non dialoghiamo con loro la nostra proposta scade nell’autoreferenzialità. Il lavoro è duttile, non si affeziona a forme troppo strutturate o fisse, ma mantiene comunque una sua etica. L’etica è l’imperativo interno che ci muove, tutti i nostri spettacoli sono legati a temi di studio che ci interessano, organizzati in un processo creativo sul quale indaghiamo molto, gradualmente, e soprattutto a più mani.
La vostra pratica performativa spesso mette in contatto chi fa l’azione e chi la osserva: c’è chi sostiene che ogni tipo di teatro dovrebbe essere partecipato, poi ci sono state anche storicamente delle esperienze che hanno cercato la partecipazione in modo più esplicito. Questo grado di partecipazione, che va alla ricerca di un qui e ora, di un contatto, di una sincerità a volte rischia di essere più occasionale o formale. Come ragionare su questo nodo?
Ora è tornato in qualche modo in auge il teatro partecipato. Se pensiamo all’Atene del V secolo sugli spalti accadeva di tutto. Per noi è interessante mescolare, capire in che condizione mettere il pubblico. In una condizione di distanza, oppure prendendolo per i capelli e strappandolo dalla sua condizione di tranquillità? Forse nessuna delle due, anche se il pubblico dovrebbe stare sempre in allerta. Sto parlando di quella stessa condizione che vivono i nostri performer in scena, data dall’elemento di indeterminatezza che può essere causato anche dalla partecipazione del pubblico.
Ricordo un episodio accaduto qui nel foyer del Vascello, nostra casa per otto anni: una ragazza durante una delle ennesime matinée mi disse: «quando vedo il teatro mi prende l’angoscia, è buio, bisogna stare in silenzio, non lo capisco….» Il teatro dovrebbe esser uno spazio di comunicazione, dovrebbe incontrarti e non respingerti. Come fare? Forse investendo il pubblico, non necessariamente coinvolgendolo come partecipante attivo. Ma le domande sono sempre le stesse: qual è la condizione del pubblico, come ci poniamo noi all’interno della performance?
I nostri performer sono sempre esposti ad un qualche grado di “pericolosità”, non possono dimenticarsi di agire “qui e ora” senza diventare ripetitori automatici di battute e movimenti. Per ritornare al “sé magico” di Stanislavskij, devo rinnovare continuamente quello che sto facendo.
Qual è il confine tra performance e operazioni in cui l’elemento spontaneo è preponderante rispetto a quello della predeterminazione?
Credo che il carattere di predeterminazione esista sempre, in una buona percentuale. Ad esempio, con la nostra performance 2115 ci insediamo in un luogo, lo studiamo e costruiamo un cerimoniale aperto alla comunità. La performance consiste nell’interramento di una capsula del tempo nel posto più significativo per quella città. A Pergine Festival, dove siamo artisti residenti e abbiamo portato questo lavoro qualche anno fa, alla performance erano presenti persone che non si sarebbero mai avvicinate al mondo delle arti performative se non si fossero sentite coinvolte dal progetto. La capsula, per altro, non è un’intuizione nuova: dagli egizi alla nonna che conserva la scatola di metallo, dalla Nasa che ne ha inviata una nello spazio alle capsule quotidiane di Andy Warhol, il dispositivo è pop; il nostro progetto lo ha messo a servizio del teatro.
Il teatro in cui crediamo non è intrattenimento, ma trattenimento, magari non sono riuscito a capire tutto quello che ho visto ma deve lasciarmi delle domande, una traccia. In questo la forma aperta della performance ci aiuta. L’obiettivo è sempre comunicare e non raccontarsi edonisticamente.
Nel progetto Amour che abbiamo sviluppato quest’anno, e che debutta l’11 luglio all’interno del Pergine Festival, ci siamo interrogati sui grandi numeri del teatro amatoriale e sulla tensione che muove le persone che ne fanno parte. La composizione scenica di Amour celebra l’incontro tra teatro contemporaneo e filodrammatiche locali in una sfida performativa incentrata sull’esposizione dell’attore. Cos’è un attore e che vuol dire esporsi di fronte a un pubblico? Con gli amatori trentini ci siamo studiati un po’ a distanza inizialmente, con il timore che l’altro fosse “quello strano”, ma l’incontro è stato ovviamente virtuoso. Sono persone il cui amore verso il teatro, l’essere amatore, è molto forte, molto evidente. Anche in questo caso la domanda è la stessa di prima, in che condizione ci mettiamo noi? Mettiamo a rischio il nostro linguaggio? Abbiamo qualcosa da dire? Noi abbiamo il nostro progetto, le nostre idee, ma non possiamo fare tutto da soli.
Viviana Raciti