IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. In occasione della festa del 2 giugno, Il numero 94 è dedicato alla Repubblica di platone.
Il progetto politico della Repubblica di Platone parte da una premessa che, purtroppo, pare essere ancora valida ai giorni nostri. La piaga peggiore delle città corrotte dal malessere è la presenza dell’ingiustizia. Molti esseri umani sono convinti, infatti, che essere ingiusti sia una virtù e che tale comportamento sia lecito per acquisire beni come il potere, il piacere, la ricchezza. Chiunque avesse la forza di praticare l’ingiustizia sarebbe allora giustificato a commetterla perché otterrebbe in modo facile e diretto tutto ciò che ogni persona non può che sinceramente desiderare.
Per contrastare questo cancro interno alle città, Platone è così costretto a intervenire, per così dire, dalle fondamenta. Poiché gli individui ingiusti sono ormai irrecuperabili, occorre educare alla giustizia la futura generazione che dovrà governare e proteggere lo stato. Il risultato sarà che, dalle ceneri della comunità corrotta del presente, sorgerà una società onesta, vigorosa e splendente, come un’Araba Fenice.
Quel che ci interessa approfondire in questa sede è tuttavia solo una parte dell’ambizioso progetto platonico. Mi riferisco alla teorizzazione della riforma della poesia drammatica per educare le future generazioni alla giustizia, compiuta nei libri II-III della Repubblica. Secondo la genealogia della società che Platone fa esprimere a Socrate, infatti, la città ingiusta sarebbe nata quando si introdusse al suo interno il lusso, che tra le varie cose portò con sé il teatro. La premessa implicita di questo discorso è, dunque, che l’arte teatrale è una sorta di bene lussuoso che rompe un equilibrio instauratosi nella comunità delle origini. Prima dell’avvento del lusso, la società era semplice e spartana, ma anche sana e pacifica. Con l’avvento del teatro, invece, la città divenne malata, patì un’infiammazione interna che portò col tempo al morbo dell’ingiustizia e dei suoi miasmi.
Intervenire sull’arte teatrale significa, dunque, purificare o guarire per quanto è possibile la società dal suo male, facendo vedere e ascoltare alle future generazioni degli spettacoli che inducono a preferire la giustizia. Platone ritiene, più nello specifico, che occorra operare sui miti che vengono raccontati a teatro dalla tragedia e dalla commedia, tanto sul piano del contenuto, quanto su quello dello stile.
A livello contenutistico, il personaggio di Socrate teorizza una censura programmatica di tutti i racconti della tradizione che destano negli spettatori passioni smodate e comportamenti che possono ledere la comunità, ovvero che spingono ad agire ingiustamente. Possiamo fare due esempi che attingono alla dimensione teologica. Il mito tragico di Fedra che racconta di come Afrodite volle vendicarsi di un torto subìto da Ippolito facendo impazzire la sua matrigna di una malattia d’amore rappresenta il divino come proclive a ira e risentimento, dunque spinge a praticare l’ingiustizia assecondando le due passioni. Se infatti si vede sulla scena che una divinità compie un male per vendetta, perché quest’ultima non dovrebbe risultare lecita anche per un essere umano? O ancora, la commedia che rappresenta gli dèi in preda a riso inestinguibile presenta un mito diseducativo, perché mostra che è lecito abbandonarsi a forti spinte emotive e alle condotte altrettanto dissolute che ne conseguono. Al posto di simili racconti tragici e comici, si dovrà allora raccontare ai bambini che un giorno dovranno governare e abitare la città una teologia razionale, che narra come la divinità sia immutabile, buona, non responsabile del male e immune dalle passioni. Le future generazioni avranno così a modello una concezione del divino che tutela dall’ingiustizia e invita a una condotta misurata/pacifica.
La riforma del teatro sul piano dello stile è più complessa. Socrate distingue con il suo interlocutore Adimanto tre tipi di esposizione di un mito: il modo mimetico, in cui il poeta si nasconde dietro i personaggi o i fatti imitati, il modo narrativo, dove invece si raccontano direttamente gli eventi, e il modo misto, che alterna narrazione e mimesi. La tragedia e la commedia sono annoverate nel primo tipo espositivo, dal momento che l’autore drammatico non si vede e che tutto il racconto è compiuto da attori che imitano dèi o esseri umani, ma anche gli eventi naturali e gli enti artificiali (rombi di tuono, il sibilo della freccia scagliata, ecc.). Pur dando l’impressione di essere una digressione critico-letteraria rispetto al tema politico, la riflessione sullo stile è invece essenziale in quanto propedeutica alla scoperta della forma più adatta a rappresentare i nuovi miti sul palcoscenico dello Stato. Platone non prende al riguardo una posizione netta. Egli attribuisce ad Adimanto una preferenza verso l’imitazione pura sulla scena del carattere virtuoso, mentre fa abbracciare a Socrate una rilettura del tipo misto: l’attore racconterà ai bambini un mito immedesimandosi completamente nei personaggi buoni, mentre narrerà con distacco e anzi vergognandosene tutto ciò che risulta turpe, vizioso, sconveniente. Platone si nasconde a sua volta, dunque, dietro i suoi personaggi, invitando il lettore a ragionare sullo stile migliore da usare, ma al contempo evidenzia con forza che il male o il vizio non deve mai diventare oggetto di imitazione, bensì solo di narrazione. La censura investe così lo stile oltre che il contenuto. Anche se i miti ammessi nello stato contengono ancora qualche retaggio dei racconti scabrosi della tradizione, bisognerà considerarli come corpi estranei e liquidarli rapidamente, per impedire loro di nuocere alla salute pubblica.
Si potrebbe obiettare che, pur animato da un intento nobile, il programma di riforma platonico pone dei limiti morali all’arte e cancella quello che dovrebbe essere il proprium dell’esperienza teatrale: il piacere estetico. Il pubblico è reso immune dalla propensione all’ingiustizia, e tuttavia è privato di un’esperienza intensa che i miti della tradizione, pur coi loro difetti, riescono a procurare. Adimanto e Socrate ammettono chiaramente, del resto, che i nuovi miti risulteranno monotoni e uniformi, dunque meno piacevoli, delle imitazioni ben più complesse e variegate dell’attore che interpreta il malvagio, il carattere volubile e contraddittorio, o anche i fenomeni naturali e gli enti artificiali. Nello stesso tempo, però, si può in parte evadere da questa critica esaminando rapidamente altri due elementi del discorso platonico sull’arte.
Da un lato, Platone sostiene che, diversamente dalla narrazione che racconta i fatti in modo neutro e senza destare emozioni, l’imitazione comporta sempre un’identificazione dello spettatore con il personaggio recitato da un attore e il sorgere di un’intensa emozione. Dall’altro lato, egli parte dall’idea che ogni essere umano è incapace di imitare alla perfezione più di un carattere, perché la natura umana non riesce a perfezionare che una sola capacità e non molte tra loro diverse. Ciò lo si vede persino tra gli attori, alcuni dei quali eccellono nella tragedia ma risultano pessimi nella commedia, altri mostrano il contrario. Ora, la scelta di un unico contenuto da presentare come degno di imitazione alle future generazioni (un dio o un eroe sempre buono e mai volubile) e dello stile adeguato serve sia a orientare il pubblico a incanalare le proprie energie limitate a imitare questo carattere eccezionale, sia a identificarsi con questi per provare una forte emozione. Si tratta dell’amore per la virtù e per il bello, che il personaggio giusto incarna in un corpo e una figura amabile. Lungi dunque dal censurare a fin di bene la libertà dell’arte, Platone cerca al contrario di raffinare l’esperienza del piacere estetico in una forma meno pericolosa, che va a vantaggio tanto degli individui, quanto della città malata. Eplicitando la metafora erotica usata da Platone, in arte, censurare in nome di questo amore, come avere un orgasmo con la giustizia, invece di guardarla come un’idea astratta, a cui la mente e il cuore devono conformarsi mal volentieri. È un limite posto per raffrenare il piacere della sopraffazione e del massacro, per apprendere ad amare qualità più belle e autentiche.
Enrico Piergiacomi
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Ed egli replicò: «Socrate, se fondassi una città di porci, li pasceresti con un cibo diverso da questo?» «Ma allora come bisogna fare, Glaucone?», domandai. «Come si fa di solito», rispose. «Chi non vuole stare scomodo deve sdraiarsi su un lettino, credo, e prendere il cibo da una tavola, mangiando condimenti e dolci come gli uomini d’oggi». «Bene», dissi, «ora capisco. A quanto pare non stiamo ricercando l’origine di una semplice città, bensì di una città che vive nel lusso. E forse non è un male, poiché esaminandone anche una di questo genere forse potremo vedere come negli Stati nascono la giustizia e l’ingiustizia. Comunque la vera città mi pare quella che abbiamo descritto, una città sana; ma se volete, consideriamo anche una città affetta da infiammazione: nulla lo vieta. A quanto pare, alcuni non si accontenteranno di queste prescrizioni e di questo tenore di vita, ma aggiungeranno lettini, tavole e le altre suppellettili, e poi condimenti, profumi, incensi, etere, manicaretti e ogni sorta di simili raffinatezze. Inoltre non devono essere più tenute per necessarie le cose che abbiamo elencato prima, case, indumenti e calzature, ma bisogna scomodare la pittura e il ricamo e possedere oro, avorio e ogni altra materia preziosa. Non è così?». «Sì», rispose. «Perciò si deve nuovamente ingrandire la città, poiché quella sana non basta più, ma ora va riempita di una massa di gente che non abita più nelle città per procurarsi il necessario: ad esempio i cacciatori e gli imitatori di ogni specie, molti che si occupano del disegno e dei colori oppure della musica, i poeti e i loro attendenti, rapsodi, attori, coreuti, impresari, costruttori di oggetti per tutti gli usi, in particolare per la cosmesi femminile. E ci occorrerà anche un numero maggiore di servitori: non ti sembra che avremo bisogno di pedagoghi, balie, nutrici, acconciatrici, barbieri, e poi di cuochi e macellai? Inoltre avremo bisogno anche di porcari: nella città di prima non ne avevamo, perché non erano necessari, ma in questa occorrono anche loro. Ci vorranno anche molti altri animali da pascolo, se c’è chi ne mangia. Non è vero?» «Come no?» (Platone, Repubblica, libro II, passo 372d-373c)
«Non capisci», ripresi, «che ai bambini raccontiamo innanzitutto delle favole? Ciò nel suo complesso è una menzogna, che però contiene anche un fondo di verità. E noi insegniamo ai bambini le favole prima che la ginnastica». «È così». «Ecco perché dicevo che bisogna praticare la musica prima che la ginnastica». «Giusto», disse. «E non sai che in ogni opera l’inizio è di fondamentale importanza tanto più se si tratta di una creatura giovane e delicata? È soprattutto a quell’età che ciascun individuo viene plasmato e segnato con l’impronta che gli si vuole imprimere». «Proprio così». «E permetteremo così, a cuor leggero, che i bambini ascoltino favole di bassa lega plasmate da persone qualsiasi e ricevano nell’anima opinioni per lo più contrarie a quelle che, a nostro giudizio, dovranno avere quando saranno divenuti adulti?» «No, non lo permetteremo in nessun modo». «Perciò, a quanto pare, dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e scartando quelle composte male. Poi convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini le favole che abbiamo approvato e a plasmare le loro anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna rigettare la maggior parte dei favole che si narrano ai giorni nostri». «Quali?», domandò. «Nelle favole maggiori», risposi, «vedremo riflesse anche le minori. Infatti sia le une sia le altre devono avere la stessa impronta e produrre lo stesso effetto. Non credi??». «Sì», disse. «Ma non capisco che cosa intendi per favole maggiori». «Quelle che ci hanno cantato Esiodo, Omero e gli altri poeti. Sono loro che hanno composto miti falsi e li hanno narrati, e li narrano tuttora, agli uomini». «Quali sono», chiese, «e che cosa critichi in essi?». «Ciò che bisogna criticare più d’ogni altra cosa», risposi, «tanto più se le menzogne narrate non sono neanche belle». «E cioè?». «Quando nel racconto si dà una cattiva rappresentazione della natura degli dèi e degli eroi, come un pittore che dipinge immagini per nulla simili a quello che voleva riprodurre» (Platone, Repubblica, libro II, passo II 377a-377e).
«Insomma, la divinità è semplice e veritiera nei fatti e nelle parole, non subisce mutamenti e non inganna gli altri né con apparizioni, né con discorsi, né con l’invio di segni durante la veglia o in sogno». «A sentirlo dire da te», confessò, «anch’io sono dello stesso avviso». «Allora», ribadii, «ammetti che il secondo principio da seguire, quando si parla e si scrive poesia sugli dèi, sia che essi non sono dei maghi intenti a trasformarsi e a sedurci con parole o fatti mendaci?» «Lo ammetto» (Platone, Repubblica, libro II, passo 382e-383a).
«E io intendevo dire proprio questo, che dobbiamo decidere di comune accordo se permetteremo ai poeti di usare nelle loro narrazioni uno stile imitativo, o uno stile solo in parte imitativo, distinguendo i casi che lo richiedono da quelli che non lo richiedono, oppure uno stile niente affatto imitativo». «Indovino», disse, «che tu vuoi considerare se accoglieremo o meno nella città la tragedia e la commedia». «Forse», dissi, «ma forse anche qualcosa di più. Io non lo so ancora, ma bisogna andare là dove il discorso, come un soffio di vento, ci porta». «Ben detto!», esclamò. «Ora, Adimanto, rifletti se i nostri guardiani debbano essere esperti di imitazione oppure no. Dal principio fissato in precedenza non deriva anche che ciascuno può esercitare bene un solo mestiere e non molti, anzi, se tentasse di praticare varie attività, in nessuna di essere riuscirebbe a ottenere buona fama?» «E come può essere diversamente?» «Allora il medesimo discorso vale anche per l’imitazione, vale a dire la stessa persona non è in grado di imitare più cose bene come una sola?» «No di certo». «Sarà quindi difficile che uno si dedichi ad attività importanti e nello stesso tempo imiti con perizia molte cose, dal momento che i medesimi poeti non sanno eseguire bene neppure le due imitazioni che paiono vicine tra loro, cioè la tragedia e la commedia. Non le hai chiamate poco fa imitazioni?» «Certo, e tu dici il vero: i medesimi poeti non lo sanno fare». «E neppure si può essere rapsodi e attori insieme». «Vero». «Ma gli attori delle commedie non sono gli stessi delle tragedie; eppure sono tutte imitazioni. O no?» «Sì, sono imitazioni».«Inoltre, Adimanto, mi pare che la natura umana sia suddivisa in pezzetti ancor più piccoli di questi, tanto da non essere in grado di imitare bene molte cose o di eseguire proprio ciò che viene riprodotto nelle imitazioni». «È verissimo», disse. «Se dunque riterremo ancora valida la nostra prima tesi, ovvero che i nostri guardiani devono trascurare tutte le altre attività per essere scrupolosissimi artefici della libertà cittadina e non devono occuparsi di nient’altro che non miri a questo scopo, essi non dovrebbero fare né imitare altro. Se poi eseguono delle imitazioni, devono imitare sin da ragazzi i modelli che si addicono a loro, cioè gli uomini coraggiosi, temperanti, pii, nobili d’animo, e tutte le altre qualità di questo tipo, ma non devono compiere né essere capaci di imitare ciò che è indegno di un uomo libero o altre azioni riprovevoli, per evitare che ne traggano il bel guadagno di essere uguali a ciò che imitano. O non ti sei accorto che le imitazioni, se cominciando dalla giovane età perdurano anche in seguito, si mutano in abitudini e in disposizione naturale del corpo, della voce e della mente?» «E come!», rispose (Platone, Repubblica, libro III, passo 394d-395d).
«Se comprendo il tuo pensiero», dissi, «esiste una forma di espressione e di narrazione di cui si servirà l’uomo realmente onesto, quando deve raccontare qualcosa, e un’altra forma, dissimile da questa, alla quale si atterrà sempre nella sua esposizione chi ha una natura e un’educazione contraria». «E quali sono queste due forme?», domandò. «Mi sembra», risposi, «che l’uomo equilibrato, quando nella sua narrazione arriverà a citare un detto o un fatto di un uomo onesto, vorrà riferirlo immedesimandosi in lui e non si vergognerà di questa imitazione, soprattutto se è rivolta all’uomo onesto che agisce in modo sicuro e assennato, un po’ meno se è caduto vittima di malattie o dell’amore, dell’ubriachezza o di qualche altra disgrazia; quando però s’imbatterà in una persona indegna, non vorrà conformarsi seriamente a chi gli è inferiore, se non occasionalmente, quando compie qualcosa di buono, ma se ne vergognerà, perché non è esercitato a imitare persone simili e nello stesso tempo gli dà noia modellare e atteggiare se stesso agli esempi di uomini più vili, che in cuor suo disprezza, a meno che non sia per gioco». «È naturale», disse. «Farà quindi uso di un’esposizione come quella che abbiamo citato poco fa a proposito dei versi di Omero, e il suo stile sarà partecipe di entrambe le forme, dell’imitazione e della narrazione pura e semplice, ma con una piccola parte imitativa all’interno di una lunga narrazione? O quello che dico non vale nulla?» «Tutt’altro: hai esposto perfettamente come dev’essere il modello del nostro retore». «Chi invece non gli assomiglia», proseguii, «quanto più sarà scadente, tanto più si abbandonerà a ogni sorta di narrazione e non riterrà nulla indegno di lui, al punto che si sforzerà di imitare seriamente, e al cospetto di molti, qualsiasi cosa, anche ciò che dicevamo prima: tuoni e strepito di venti, di grandine, di ruote e di argani, suoni di trombe, di flauti, di zampogne e di ogni altro strumento, e ancora versi di cani, di pecore e di uccelli. E il suo stile si baserà tutto sull’imitazione attraverso i suoni e i gesti, o avrà solo una minima parte narrativa?» «Anche questo è inevitabile», rispose. «Ecco», ribadii, «queste sono le due forme di espressione di cui parlavo». «Sì, sono queste», ammise. «La prima forma quindi comporta piccole variazioni, e se conferisce al proprio stile l’armonia e il ritmo che gli si addice, chi parla correttamente può mantenere quasi sempre la stessa e unica armonia, poiché le variazioni sono piccole, e parimenti anche un ritmo analogo?». «È senz’altro così», disse. «E l’altra forma? Non ha forse bisogno del contrario, ossia di tutte le armonie e di tutti i ritmi, se la si vuole esprimere in modo appropriato, dato che comporta ogni genere di mutazioni?». «Proprio così!». «Perciò tutti i poeti e coloro che hanno qualcosa da dire si trovano di fronte o l’uno o l’altro tipo di espressione, o uno risultante dalla mescolanza di entrambi?». «È inevitabile», rispose. «E allora cosa faremo?», domandai. «Accoglieremo nella città tutti questi modelli, o solo uno dei due puri, o quello misto?» «Se prevale il mio parere», rispose, «accoglieremo l’imitatore puro di ciò che è conveniente». «Eppure, Adimanto, è piacevole anche il tipo misto, ma il tipo opposto a quello che hai scelto è di gran lunga il più gradito a fanciulli, precettori e alla massa». «Sì , è il più gradito!». «Ma forse», continuai, «potresti obiettare che non si accorda alla nostra costituzione perché tra noi non c’è un uomo doppio né molteplice, dato che ciascuno esercita una sola attività». «Certo, non si accorda». «Per questo motivo allora solo in questa città troveremo che il calzolaio è calzolaio e non pratica, oltre alla sua arte, anche quella del timoniere, il contadino è contadino e non esercita, oltre all’agricoltura, anche il mestiere di giudice, e il guerriero è guerriero e non si occupa di affari oltre che della guerra, e così via?». «È vero», disse. «Perciò, a quanto pare, se un uomo capace di assumere con abilità ogni aspetto e di imitare qualsiasi cosa giungesse nella nostra città coll’intento di declamare i suoi componimenti, lo riveriremmo come un essere sacro, mirabile e piacevole, ma gli diremmo che nella nostra città un individuo simile non esiste né è lecito che esista, e lo spediremmo in un’altra città dopo avergli versato mirra sul capo e averlo coronato di lana; quanto a noi, mirando al nostro utile, ci terremmo un poeta e un mitologo più serio, ancorché meno gradevole, che sapesse imitare il modo di esprimersi dell’uomo onesto e parlasse attenendosi ai modelli che abbiamo fissato all’inizio, quando abbiamo intrapreso a educare i soldati» (Platone, Repubblica, libro III, passo 396b-398b)
«Il giusto amore invece è la naturale inclinazione ad amare ciò che è ordinato e bello secondo la temperanza e l’armonia della musica?». «Certamente», rispose. «Quindi al giusto amore non bisogna accostare nulla che sia folle o affine alla sfrenatezza?». «No, non bisogna». «Questo piacere va pertanto escluso e non deve avere relazione alcuna con un amante e un amato che si amino davvero?». «Ma certo, per Zeus!», rispose. «Dobbiamo escluderlo, Socrate!». «A quanto pare, dunque, nella città da noi fondata stabilirai per legge che l’amante baci l’amato, stia con lui e lo tocchi come un figlio, per un nobile fine e con il suo consenso, ma quanto al resto si comporti con la persona a lui cara in modo tale da non dare mai l’impressione che si spinga con lui troppo oltre questi limiti, altrimenti dovrà sostenere il biasimo di uomo ignorante di musica e inesperto del bello». «Proprio così », disse. «Ma non sembra anche a te», chiesi, «che il nostro discorso sulla musica sia giunto alla conclusione? Esso è terminato proprio là dove deve terminare: la musica trova il suo compimento nell’amore del bello» (Platone, Repubblica, libro III, passo 403a-403d).
[Le citazioni dai libri II e III della Repubblica sono tratte da Enrico Maltese (a cura di), Platone: Tutte le opere. Volume IV: Repubblica, Timeo, Crizia, Roma, Newton Compton, 1997]