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Purgatorio, il Teatro delle Albe a Matera. Risalire il monte umano

Il Teatro delle Albe ha portato a Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, Purgatorio – Chiamata Pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri, secondo capitolo di una trilogia che si concluderà nel 2021.

Foto Marco Caselli Nirmal

Tornare a Matera, ripercorrere le strade in piano, in salita e in discesa, assorbire ancora il chiarore della luce che colpisce, riflette, restituisce la sensazione di una città attraversata da un brulicare di persone, rinvigorita dagli eventi del programma racchiuso nell’epigrafe “Open Future” a sancire la filosofia della Capitale Europea della Cultura 2019.
Il giorno della Festa della Repubblica è anche quello dell’ultima replica di Purgatorio- Chiamata Pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri, allestimento del Teatro delle Albe fondato da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, prodotto in associazione tra il loro Ravenna Teatro e la Fondazione Matera-Basilicata 2019. È questo il secondo capitolo di un progetto sull’opera dantesca per antonomasia, incominciato nel 2017 con la messinscena dellInferno e destinato a concludersi nel 2021 (a Ravenna e a Timisoara, in occasione del settimo centenario della morte del Poeta) con il Paradiso.

L’ensemble romagnolo scrive da più di trent’anni la storia del teatro italiano incastonando le propria attività (performative, didattiche, organizzative, compositive e direttive) in quel crocevia dove estetica, ricerca, elaborazione dei linguaggi, impegno, abnegazione, sogno, tradimenti e coerenza si fondono in un’Arte pura e naturale il cui anelito sembra germinare da un sistema di forze dirompenti e serenissime. Forze centripete che inducono alla riflessione sul linguaggio particolare di questo gruppo, ma anche forze centrifughe orientate alla condivisione, all’incontro di dinamiche creative e tali risultati con il pubblico, la società civile, il mondo da cui e per cui pro-vengono.

Foto Marco Caselli Nirmal

Nell’attesa, la prima immagine che si imprime agli occhi, mento in alto e schiena al muro per rispetto della fila, si configurerà come un prodromo perfetto quantunque involontario. Una finestra affaccia sul lucernario di uno dei cortili del Convento delle Monacelle, nel comprensorio del quale tutto sta per accadere, in via del Riscatto. Il davanzale, protetto da spuntoni in ferro per evitare le nidiate degli uccelli, è violato da una coppia di colombi che, tra una intercapedine e l’altra del metallo, ha costruito la propria dimora e lì nutre e accudisce un pulcino. Questa immagine sembra suggerire che la generazione, la prosecuzione del creato, il rinnovarsi della vita sono profusioni espresse nell’adattamento di chi accetta senza piegarsi, nella resistenza alla mancata accoglienza, nella volontà di esistere nonostante tutto,  affermata pure a dispetto di un sistema ostile; non nella retorica del lamento ma nella trasfusione di una prospettiva.

Non più di un’ottantina di spettatori a sera per un numero ben più alto di performer e partecipanti, tra attori professionisti e abitanti del luogo che hanno partecipato e risposto alla chiamata. È una convocazione alla riscoperta della produzione di bellezza, alla distillazione di significati che a volte fende il tempo, gli anni e i secoli precipitando nelle mani di chi osserva e parla all’oggi senza paura di volgersi a padroneggiare il passato.
Il viaggio che da spettatori si è portati e condotti a compiere e che riproduce la peregrinazione di Dante nel regno della seconda Cantica, la risalita del monte del Purgatorio, comincia nella cappella antica della Madonna della Bruna (protettrice della città lucana), un ambiente raccolto ove il bianco e il panna fusi alla pietra del pavimento incorniciano l’unica effige mariana che sormonta il piccolo altare centrale e circondano una teca in vetro posta di fronte alla porta. Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, in completi di un candore integrale, si offrono sin da principio come guide e conduttori di un percorso scenico, narrativo, metaforico e letterale, il quale per struttura e concezione rimanda dichiaratamente alla sacra rappresentazione medievale.

Foto Marco Caselli Nirmal

Non a caso poco prima si adoperava come lemma “viaggio”: a prendere corpo è la definizione di una dimensione precisa al cui interno spettatori e attori/performer si intendono, quasi pariteticamente, tanto sacerdoti quanto fedeli di un grande rito teatrale, a frequenze differenziate e differenziali. Una serie di quadri, alcuni di passaggio, altri da “assistere”, alcuni più potenti, altri più “distesi”: dalla seduta messianica al dialogo civile, dalla sessione didattica alle citazioni poetiche, fino all’approssimarsi alle porte del regno della redenzione. Una riscrittura della Commedia che fa in modo che nulla o nessun personaggio si perda, e che pure si dimostra in grado di rileggere ogni elemento, per riscoprirne il valore in un momento storico in cui tutto pare già perduto: oggi l’inseguimento lieve dello splendore dell’ineffabile è stato sostituito dalla bulimica rappresentazione mediata del sé, a escludere la relazione umana, un momento in cui la speranza della rinascita è – forse – possibile, quantunque da stanare.

L’impatto che resiste con maggior forza rimane quello della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, al cui ingresso Martinelli e Montanari, insieme a quattro bambini in grembiule nero, anticipano, con un segno in fronte per tutti gli avventori, il crescendo di un coro che si avviluppa come un manto alle orecchie di chi entra. Un innalzarsi vorticoso di voci – coscientissimamente accavallate, poi placate, poi alternate a ritmo, singolarmente e all’unisono – amplifica e sprofonda in una composizione inquieta, trascesa, quasi misterica delle anime morte di morte violenta, velate da capo a piedi con colori tenui e illuminate da tagli di luce, come in certe pitture di Rembrandt.
E poi appare Bonconte da Montefeltro, seduto in cima a una finestra vestito da aviatore, a precedere la cornice dei superbi, una classe con lavagne cattedra e banchi su cui campeggiano fasci di spighe, malva, rosmarino e altre erbe. Ci si incammina fra le parole pronunciate («È a te come te che parlo. Qui troverai la strada per scendere dal tuo trono di carta, dalla tua vana superbia […] Strappa da te la vanità, ti dico strappala!»), si leggono le parole di Joseph Beuys segnate alle pareti, mentre quelle di Oderisi da Gubbio e quelle di Totò e di Ninetto Davoli, tratte da alcune sequenze di Uccellacci e Uccellini, vengono proiettate al fondo della parete centrale.

Foto Marco Caselli Nirmal

Seguono i penitenti, maglioni colorati a là Henri Matisse raccolti in file di banchi a riprodurre ancora una volta una classe, con tre lavagne al fondo ad annunciare le filiazioni poetiche e concettuali che ravvivano il quadro (Majakovskij/Alighieri, Vermi e Farfalle, Whitman/J. Done/Hillesum). Fra gli invidiosi Sapìa, cui gli occhi non son cuciti ma impediti, ottusi da una ghirlanda di rovi, e poi la geometrica e arabesca riproduzione della cornice degli avari, col confronto speculare tra la pelliccia chiara del Re Ugo Capeto e il cappotto nocciola di papa Adriano V, entrambi stesi con le braccia aperte e il viso a terra, separati i crani da una corona e una mitra.
La risalita dall’interno all’esterno, dal basso verso l’alto, conduce sino al ballatoio delle terrazze del comprensorio delle Monacelle, che affaccia sulla cornice degli iracondi e sull’intervento di Marco Lombardo, prima in disparte e poi distinto dalla miriade delle anime ronzanti su una enorme cartina della Penisola. Così si giunge al Paradiso Terrestre, dove quattro adolescenti, intente a sistemar la terra in altrettanti vasi con un impermeabile giallo (rimando a Greta Thunberg), ci raccontano lo scempio della natura, il dramma ecologico con un ripetuto: «Voi non avete più alibi e noi non abbiamo più tempo».

Nel fare da guida nel percorso di ricostruzione e restituzione di questo Purgatorio dantesco, Martinelli è un conduttore parlante, Montanari anche portatrice-interprete delle parole del Poeta e del suo accompagnatore Virgilio. Un Purgatorio che si dispiega tra i versi del testo cardine da cui si è originata la lingua italiana, altri che hanno segnato le avanguardie e i pensieri del Novecento e oltre i crucci della società contemporanea che qui, nel suo teatro, si riflette e indaga la possibilità di riconsiderare una redenzione civile, politica, ambientale, comunicativa.
Ritroviamo molti dei temi e delle modalità che sin dal principio accompagnano e caratterizzano l’evoluzione del percorso artistico delle Albe: un ecosistema governato nella collaborazione dalle due personalità fondatrici che tuttavia, come ribadito anni addietro in una conversazione su queste pagine, rifiutano una gerarchizzazione e lo fanno per vocazione, per essenza, per necessità artistica ed esistenziale.

Sarà da tale equilibrio ideale e quasi idealistico, condivisibile e condiviso nel privato come nel lavoro, che deriva l’aura garbata nella postura dei due, una foggia o un’intenzione di sguardo che invitano e rassicurano, che rifulgono e incoraggiano senza abbandonare la propria portata critica, che non sapremmo definire se non con il termine grazia. Il lavoro sulla voce di Ermanna Montanari, più volte riconosciuto e premiato, si ritrova nella modulazione tonale sua e degli interpreti tutti, nell’articolazione del movimento che diventa gesto per il tramite della parola, del verso, del ritmo, dell’elaborazione del tono, che arriva a cifrare l’espressione del volto non per imposizione ma per un sorta di fisiologia o fisionomia semantica.

Foto Marco Caselli Nirmal

Grande sensibilità si denota nella composizione dell’immagine, dell’affresco generale. La scelta degli spazi, adattata allo specifico delle disponibilità e delle caratteristiche materane, dice molto di quell’idea di conversione dimensionale, del concetto di farsi luogo caratterizzante l’ensemble romagnolo. Sullo stesso piano, allora, si può leggere l’affetto dell’abbraccio espanso, tributato dalla comunità cittadina al collettivo al termine della messinscena. Perché la configurazione di un luogo, la sua appropriazione o riappropriazione, sono un atto civile e politico, un atto catartico che recupera nell’incontro il senso primo, sacro e santo del teatro. Si manifesta il qui ed ora del pensiero, degli occhi, del respiro, si verifica un atto di presenza, impossibile se non nell’accettazione di perdere o nel rischio del non sapere cosa trovare, per l’altro e per se stessi.

La conoscenza o la scoperta non dovrebbero essere altro che un personale salto nel buio a favore di una miriade di mondi, anime, parole, esigenze, a favore di un’infinità di altri personali salti nel buio, per risalire la china, attraversare e oltrepassare una «selva oscura», sino a una nuova luce.
Forse è vero che, in scena e fuori da essa, la grazia è un dono alle porte del quale si resta atterriti, in preda a un’attesa gravida, davanti a cui permane un dubbio di merito. Oppure la grazia è solo un’acquisizione, plasmata e levigata nell’affrancamento dalle storture del mondo, lontana dalla povertà di senso, dall’assenza di poesia negli sguardi, negli universi, acquisizione inscritta in un’incendiaria e lucida riflessione, in una elegante, convinta, serratissima fiducia nella più ampia accezione del termine “umano”.

Marianna Masselli

Convento delle Monacelle, Matera – giugno 2019.

PURGATORIO- CHIAMATA PUBBLICA PER LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI

in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Nadia Casamassima, Alessandro Crocco, Roberto Magnani, Alessandro Miele, Laura Redaelli, Alessandro Renda, Salvatore Tringali
musiche Luigi Ceccarelli in collaborazione con Giacomo Piermatti, Vincenzo Coro e gli allievi della scuola di Musica Elettronica e di Percussione del Conservatorio Statale di Musica Ottorino Respighi – Latina Valerio Cugini, Luca Giacobbe, Giovanni Tancredi, Andrea Veneri, Riccardo Zelinotti e con la partecipazione di Simone Marzocchi
spazio scenico e costumi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Brera – Milano – Scuola di Scenografia e Costumi Ambra Accorsi, Gaia Crespi, Nadir Dal Grande, Alessio Di Meo, Ludovica Diomedi, Federica Famà, Elisa Gelmi, Matilde Grossi, Carmen Loconte, Andrea Pogliani, Flavia Ruggeri, Francesca Sartorio coordinati da Edoardo Sanchi e da Paola Giorgi
in collaborazione con Accademia delle Belle Arti di Brera- Milano-Scuola di Scenografia e Costume
regia del suono Marco Olivieri
disegno luci Fabio Sajiz
direzione tecnica Enrico Isola e Fagio
tecnici luci Luca Pagliano e Angelo Piccinni
realizzazione scenica squadra tecnica del Teatro delle Albe Alessandro Bonoli, Fabio Ceroni, Fagio, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Dennis Masotti, Luca Pagliano, Joseph Geooffiau
sartoria A.N.G.E.L.O., Laura Graziani Alta Moda, Lorena Majer, Sartoria Fiori e l’occhiello
organizzazione Silvia Pagliano con Veronica Gennari, Giusy Mingolla
ufficio stampa Rosalba Ruggeri
guide Anna Maria D’Adamo, Andrea Santantonio
collaborazione alla chiamata pubblica IAC Centro Arti Integrate

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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