A 15 anni dal debutto torna <OTTO> di Kinkaleri, andato in scena durante la rassegna Buffalo inserita nel cartellone di Grandi Pianure. Gli spazi sconfinati della danza contemporanea, progetto a cura di Michele Di Stefano per il Teatro di Roma. Recensione.
Il classico è privo di un tempo specifico perché in realtà li racchiude tutti, li attraversa, nutrendosi polisemanticamente, esponendo paradigmi che l’avanguardia decostruisce e ripensa. La perturbazione si scatena nel passaggio, nel divenire di una forma non ancora definita, nella totale affermazione e dispiegamento di un’autonomia, di una postura incontrovertibile. <OTTO> quindici anni fa, <OTTO> quindici anni dopo. Il palindromo chiuso in un numero, l’infinito aperto in un segno coreografico. Che cosa è cambiato per e con questo lavoro vincitore del Premio Ubu come migliore spettacolo di Teatro-Danza nel 2002?
Io, per esempio, quindici anni fa non c’ero; assente nel prima, partecipe nel dopo, grazie a questo re-enactement inserito nella rassegna Buffalo, facente parte del progetto Grandi Pianure curato da Michele Di Stefano per il Teatro di Roma. Non risulta un caso che a programmarlo sia proprio un artista che, trovando dialogo e confronto nella nuova direzione artistica del Teatro di Roma, ha scelto di inserire in cartellone uno spettacolo di una generazione (nel quale Di Stefano stesso potrebbe essere collocato) di artisti danzatori che si percepiscono negli interstizi di una fase di passaggio. Un «luogo extra» come quello del Palazzo delle Esposizioni accoglie dunque il “non luogo” del gesto di Kinkaleri, compagnia pratese il cui linguaggio, sin dalla sua nascita nel 1995, sconfina nelle pianure incontaminate della danza, del teatro e del video.
«In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora» Così Albert Camus ne Il mito di Sisifo (Bompiani, 2003). L’assurdo dato, l’inevitabile risalita e poi ridiscesa, questa coazione a ripetere insita nell’anelito filosofico dello scrittore di origine algerina sembra traslarsi ancora, e con più forza dal 2003, nell’installazione coreografica ora riproposta da Massimo Conti, Marco Mazzoni e Gina Monaco. Se agli albori del 2000 lo slancio del nuovo millennio dovette arrestarsi in virtù di un terrore imprevedibile, ora quello stesso terrore è diventato consuetudine, modus vivendi che non anticipa più la caduta perché già cade, fatalmente. Sul crinale di una linea tirata e tracciata a terra con lo scotch da pacchi si disegna una scena del crimine: un vuoto a rendere e corruttibile dai corpi di Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici, dagli oggetti, dalla musica e da un’addizione continua di segni metalinguistici che concorrono a sobillare l’attenzione dei fruitori.
<OTTO> è un dispositivo fenomenico in cui tutto inciampa sulla moquette di una stanza qualsiasi, si lancia nella sensualità di uno schizzo improvviso di panna da cucina, esplode in un pulviscolo di farina, sprizza come la birra nella lattina, si rovescia come latte versato sul tappeto… I performer non entrano ma cadono in scena seguendo un movimento quasi a canone, ognuno portatore di un oggetto che, sempre cadendo, modifica lo spazio e la percezione dello spettatore, divertito e/o in allerta per il prossimo e imprevedibile tonfo o scoppio.
Bruce Nauman potrebbe da un momento all’altro atterrare nello spazio di Kinkaleri e manipolare gli oggetti secondo il loro grado di performatività, muovendosi come fosse un serial killer concettuale, mietendo “caduti” che saranno contrassegnati da lettere, le stesse utilizzate dalla scientifica sul luogo del delitto. La morte, il crollo e il disfacimento sono rappresentati e resi riproducibili, sostenuti da inserimenti musicali coi quali sembra interagire solo la danzatrice (Chiara Bertuccelli) che, tra un plié e un esercizio alla sbarra che non c’è, li ascolta in cuffia, individualmente, senza alcuna condivisione con gli spettatori, che odono solo il feedback degli auricolari. Successi dei primi anni duemila come Fallin’ di Alicia Keys o Can’t Get You Out of My Head di Kylie Minogue diventano la colonna sonora con la quale la scena dialoga a distanza e per interposizione, una scelta di brani non casuale e volta a ribadire la persistenza di una coazione a ripetere al crollo. Il microfono, simbolo che amplifica indirettamente l’eco dei pezzi musicali, è oggetto muto, al quale ci si accosta per provare a parlare, tentare una comunicazione che tuttavia non riesce, si blocca, decade.
Così concertata, la drammaturgia si compone di corpi e oggetti interdipendenti tra loro che mutualmente convergono in una scena in grado di costruirsi come installazione sulla memoria, sulla stratificazione di tempo e senso. Come evidenziato da Andrea Lissoni in Destinati a Ricominciare. OTTO fra reale, memorie e immaginario, quelle non sono «citazioni esplicite che funzionano come citazioni, ma piuttosto dei metabolismi acquisiti che agiscono, polverizzandole, sulle placche mnemoniche ormai stereotipate». I rimandi colti dal pubblico, le ellissi di significato, le similitudini concorrono tutte a legittimare quell’immaginario riconoscibile e a creare un ipertesto coreografico. Su di esso viene poi costruita gradualmente l’installazione che alla fine di ciascuno spettacolo potrà essere fruita dagli spettatori, immobile, ricolma di elementi osservabili nella loro stasi conclusiva.
Un linguaggio schizofrenico, lo stesso di Louis Wolfson, un quasi novantenne scrittore statunitense che nel suo Le Schizo et les langues, con la prefazione di Gilles Deleuze, illustra un proprio sistema di comunicazione, qui ripreso da Kinkaleri a significazione di una serie di variabili linguistico-concettuali che, articolate insieme scenicamente, restituiscono al lavoro l’interdisciplinarietà e l’indefinitezza.
Nei primi anni Duemila, <OTTO> iniziava a sperimentare la possibilità di abitare spazi altri, come quelli museali, che ora sempre più rispetto ai teatri si consacrano a luoghi atti ad accogliere tutti quei lavori capaci di smarginare in altri ambiti e di farsi contaminare dalla natura dello spazio che li ospita.
Dopo quindici anni <OTTO> continua ancora a porsi come interrogazione mai conclusa sulla creazione, l’autorialità e la fruizione. Da qui la scelta di coinvolgere performer al di sotto dei trent’anni, al fine di riportare in scena lo spettacolo senza la sovrastruttura del ruolo, nella libera pratica e osservazione, con quella messa in discussione e quel grado di naïveté proficuo e stimolante. <OTTO> è estasi: irriverente, curiosa, destabililizzante e commovente; è guardare alle macerie del crollo con la ferma accettazione di un sorriso sulle labbra: «Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Lucia Medri
<OTTO>
progetto, realizzazione Kinkaleri / Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo
con Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici
produzione KLm / Kinkaleri
in collaborazione con Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Teatro Metastasio / ContemporaneaFestival, spazioK.Kinkaleri
con il sostegno di Regione Toscana, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Dipartimento dello spettacolo