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Focus Gérard Watkins. La violenza non fa Storia

Recensione e quinta di copertina in occasione delle due opere di Gèrard Watkins, Non mi ricordo più tanto bene e Scene di violenza coniugale, raccolte all’interno del volume edito da Cue Press nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe – Beyond Borders?, e presentate in due spettacoli prodotti dal teatro di Roma.

foto Manuela Giusto

Qualche anno fa, quando era in visita al Teatro di Roma per Battlefield, mi ritrovavo con Peter Brook a decidere la distanza tra lui e l’intervistatore a cui mi prestavo a fare da interprete. Il grande maestro butta lì una frase su quanto, in teatro, la prossimità tra attore e spettatore sia stata per lui una delle questioni più difficili da dirimere, ancor di più nelle regie curate per l’obiettivo televisivo (come, appunto, il Mahābhārata). Un «awkward feeling», una sensazione di forte straniamento dato dall’impossibilità di comprendere fino in fondo il senso e la funzione dello spazio. Ci troviamo d’accordo su un assunto semplice: quello spazio vuoto che puoi «chiamare teatro», come recita un suo celebre aforisma, appare destabilizzato dalla compresenza dei due termini di una stessa relazione, che si trovano a equilibrarsi a vicenda senza la giusta distanza di rispetto che il teatro delle origini aveva previsto.

Dal 28 maggio al 2 giugno un appartamento all’ombra della Piramide Cestia di Roma ha ospitato Scene di violenza coniugale, un testo di Gérard Watkins diretto da Elena Serra per Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Alberto Malanchino e Annamaria Troisi. Pur senza ispirarsi a casi specifici di cui purtroppo la nostra cronaca nera è affollata, l’autore franco-inglese ha ricamato attorno al tema – sfacciatamente identificato con il titolo – un intrico di tensioni terribilmente razionale. Attori e attrici interpretano, rispettivamente, Pascal, Annie, Liam e Rachida, due coppie francesi di due diverse estrazioni sociali. A unirle è l’abitazione dello stesso spazio vitale e la spirale di violenza in cui le due storie precipiteranno.

foto Manuela Giusto

L’intuizione dell’autore e attore – londinese di nascita, classe 1965 – è quella di far incrociare le due vicende solo in una scena, quella in cui entrambe le coppie visitano lo stesso appartamento, narrando poi i due feroci apologhi come se fossero preda di uno slittamento cronologico o avvenissero in due dimensioni parallele. Quella di Elena Serra è una scelta semplice ma decisiva: accettare la sfida di una messinscena immersiva in cui un massimo di venti spettatori prende posto lungo due delle mura dell’appartamento, ma al contempo rinunciare a una deriva iperrealista. Le sedie sono quelle pieghevoli di plastica che si trovano da Ikea, il mobilio è composto solo da un tavolo, un divano, un tappeto, oggetti che ogni coppia risistema, con rapidi gesti, ogni volta che guadagna la scena, come se dei fantasmi ne avessero scombinato l’ordine.
L’infanzia di Liam, in fuga dalle periferie violente e allucinate dal crack, la rigidità del retaggio musulmano di Rachida, la fragilità totale di Annie che cerca di ricostruirsi una vita con Pascal, fotografo radical chic che affonda il proprio declino in una brutalità terribilmente consapevole.

foto Manuela GIusto

In questa sorta di non luogo spaziale e temporale, una grande prova d’attori è in grado di abitare quell’«awkward feeling» con spaesante competenza, rendendoci spettatori di un’esecuzione osservata da dietro uno spesso vetro.
Questo straordinario ensemble di interpreti – costruito per l’occasione, attorno a un adattamento firmato da Serra con grande perizia – riesce nell’intento di tradurre le trame dei dialoghi in dispositivi di rabbia, oppressione, prevaricazione e terrore, sottolineando una violenza domestica non solo fisica ma principalmente psicologica, mentale anzi, in grado di destabilizzare innanzitutto il ritmo della dialettica, esploso in fratture di linguaggio e di gesti che feriscono nel profondo. Nei monologhi incolonnati nel finale la storia interiore dei caratteri, riassunta in minuziose anamnesi del vissuto, implode in una gelida constatazione: Roberto Corradino, che chiude, affonda i suoi occhi nei nostri, suggerendoci di considerare che qualcuno possa usare violenza per inseguire un puro piacere. E, come pensando ad alta voce, ci sorride: «Mi sembrate tutti dei bambini».

Sergio Lo Gatto

Appartamento privato, Roma – maggio 2019

SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE
di Gérard Watkins
traduzione Monica Capuani
regia Elena Serra
con Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Alberto Malanchino, Annamaria Troisi
Produzione Teatro Di Dioniso, PAV
con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno
alla creazione contemporanea
nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe – Beyond Borders?

foto Viviana Raciti

Ricomporre l’infranto. Titolo del volume che raccoglie due opere di Gérard Watkins (recentemente edito da Cue Press con la traduzione di Monica Capuani e per la prima volta in Italia grazie al progetto Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders?) ma, ancora di più, tensione costante verso cui mirano Non mi ricordo più tanto bene e Scene di violenza coniugale, le cui rese sceniche sono state recentemente prodotte dal Teatro di Roma. Infrante sono le situazioni descritte, i personaggi che le abitano, i tempi scenici e drammaturgici, infranto è il linguaggio e il tentativo programmaticamente fallimentare di renderlo reale strumento di conoscenza interpersonale, di salvezza rispetto alla condizione fotografata. In questi «poemi drammatici», come li ha definiti Attilio Scarpellini nella sua prefazione Distruzione del dialogo. Ricostruzione del dialogo, fortissimo è il dispositivo di «una violenza eminentemente anti-linguistica, pronta a rimuovere l’altro, la sua presenza, il suo desiderio».

Nel primo testo del 2014, Je ne me souviens plus très bien, un uomo malato d’Alzheimer, Antoine D., si ritrova a dover fare i conti con il suo essere mancante, a rintracciare la propria identità dimenticata e le ricadute sociali e metaforiche della propria condizione coadiuvato da due ambigue figure di terapisti-carcerieri. Il refrain che dà anche titolo all’opera riguarda fin da subito l’identità personale, che il protagonista sente come rimpiazzata. Una frase come «Non mi ricordo più tanto bene. Mi sono svegliato e qualcuno aveva preso il mio posto» fa però da controcanto al suo lavoro di storico, incapace di ricordarsi il proprio cognome ma ossessionato dalle date di eventi noti.
In mancanza di altro, questi diventano gli unici tasselli, fermi ma inutili, da offrire a una società che si vorrebbe non luogo della memoria ma pragmatica e funzionale macchina del dovere: «Noi ce ne sbattiamo della tua banca dati universale. Noi vogliamo che ti ricordi di quando devi pagare le bollette. Di quando ti devi fermare al semaforo. Di quando devi votare. […] Perché il tuo problema, lo vuoi sapere qual è? Conoscenze, troppe». L’aiuto che arriva dal presente di Céline e Didier (che mettono in atto anche scoprendo la vena metateatrale del testo) è connotato da raziocinio, ironia superficiale, dominazione delle emozioni, salvo poi ritorcersi contro i propri fautori che cedono al peso della memoria e scoprendo (forse un po’ ingenuamente) le radici comuni al protagonista, si ritroveranno anch’essi a «vagare senza storia nella storia».

In Scènes de violences conjugales (2016) si alternano senza soluzione di continuità i rapporti tra due coppie all’interno dei quali le prevaricazioni dell’uno sull’altra, psicologiche e poi anche fisiche, diventano sempre più evidenti e non trascurabili. Soprattutto in questo testo, creato – racconta il regista e drammaturgo –  attraverso un lavoro di improvvisazione con gli attori della sua compagnia Perdita Ensemble, il dialogo espone continuamente la difficoltà comunicativa che anima le relazioni tra individui ma anche tra singolo e società, mettendo in luce, sul piano dei contenuti, insicurezze, pregiudizi, sentimenti repressi, accuse, tentativi maldestri di dichiarare il proprio disagio o di attutire, giustificandole, le proprie azioni e, su quello formale invece, un continuo cambio di rotta all’interno dei discorsi, continuamente inframezzati da incisi, ripensamenti, sottolineature, contraddizioni; che danno prova di un linguaggio vivido che mai perde la ritmicità dolorosamente martellante.

«Pascal Frontin: Sono stati cinque minuti – sono stati due minuti – lo vedi – cambi idea in continuazione – è difficile parlare con te – perché sei instabile – e soprattutto hai un linguaggio instabile – un linguaggio che non ha nessuna coerenza – una volta è bianco e una volta è nero – Annie Bardel: Ma mi sono scusata perché ho visto che eri arrabbiato – ma volevo che sapessi – volevo che sapessi che avevo dei figli – che avevo due figli da due padri diversi – e non volevo nascondertelo – e dato che non te ne avevo ancora parlato – mi sono detta che era il momento».

Due opere che diventano l’una controcanto dell’altra. In Non mi ricordo più tanto bene per Watkins la patologia diventa escamotage per parlare dell’ossessione novecentesca nei confronti della Storia, della memoria, del dover fare i conti con le tragedie che hanno sconvolto il secolo passato per cui, citando Hannah Arendt, «dimenticare è diventato un dovere sacro». Al contrario, Scene di violenza coniugale lavora sul pericolo del rimosso personale, su quell’azione di selezione volontaria di particolari comportamenti, e invita anzi a rifiutare di rimanere intrappolati in una dimensione di annichilimento dove riesce a poco la società (non riescono i poliziotti, né probabilmente le terapie di gruppo). L’unico atto salvifico, quando si è ancora in grado di raccontarlo, è un atto simbolico da attraversare per ritrovare il proprio diritto di sistenza.

«Mi sono sotterrata – ho scavato una buca – e mi sono sotterrata – perché lui era riuscito a uccidermi e io non avevo avuto il coraggio di dirlo a me stessa […] mi sono sdraiata lì e – mi sono rialzata – e sono tornata a casa – e bè – quando ho di nuovo incrociato me stessa – […] – mi sono soltanto detta – grazie perché ci sei».

Viviana Raciti

RICOMPORRE L’INFRANTO. DUE PEZZI TEATRALI
di Gérard Watkins
prefazione Attilio Scarpellini
traduzione Monica Capuani
prima edizione italiana Cue Press, Imola 2019
pagine 83
isbn 978-88-5510-042-7

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