HomeMedia partnershipBerardi Casolari, Roberto Castello, Fabrizio Arcuri. Le masterclass di Todi OFF 2019

Berardi Casolari, Roberto Castello, Fabrizio Arcuri. Le masterclass di Todi OFF 2019

Anche quest’anno Todi OFF 2019 offre la possibilità di partecipare a tre masterclass con tre artisti della scena contemporanea: la compagnia Berardi Casolari, che si concentrerà sulla creazione partendo da materiali autobiografici; il coreografo Roberto Castello, con cui sperimentare e mettere in crisi i propri linguaggi a partire dall’improvvisazione, e Fabrizio Arcuri, sul suo progetto legato all’indagine sulla storia del teatro. Interviste create in Media Partnership

Insegnare è un modo per continuare a imparare. Intervista alla Compagnia Berardi Casolari

Qual è il valore che ha per voi la trasmissione delle pratiche teatrali?

Il teatro, per la nostra esperienza, accade quando tra due individui c’è empatia. La tecnica, l’intuizione sono al servizio di questo mistero di comunicazione tra te e chi viene a vedere uno spettacolo, ma anche tra te e chi viene a imparare da te.  Quello che impari lo trasmetti solo donandoti all’altro e donando ciò che hai a tua volta imparato. Io ho “Imparato a bottega”, avevo visto il lavoro di un maestro e ho scelto di seguirlo perché mi interessava dove mi avrebbe portato, ma allo stesso tempo ci piace trasmettere quello che abbiamo ricevuto per poter creare una nuova e rinnovata base di condivisione.

Ci sta capitando ultimamente di fare molti laboratori, anche con non vedenti e spesso si vengono a creare dei momenti molto empatici sia per loro che per noi. Insegnare è un modo per continuare a imparare.

Su quali aspetti intendete soffermarvi e in quale maniera?

Si parte dal lavoro umano e poi questo materiale viene trasformato in materia scenica attraverso un processo di messa a punto. Il nostro lavoro si basa su un’idea di creatività sfaccettata: ascoltare un’intuizione che parte da qualcosa di personale e si sviluppa attraverso diversi esercizi, sia individuali che di gruppo. Alcuni partono dalla pratica dell’essere attore, altri dall’essere autore,  non solo dei testi, ma anche delle immagini, di come queste possano essere montate assieme. Tutto ciò serve per fare esprimere le persone a partire dal loro vissuto emozionale, che sia triste, comico o leggero, di gioia o di sofferenza, di paura o di sogno. Ognuno per quello che è, per ciò che ha voglia di dire, di indagare, di scavare, facendo uno sforzo perché questa cosa diventi universale, riconoscibile e raccontabile a tutti.

I talenti della scena sono differenti: chi è più bravo a recitare, chi a muoversi, a scrivere, a montare, c’è chi non sa fare tutto questo ma è in grado di tenere insieme il gruppo. Ci sono molti talenti e tante qualità di attenzioni, bisogna considerare anche quelli meno visibili. Attraverso una serie di esercizi noi portiamo i partecipanti a scavare dentro, a trovare un frammento autobiografico, che possa permettere loro di poter parlare perfettamente di sé e così di dare modo di raccontare una verità del mondo in cui viviamo, e creare una condizione di apertura col pubblico. Il raccontare o il parlare di sé è un processo che avviene in modo naturale, non in maniera forzata. I temi vengono scelti insieme perché bisogna seguire quello di cui ciascuno ha bisogno o desiderio di parlare. Si raccolgono tanti materiali ma poi è importante fare una selezione, capire cosa questi semi possano diventare; in questo aiuta moltissimo la restituzione finale, perché permette di individuare cosa realmente serva e cosa, anche se bellissimo, no. Bisogna lavorare per aggiunta e sottrazione. È come mantenere la rotta, la cosa più importante è sempre il percorso ma se non sai che devi arrivare da qualche parte rischi di perderti tra le onde.

La masterclass Mi sono scritto addosso… è dal 25 al 29 agosto, qui tutte le info.

Formare artisti sovversivi. Intervista a Roberto Castello

Qual è il valore che ha per te la trasmissione delle pratiche teatrali?

Quello che dico per la danza dovrebbe valere anche per il teatro. Ci sono due pratiche per insegnare la danza: uno è insegnare come si fa, e l’altro è mostrare quali sono i principi base della sintassi del linguaggio, ovvero mostrare quali sono gli strumenti e indicare come possano essere usati per ottenere quanto vogliamo ma senza imporre una visione, che credo sia per definizione contraria al fare artistico. Penso all’artista come qualcuno che per lavoro mette in discussione tutte le certezze. Formare gli artisti è incitare un atteggiamento troskianamente sovversivo, anche rispetto a chi insegna. Bisogna cercare di fare il possibile affinché ciascuno pensi veramente con la propria testa senza conformarsi alle aspettative o alle spinte che riceve dall’esterno, anche a partire da chi sta insegnando. Se qualcuno facesse le cose esattamente come le faccio io, credo che non starebbe facendo un grande lavoro.

Su quali aspetti intendi soffermarti e in quale maniera?

Bisogna diventare grandi osservatori. Io non sono insegnante di tecniche di danza, ma penso un buon autore è qualcuno che sappia guardare che cosa sta facendo. Il movimento così come la stasi tende a innescare delle risposte molto profonde nell’osservatore e sono queste che determinano il come quella cosa verrà ricordata. Io credo che un grande coreografo (ma in questo non si distingue affatto da un grande regista) sia colui che sviluppa la capacità di lavorare la materia ripulendola da tutte le scorie che impediscono l’accesso diretto all’idea che hai avuto. Per fare questo per forza devi sviluppare uno sguardo preciso e riuscire a percepire quel livello basilare prelogico e prelinguistico che è qualcosa di cui non ci sia accorge ma che è fondamentale. Poi dopo si imposta un discorso linguistico, di sintassi dell’organizzazione dell’opera, che è caratterizzata sia a livello culturale che individuale.

Non è che l’unica intelligenza stia nell’organizzazione linguistica delle cose. Si tende a semplificare credendo che la chiave che stiamo utilizzando sia necessariamente quell’unica giusta. Scopo dell’arte è evitare questo tipo di certezza quando si sta provando a creare davvero. Il teatro è la complessità del segno, spesso si tende a dare poca importanza al valore politico del gesto, dell’estetica del movimento degli attori sulla scena. Si tende ad utilizzare delle ricette già sperimentate, mentre bisogna inventare ogni volta un mondo da capo, anche sbagliando.

I peggiori laboratori sono quelli in cui avevo programmato tutto il lavoro, credo che l’improvvisazione sia il modo più onesto e più rischioso da cui partire. Io non credo che la questione sia insegnare ricette ma trasmettere delle esperienze, essere presenti mentre si insegna e far sì che il tragitto si strutturi nel suo corso, cogliendo le cose nella forma che stanno assumendo. Allora riesci davvero a parlare con le persone fuor dal manuale. Altrimenti mi sembra un modo per deresponsabilizzare.

La Masterclass Laboatorio avrà luogo dal 26 al 29 agosto, qui tutte le info.

Rifondare il teatro dalle sue convenzioni – Intervista a Fabrizio Arcuri

Qual è il valore che ha per te la trasmissione delle pratiche teatrali?

Più che la trasmissione, le cose che hanno più senso sono l’incontro  e la conoscenza in una dimensione orizzontale, all’interno della quale scambiare e condividere pratiche e un’idea di teatro. Ad esempio, la nostra compagnia, Accademia degli Artefatti, attraversa dei cicli ben definiti; una volta concluso un percorso bisogna capire se c’è una nuova necessità. Per circa dieci anni abbiamo scavato all’interno della drammaturgia contemporanea per capire che tipo di senso potesse avere fare teatro in questi anni. Ma a un certo punto abbiamo iniziato a produrre le stesse risposte e dunque abbiamo sentito la necessità di spostarci altrove.

Dopo un periodo di silenzio abbiamo ritrovato un senso al nostro lavoro presentando una sorta di indagine che riparte dalle origini: quale funzione storica, sociale, politica rimette in gioco il teatro attraverso quegli elementi che nel tempo l’avevano caratterizzata? Tutto questo chiaramente ha a che fare con la trasmissione, ma la rimodula costantemente.

Durante il laboratorio su quali aspetti intendi soffermarti e in quale maniera?

Vorrei partire dalle “posture e dalle semantiche delle relazioni”. Credo che il senso di questa espressione sia da intendersi quasi dal punto di vista letterale. Non è proprio una provocazione, ma un porre delle domande alla base: chi sei, come ti metti in scena, come ti posizioni rispetto a quello che stai dicendo, al linguaggio che stai usando e chi ti sta ascoltando? Ci troviamo davanti a delle platee divise, c’è che è interessato a capire quello che stai facendo, altri che hanno un’aspettativa chiara riguardo a un teatro che però appartiene al passato, altri non ne hanno alcuna conoscenza e preferiscono non occuparsi di quanto sta accadendo in scena.

Bisogna capire come patteggiare rispetto alle pretese di convenzioni che hanno coloro che ti stanno davanti senza dare nulla per scontato. Da qui l’idea di trovare, ripercorrendo i passaggi della storia del teatro, quale possa essere una convenzione adeguata al teatro oggi. C’è  sempre stata una triangolazione molto forte tra i contenuti da veicolare, e quindi il senso del teatro in un determinato periodo storico, la struttura in cui questo avveniva e il rapporto con la platea.  Nel Novecento il repertorio l’ha modificata e ha spostato tutto sul valore storico, concentrandosi poco sulla lettura del contemporaneo attraverso contenuti adeguati ad una forma all’interno di un luogo. Grazie a una serie di esperienze, soprattutto degli anni Novanta e degli anni Zero del Duemila, credo si sia rimesso al centro l’obiettivo.

Oggi possiamo tentare di capire se esiste e quale sia la strada per una nuova convenzione, per un nuovo modo di stare sulla scena, di abitarla e vivere il rapporto con lo spettatore e con i diversi contenuti, perché ogni contenuto ci impone di inventare una forma adeguata a esprimerlo. L’oggetto della questione è il pensiero che viene stimolato, l’emozione è solo una conseguenza delle cose, non è detto nemmeno che sia essenziale e non può essere un punto di partenza, perché sarebbe quasi pornografico come atteggiamento. È il processo che genera l’emozione, questa è l’unica strada che conosco e che mi interessa perpetrare, per cercare di capire dove sia ruolo sociale dell’attore, che va perdendosi fra le maglie della confusione.

Incontrando diverse persone dunque il confronto diventa interessante per capire cosa trasmettere. Questo è un aspetto di Storia del teatro in volumi, un progetto che poi anche formalmente diventerà un’istallazione, un dispositivo con una sua completezza.

La masterclass Dentro e fuori avrà luogo dal 29 agosto al 1 settembre, qui tutte le info.

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