A Padova è andato in scena lo Zio Vanja con l’adattamento e la regia di Àlex Rigola, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto.
Più di cinquanta repliche per un cast, instancabile, di quattro attori chiusi ogni giorno in una scatola di legno, che lascia solo il soffitto libero allo sguardo verso le vetrate e la luce cangiante nei cromatismi della prima sera. Il regista catalano Àlex Rigola torna a collaborare con il Teatro Stabile del Veneto, dopo l’esperienza del Giulio Cesare, riducendo ai minimi termini lo Zio Vanja di Anton Čechov e installando un parallelepipedo ligneo nel grande salone del Centro Culturale San Gaetano di Padova. Il colpo d’occhio è perturbante, lo spazio circostante abbraccia con la sua vastità il piccolo box direzionando la curiosità e lo sguardo dello spettatore, il quale viene accolto in questa piccola stanza che non è un teatro ma che in qualche modo rimodula la concezione teatrale della scena riducendola a quattro pareti di legno, una piccola gradinata e una striscia di spazio calpestabile. Gli attori sono letteralmente messi spalle al muro, non hanno scampo, sono costretti a guardare il pubblico negli occhi. L’adattamento e la regia di Rigola sono in questo senso di una coerenza evidente: il lavoro effettuato sul testo, per asciugarlo fino alla durata di un’ora e ricucirlo su quattro interpreti, va di pari passo con la ricerca sulla recitazione.
Due donne e due uomini, Antonietta Bello, Angelica Leo, Michele Maccagno, Ruben Rigillo, ci aspettano nella scatola, giocano con un palloncino verde, qualche post-it, alberi stilizzati sulle pareti (oltre che fuori dalla stanza, sul pavimento, a mo’ di orme da seguire), un bonsai e una sedia. Non c’è altro, ché per altro non ci sarebbe posto. Lo spazio rimanente è in effetti occupato dalle tensioni create da quattro artisti straordinari in grado di rispondere alla richiesta di sincerità posta loro dal regista. La relazione tra l’attore e il suo alter ego drammatico esplode sin da subito sotto gli occhi dello spettatore, quando Ruben Rigillo, voce bassa e ferma, pronuncia le prime parole: «Sapete quant’è che i nostri personaggi si conoscono?». Il lavoro ruota attorno all’identificazione attore-personaggio, i quattro si appellano l’un l’altro con i loro veri nomi e alternano dialoghi di coppia a conversazioni con il pubblico, delegando così allo spettatore la funzione di quinto attore.
Non c’è il professore, se non in una scritta apposta a mano sulla parete in cui si dice del suo stato di salute precario; sulla sinistra un disegno, una versione cartoon del vecchio docente; non ci sono neanche i personaggi secondari: Rigola diluisce il dramma attorno ad Astrov, Zio Vanja, Sonia ed Elena. Eppure non mancano i temi portanti, la noia, l’apatia, l’incapacità di questi esseri fragili di passare all’azione, incagliati in un passato troppo pesante e capaci solo di negarsi un futuro: gli amori non vengono dichiarati, se non per interposta persona, quando ormai è troppo tardi e tutto deve rimanere immobile a costo di prefigurare quell’esistenza asfittica e senza scampo fatta di lunghi anni che precederanno la morte. Rigola e il suo cast lavorano su una progressione lentissima delle emozioni, quasi inesistenti all’inizio se non plastificate su sorrisi che sembrano invincibili, fino ad arrivare a un’atmosfera emotiva di segno completamente opposto; scendono le tenebre e il cielo sopra la vetrata si fa scuro. Usciamo dalla scatola feriti di dolore e gioia, nelle orecchie un canto piccolissimo, due bocche quasi cucite che, vibrano Everybody Hurts dei R.E.M., quasi senza voce.
Andrea Pocosgnich
VANJA. SCENE DI VITA
libero adattamento e regia Álex Rigola
da Anton Čechov
traduzione dallo spagnolo Davide Carnevali
con Antonietta Bello, Angelica Leo, Michele Maccagno, Ruben Rigillo
scene di Max Glaenzel
assistente alla regia Lorenzo Maragoni
direttore di scena Enrico Berardi
realizzazione scene Props and Decors
durata 1h 10’ senza intervallo