IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il numero 93 È dedicato al grande maestro Anatolij Vasil’ev e al suo trattamento dei dialoghi platonici.
Siamo abituati a una tradizione esegetica che vuole che i testi di Platone siano trattati in forma dialogica. Secondo tale concezione, essi sarebbero testi da leggere in solitudine e che nascondono, dietro lo schermo letterario, tesi e argomentazioni ben definite sulla morale, sulla conoscenza o sul mondo fisico, che è compito dell’interprete prima individuare, poi esplicitare. Questo quadro viene complicato, tuttavia, dall’indagine storica, che mostra come, in realtà, Platone ebbe in mente di scrivere opere drammatiche da recitare di fronte a un pubblico.
Molti antichi notarono, infatti, che lo stesso genere del “dialogo socratico” è a metà strada tra poesia e prosa. I dialoghi in questione erano così definiti, seppure con qualche leggera variante, come discorsi fatti di domande e risposte tra più personaggi, caratterizzati in modo coerente e con l’uso di uno stile adeguato. La prospettiva era difesa sia da pensatori che furono ammiratori o discepoli di Platone, tra cui Aristotele, Diogene Laerzio, Albino e Temistio, sia da detrattori come Erodico di Babilonia (I secolo a.C.). Discepolo del grammatico Cratete, egli accusò il filosofo di contraddirsi, dal momento che criticava la poesia e il teatro usando appunto il dialogo, che è un mezzo espressivo di per sé poetico e teatrale. Sappiamo, inoltre, che i testi di Platone erano raggruppati da alcuni Platonici sul modello delle tetralogie drammatiche.
Sebbene questa divisione non fosse condivisa che da pochi esponenti del Platonismo, ossia Dercillide e Trasillo, essa è un altro segnale eloquente del fatto che alcuni gruppi di dialoghi potessero esser interpretati come opere teatrali, anzi opere che andavano studiate secondo un ordine preciso. Abbiamo infine notizia che Platone pubblicò i dialoghi con lo scopo di farli cantare in alcune festività religiose, che quindi li considerasse di carattere performativo. In seguito, la dimensione sacrale dei dialoghi platonici sarebbe andata in parte perduta, ma non così la pratica di rappresentarli davanti a un pubblico. Grazie a Plutarco ed Atene di Naucrati, possiamo apprendere che persino testi molto difficili quale il Timeo erano recitati in contesti informali, come le cene e i simposi tra amici.
Stando a questa prospettiva storica, sarebbe dunque promettente pensare ai dialoghi socratici di Platone come opere da studiare a teatro e in compagnia, più che da soli nel chiuso di una biblioteca. Invece di esprimere una tesi definita, forse Platone intendeva adottare una strategia comunicativa più complessa. Un dialogo platonico non contiene semplici argomentazioni che vanno isolate dal testo, bensì prospettive e visioni del mondo in conflitto incarnate da più personaggi, che non sempre esprimono le idee del loro autore. Come sarebbe semplicistico pensare che Shakespeare consegni a Shylock il significato de Il mercante di Venezia, così lo sarebbe altrettanto pensare che Socrate esprima completamente le idee di Platone su un dato tema. La mente di questo filosofo poteva forse essere ben più inquieta e presentare, attraverso le “ombre” dei suoi personaggi in dialogo, più ipotesi di analisi ed eventualmente di risoluzione di un dato argomento.
Tale via di ricerca sui dialoghi platonici è in parte percorsa da alcuni artisti che portano sulla scena spettacoli che si ispirano ad alcuni dialoghi platonici, o che li rappresentano integralmente: per fare solo tre nomi, si possono ricordare I Numeri dell’Anima de La Compagnia del Sole che attinge al Menone, T/Empio del duo Carullo-Minasi ispirato all’Eutifrone, o infine PlatonPlatina di Alicja Ziolko e Annikki Wahlöö che rappresenta l’Ippia minore. Ma la matrice comune è rappresentata dal maestro di tutti questi artisti, vale a dire dal pedagogo e regista Anatolij Vasil’ev. L’artista ritiene, infatti, almeno dal 1990 (o forse anche prima), che studiare Platone e rappresentare i suoi dialoghi significhi prepararsi o avviarsi al teatro. Ciò ha la conseguenza, da un lato, di confermare che le opere platoniche siano forse teatrali e, dall’altro, di far vedere come la recitazione possa essere una forma concreta di filosofia, che porta al pubblico questioni alte in modo leggero, senza per questo renderle dimesse.
Prima di passare al modo specifico in cui Vasil’ev interpreta Platone, occorre tuttavia sintetizzare il principio fondamentale della sua pedagogia e del suo teatro. L’artista distingue due vie recitative: la “psicologica” e la “ludica”. Entrambe condividono una struttura fondamentale, ossia il passaggio da un avvenimento di partenza, in cui un conflitto tra due personaggi non è ancora scoppiato o è latente, a un avvenimento principale, in cui questo stesso conflitto si risolve. L’evento principale può poi a propria volta costituire l’avvenimento di partenza di una nuova situazione di conflitto, che si risolverà con un altro avvenimento principale, e così via, fino a quando la vicenda non raggiunge il finale.
Ora, il sistema “psicologico” e quello “ludico” differiscono nel modo in cui questo moto è orientato. L’uno va dall’alto verso il basso. Gli attori individuano l’avvenimento di partenza e vedono come esso conduca all’avvenimento principale. La forza trainante è dunque nel passato, giacché l’avvenimento di partenza contiene i germi di quello principale. Ciò comporta una scissione dell’attore rispetto al personaggio, perché quegli si limita a eseguire le azioni già date nel testo che risolvono il conflitto, e un procedere di tipo lineare, realistico, automatico, che porta a una forma spettacolare ben definita o ripetibile sempre allo stesso modo.
Di contro, la struttura “ludica” ribalta i termini della questione e procede dal basso verso l’alto. Gli attori individuano l’avvenimento principale e si dirigono verso di esso, a partire da un dato avvenimento di partenza. Il motore è stavolta collocato nel futuro: nello scopo che bisogna raggiungere utilizzando la propria volontà e inventandosi a ogni nuova replica i passi che portano ad esso. Qui gli attori non sono allora più personaggi, bensì persone totalmente coinvolte nelle azioni che costruiscono sul momento con la pratica dell’etjud o della composizione estemporanea / improvvisata. E il conflitto si risolve nel gioco, non nella sfera della forma definibile o replicabile sempre allo stesso modo.
Ne nasce così una distanza critica o ironica dagli attori rispetto al proprio ruolo, che facilita sia il liberarsi della vitalità dell’artista che viene recepita dagli spettatori con piacere e partecipazione, sia il manifestarsi delle idee poetiche sul mondo che i personaggi rappresentano: in una parola, vengono sprigionate energia cosmica e un’apertura verso la conoscenza. Lungi dall’essere sinonimo di intrattenimento, il “gioco” del teatro ludico si presenta, in conclusione, come un tramite verso la vita libera e il puro pensiero, senza le zavorre della forma e dei tormenti tipici del teatro psicologico.
Vasil’ev ritiene che i dialoghi platonici siano strutturati sul sistema di tipo ludico. Un attore che rappresenta il Menone, l’Eutifrone, l’Ippia minore o altri testi di Platone apprende, dunque, le basi di questo tipo di teatro filosofico, o – che è lo stesso – di questa filosofia della recitazione. I dialoghi platonici presenterebbero strutture in cui agiscono non personaggi dotati di una psicologia, bensì personaggi-idee che l’attore può e deve manifestare con il suo vitale gioco scenico. Sorge però così un paradosso. Platone scrive drammi che manifestano l’astratto col concreto, in cui l’idea si fa corpo, dove lo spirito di per sé pesante si trasforma in materia duttile e leggera.
Possiamo descrivere in maniera sommaria il lavoro condotto da Vasil’ev su due dialoghi platonici: il Menone e lo Ione. Nel primo, Vasil’ev si focalizza sull’episodio in cui Socrate dialoga con lo schiavo del tutto ignorante di geometria, il cui avvenimento principale consiste nel portare il personaggio a calcolare la lunghezza del lato di un quadrato di otto piedi di superficie, ossia a scoprire un numero irrazionale. Tale scoperta ha un duplice risultato. Il dialogo dimostra che l’apprendimento è in realtà una reminiscenza di quel che già si sapeva (lo schiavo doveva già conoscere la geometria per arrivare a compiere un’operazione così complessa) e, al tempo stesso, porta ad apprendere/ricordare che l’anima è immortale. Infatti, pensando al lato di un quadrato di otto piedi, si pensa qualcosa di infinito, dunque per estensione di immortale. Ma dal momento che solo un immortale può cogliere qualcosa di immortale, ne discende l’immortalità dell’anima.
Il gioco creato dagli attori sulla scena dovrebbe condurre gli spettatori a questa esperienza spirituale. Con la leggerezza del teatro ludico, si dischiude qualcosa di immenso: l’esperienza dell’eterno.
Lo Ione è invece considerato da Vasil’ev un dialogo dove l’avvenimento principale è situato al di fuori del testo. Questo dialogo rappresenta un conflitto tra il rapsodo Ione, che presume di recitare Omero grazie a un’arte consapevole e di apprendere da tale poeta la tecnica strategica, poiché i poemi omerici descrivono spesso come bisogna guidare gli eserciti, e Socrate, che invece gli dimostra come egli reciti per ispirazione divina. L’avvenimento principale da raggiungere consisterebbe nel mostrare Ione che abbandona le sue presunzioni di sapere, guardando così con più ironia o leggerezza alla sua attività. Tale accadimento è tuttavia fuori dal testo, perché esso allude contemporaneamente a un’idea più alta e utopica. Se Ione – e l’attore che lo interpreta – prende consapevolezza di comporre per ispirazione, egli potrà d’ora in poi impegnarsi per coltivare l’arte, quindi per cercare di fondere il principio umano della tecnica con quello divino del talento. Il risultato sarà il genio, che solo pochi hanno raggiunto (Platone, Molière, Dostoevskij), ma a cui tutti debbono per quanto è possibile aspirare.
Il discorso qui condotto potrebbe essere approfondito ancora, e in due direzioni complementari. Si potrebbe rinforzare, da un lato, la prospettiva di Vasil’ev, sottolineando come la sua filosofia della recitazione si accorda bene con la concezione che Platone ha della scrittura, che nel Fedro viene a sua volta definita come un gioco. Dall’altro lato, si potrebbe usare il suo metodo per leggere anche gli altri dialoghi platonici, individuando gli avvenimenti principali del testo che un attore può e deve tentare di far attraversare agli spettatori. Nulla di tutto ciò può essere anche solo accennato in questa sede. Per il momento, conviene allora isolare una conclusione teorica e di metodo più generale, propedeutica a questi due percorsi più specifici.
L’abitudine a leggere i dialoghi di Platone come trattati in forma dialogica ci ha spinto a dare la priorità alla parola, ossia ha generato la propensione a cercare nello scritto una data tesi. Il tacito presupposto di questa concezione irriflessa è che il sapere passa solo attraverso il piano discorsivo. Il riconoscimento di una struttura ludica nei dialoghi di Platone mostra, invece, che in un testo dialogico è forse più importante il non-dicibile, o meglio quel qualcosa che si riesce a far emergere con le azioni degli attori che giocano attraverso i personaggi che interpretano.
Riprendendo il caso del Menone, l’idea dell’immortalità dell’anima non può essere dimostrata a parole, ma con il tramite di un’esperienza. È solo vedendo lo schiavo che calcola sulla scena un numero irrazionale che si arriva a cogliere qualcosa di immortale. O ancora, tornando allo Ione, quel che risulta davvero importante è aprire l’utopia della fusione di arte e talento nel genio, invitando ad abbandonare i desideri più meschini (= apprendere, attraverso la poesia, come guidare eserciti e ottenere il potere). Il linguaggio non può insomma dimostrare che l’anima sia immortale e che la genialità esista. Poiché queste idee passano attraverso esperienze di pensieri e utopie indicibili.
Nella famosa scena in cui Polonio chiede ad Amleto che cosa contenga il libro che il principe ha in mano, egli si sente rispondere: «Words, Words, Words». Se la biblioteca del re Claudio avesse avuto uno qualsiasi dei dialoghi di Platone, forse il principe di Danimarca avrebbe potuto sfogliarlo e dire: «Actions, Actions, Actions». Azioni, certo, a cui basta un niente per poter essere interrotte – poiché il gesto di un attore è più fragile delle parole che pesano come macigni. Ma il rischio è bello, dal momento che il suo premio è la leggerezza, il salto, il volo oltre la morte e la terra.
Enrico Piergiacomi
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A mio avviso e a pieno diritto, il vero inventore del dialogo è Platone, che per il magistero dello stile rivendica a sé il primato così della bellezza come dell’invenzione stessa. Il dialogo è un contesto di domande e risposte intorno ad una questione filosofica o politica, con una conveniente caratterizzazione dei personaggi in esso assunti e con una espressione stilistica accurata (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, § 48)
Ebbene, esso non è altro che un discorso composto di domanda e risposta qualche tema politico e filosofico, con un’idonea caratterizzazione dei personaggi coinvolti e con un tono stilistico adatto (Albino, Introduzione all’opera di Platone, cap. 1)
Dunque un dialogo è un discorso senza versi costituito da domanda e da risposta di personaggi eterogenei, con una caratterizzazione a essi conveniente. L’espressione “senza versi” è aggiunta perché la narrazione comica e la narrazione tragica sono in versi; in effetti anche essa è composta da domanda e risposta di personaggi eterogenei con una caratterizzazione conveniente (Anonimo, Prolegomeni alla filosofia di Platone, cap. 14)
Ma il nobile Platone (…) tesse l’elogio di Menone, lui che con le sue maldicenze ha fatto piazza pulita di tutti gli altri in un colpo solo, che nella Repubblica bandisce Omero e la poesia mimetica, dopo aver scritto lui stesso in modo imitativo i suoi dialoghi, dei quali peraltro non ha neanche inventato la forma (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XI, cap. 112 = Erodico di Babilonia, fr. 3 Düring)
Trasillo afferma che egli [Platone] pubblicò i suoi dialoghi secondo le tetralogie dei poeti tragici: i tragici partecipavano agli agoni delle feste Dionisie, Lenee, Panatenee e dei Chitri con quattro drammi di cui il quarto era dramma satiresco. I quattro drammi si chiamavano tetralogia . Lo stesso Trasillo dice che i suoi dialoghi genuini sono in tutto cinquantasei, con la Repubblica divisa in dieci libri (…) e le Leggi in dodici. Sono nove tetralogie, con la Repubblica e le Leggi computate ciascuna per una sola opera. La prima tetralogia svolge un argomento comune: vuole infatti mostrare quale debba essere la vita del filosofo. A ciascuna opera Trasillo dà due titoli: l’uno designa l’interlocutore, l’altro l’argomento (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, §§ 56-57 = Trasillo di Mende, T22 Tarrant)
Come decimo punto capitale ci sia quello di apprendere l’ordine dei dialoghi di Platone. Alcuni hanno detto che il loro ordine deve essere considerato a partire dal tempo e dalla tetralogia. (…) Secondo le tetralogie in tal modo: dicono che i dialoghi sono stati da lui stesso ‘pubblicati’ in tetralogie secondo il modello degli autori tragici e comici, i quali gareggiavano attraverso quattro drammi che avevano uno stesso scopo, e che pervenivano alla fine al piacere (…). Non condividiamo l’opinione di quelli che affermano che [Platone] prendendo a modello i tragici impiegò lo schema delle tetralogie; poiché egli criticandoli afferma che raffigurano apparenze di apparenze. È possibile dimostrare anche in un altro modo che non li prende a modello: quelli infatti alla fine pervengono al piacere, invece nel Fedone, che è l’ultimo della prima tetralogia, [Platone] non pervenne al piacere, ma alla morte di Socrate; dunque in maniera errata affermano che i suoi dialoghi sono stati ‘pubblicati’ in tetralogie (Anonimo, Prolegomeni alla filosofia di Platone, capp. 24-25)
Ci sono, poi, coloro che li [i dialoghi] dividono in tetralogie e che per prima pongono quella che comprende l’Eutifrone, l’Apologia, il Critone e il Fedone; l’Eutifrone perché in esso viene notificato a Socrate il processo; l’Apologia perché Socrate deve per forza difendersi; segue il Critone, per la discussione in carcere; quindi, il Fedone, perché in esso Socrate giunge al termine della propria vita. Di questa opinione sono Dercillide e Trasillo. Tuttavia, a me pare che abbiano voluto fissare un ordine in base ai personaggi e alle vicende delle loro vite; ciò è probabilmente utile per altri scopi, ma non per di ora. Noi vogliamo individuare il punto di inizio e la struttura dell’insegnamento secondo sapienza. Pertanto, affermiamo che non esiste un unico e determinato punto di inizio nella dottrina di Platone, la quale, infatti, è perfetta e assomiglia alla figura di un cerchio; come, dunque, nel cerchio non esiste un unico e determinato punto di inizio, così neanche nella dottrina di Platone (Albino, Introduzione all’opera di Platone, cap. 4 = Trasillo di Mende, T20 Tarrant)
Quanto al tempo, [Platone] ‘pubblicò’ i dialoghi non a caso, ma nel periodo in cui c’erano le feste e le solennità degli dèi, affinché allora i suoi scritti fossero cantati e declamati come inni, dal momento che nei giorni festivi siamo abituati a recitare inni. Per esempio, ‘pubblicò’ il Timeo alle Bendidie (che è una festa di Artemide al Pireo), il Parmenide nelle Panatenee, e altro in altra festa (Anonimo, Prolegomeni alla filosofia di Platone, cap. 16)
Quanto è più piacevole che i cuochi apprendano questo genere di cose, piuttosto di quelle che dovevano imparare nella casa di un nostro concittadino, che si era montato la testa per i soldi e il lusso, e costringeva i cuochi a imparare a memoria i dialoghi del meraviglioso Platone; così, mentre portavano i piatti in tavola, dovevano recitare: «Uno, due, tre: ma dov’è, caro Timeo, il quarto di quelli che ieri furono nostri ospiti, e oggi fanno gli onori di casa?». Allora un altro rispondeva: «Si è ammalato, Socrate». E andavano avanti in questo modo con quasi tutto il dialogo: gli invitati si infastidivano, di quel pedante si dicevano peste e corna tutti i giorni, e molte persone di buon gusto giuravano per tale motivo che mai sarebbero andate ai suoi pranzi (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro IX, cap. 28; le battute dei due servi corrispondono all’incipit del Timeo di Platone)
Nel 1990, forse due anni prima, ho cominciato a studiare il teatro come categoria astratta, a studiare l’azione sui trattati filosofici di Platone. Il risultato è che ho definitivamente separato il personaggio dalla persona, e con ciò ho suddiviso la natura del teatro in due tipologie. Era una cosa che sapevo anche prima; il teatro ha due strade, due strutture: una psicologica e l’altra ludica. Quando il personaggio è separato dall’uomo, è proprio l’uomo in quanto tale che finisce come per non esserci più, il mio “io” è come finisca per diventare servo del personaggio. Quanto più l’“io” è trasparente, tanto più è forte ciò che rappresento. Si verifica come un atto del pensiero, un processo determinato dalla volontà: il distanziamento del personaggio da se stessi. Ne risulta la trasformazione dell’idea non solo in un’immagine artistica dell’idea stessa, ma anche in un corpo. Quando ho cominciato a veder compiersi quest’operazione nei fatti, sulla scena, ho avuto la possibilità di comparare le due strade e decidere quale fosse migliore per me, e quello che ho notato è stato che stare a guardare lo sviluppo dei rapporti tra le persone cominciava ad annoiarmi. La ricerca su questi rapporti non dà alcuna prospettiva. Osservando i miei compagni di teatro, osservando il teatro, ho notato che coloro che si occupano di questi rapporti si trovano in crisi. La ricerca su simili rapporti ha già esaurito tutte le sue possibilità, nell’epoca culturale che ci ha preceduti. E, quindi, rispondo alla domanda. Un teatro che si rivolge all’astratto, nel quale agisce l’uomo concreto – che si sottomette allo spirito – e in cui l’anima è sottomessa allo spirito; questo è il teatro che può diventare speranza per gli uomini. E’ un compito che tocca al futuro. In ogni caso, questo è ciò che ci è stato lasciato in eredità (A. Vasil’ev, Lo schiavo di Menone, in A un unico lettore, pp. 387-388)
ANATOLIJ VASIL’EV Immaginiamo che l’avvenimento di partenza si trovi in alto e che l’avvenimento principale si trovi in basso: il conflitto inizia in alto (avvenimento do partenza) per poi svilupparsi come se scivolasse da una montagna, rotolando in basso fino all’avvenimento principale. Secondo questo schema, all’inizio delle pièce i personaggi si trovano in alto, mentre alla fine si ritrovano in basso. Ora proviamo a capovolgere lo schema: mettiamo in alto l’avvenimento principale e in basso l’avvenimento di partenza. Come faranno i personaggi, partendo dal basso ad arrivare in alto?
UN ALLIEVO Dovranno salire dei gradini
ANATOLlJ VASIL’EV Capite che cos’è la dinamica? Se l avvenimento di partenza è in alto e l’avvenimento principale è in basso, la dinamica si crea automaticamente; ma se l’avvenimento di partenza è in basso e l’avvenimento principale è in alto, come si fa a arrivare all’avvenimento principale?
UN ALLIEVO Ci sarà bisogno di una corda per arrampicarsi.
ANATOLIJ VASILEV Sono d’accordo.
UN ALLIEVO Bisogna sapere a che cosa corrisponde la cima. A
NATOLIJ VASILEV Anche questo è vero, bisogna sapere che cosa c’è sopra.
UN ALLIEVO L’inclinazione tra avvenimento di partenza e avvenimento principale è il conflitto?
ANATOLIJ VASIL’EV No, è la dinamica attraverso la quale viene espresso il conflitto.
UN ALLIEVO Al posto dello scivolamento ci deve essere un sollevamento, un’azione volontaria.
ANATOLIJ VASILEV Sì, è giusto: al posto di una caduta autonoma c’è un’azione volontaria.
UN ALLIEVO Quindi, nel primo caso la dinamica si sviluppa da sola, mentre nel secondo bisogna trovare l’azione.
ANATOLIJ VASILEV No, anche nel primo caso bisogna trovare l’azione per poi sviluppare la dinamica.
UN ALLIEVO Si può dire che quando si tratta di scendere il conflitto è naturale, mentre quando si tratta di salire il conflitto è strutturato?
ANATOLIJ VASIL’EV La questione è semplice: prima abbiamo individuato il modo di procedere secondo la tradizione, poi abbiamo invertito le posizioni. Ora, come si fa a salire?
UN ALLIEVO Con l’aiuto della volontà e fermandosi in determinati posti per riposarsi.
ANATOLIJ VASIL’EV Sì, anche questo è giusto.
UN ALTRO ALLIEVO Evitando il conflitto.
ANATOLIJ VASILEV Bisogna cambiare la natura del conflitto, perché se ci troviamo in conflitto rischiamo di cadere a metà strada. Dobbiamo attaccarci in alto e sollevarci, e per questo serve una corda. Inoltre, per sollevarci dobbiamo conoscere bene l’avvenimento principale. Quindi dovremo essere orientati verso l’avvenimento principale piuttosto che verso quello di partenza e dovremo utilizzare un metodo che, come una corda, ci permetta di sollevarci. Se si manifestasse un conflitto a metà strada, litigheremmo, cambieremmo la natura della pièce e così ci troveremmo di nuovo a scendere. Qualsiasi conflitto, tradizionalmente inteso in termini di contrapposizione tra persone, ci farebbe cadere, non ci permetterebbe di sollevarci (A. Vasil’ev, «Menone» e «Ione» di Platone, in L’Ecole des Maîtres. Volume 1, pp. 118-119)
ANATOLIJ VASIL’EV Il conflitto diventa gioco: le persone devono essere in accordo fra loro, altrimenti non riusciranno a sollevarsi, e devono avere un conflitto di tipo ludico. In questo caso c’è anche l’azione: siamo passati da una struttura psicologica a una struttura ludica.
UN ALLIEVO Questo significa che 1’attore può reinventarsi ogni volta lo spettacolo?
ANATOLIJ VASIL’EV Certo. Gli attori, attraverso l’improvvisazione, possono cambiare sia il percorso che i ruoli. L’avvenimento principale, ben analizzato, diventa una sorta di faro che proietta la sua luce verso l’avvenimento di partenza. La luce dell’avvenimento principale è la volontà, la corda di cui si parlava prima. D’ora in poi chiameremo l’avvenimento principale “scopo”: in quanto “persone”, vi mettete in relazione rispetto allo scopo, trovate un conflitto nel gioco e a questo punto potete agire.
UN ALLIEVO Ognuno può avere uno scopo diverso?
ANATOLIJ VASIL’EV No, lo scopo è dato dal testo ed è sempre lo stesso. Se in un sistema psicologico il conflitto nasce nell’avvenimento di partenza, in un sistema ludico, invece, il conflitto nasce nell’ avvenimento principale (ibidem, p. 121)
ANATOLIJ VASIL’EV Il personaggio di Ione lasciatelo in pace, che viva senza di voi, non preoccupatevi di lui.
UN ALLIEVO Non è importante rispetto all’avvenimento principale?
ANATOLIJ VASIL’EV In questo testo non esistono personaggi, ci sembra che loro vivano, ma non è così, qui vivono le idee. Le idee hanno dei nomi – si chiamano Socrate, Ione, Eutifrone, Menane -, hanno dei vestiti, dei caratteri… ma sono idee.
UN ALLIEVO A quale idea corrisponde Ione?
ANATOLIJ VASIL’EV All’arte.
UN ALLIEVO Lo spettatore deve vedere le idee o i personaggi?
ANATOLIJ VASIL’EV A questa domanda non rispondo neanche. In un artista perfetto troverete una composizione di divino e di conoscenza, di legge e ispirazione. Artisti del genere, come Molière o Dostoevskij, sembra che agiscano solo in forza del talento, ma non è così, sono degli specialisti, ideali irraggiungibili a cui aspirare nel corso della nostra vita artistica: questo è l’avvenimento principale collocato aldifuori del testo (ibidem, p. 168)
ANATOLIJ VASIL’EV La dinamica si interrompe non appena il ruolo comincia a posseder l’attore. L’aspetto complesso di questo tipo di educazione teatrale è la cognizione pratica del centro dei gioco. Nei sistemi basati sul realismo psicologico, il centro della recitazione si trova all’interno dell’uomo – e l’attore ha il compito di svilupparlo. Nei sistemi ludici, il centro è spostato fuori dall’attore determinando un’altra filosofia della recitazione. Dopo aver messo in scena Cerceau di Slavkin ho capito che non avevo altro da dire sulla mia generazione – eh non m’ interessava più parlar dei tormenti interiori dell’uomo. Il problema è che le sofferenze dell’uomo sono talmente tante che si finisce per non trovare nessuna via d’uscita da questo dolore. Ho sempre pensato che uno dei compiti dell’arte sia quello di indicare una possibilità di salvezza per l’uomo, per questo ho fatto in modo che l’attore smettesse di raccontare se stesso per provare a raccontare avvenimenti che accadono fuori di lui. In fondo siamo solo una parte di qualcosa di più grande (ibidem, p. 210)