Una riflessione scaturita in seguito all’evento italiano dell’American Playwrights Project, organizzato al Teatro Valle di Roma, sulla figura del drammaturgo americano Will Eno
«Se l’umano non si definisce più in termini di libertà ma in termini di geni, svanisce la definizione dell’uomo e anche dell’umanesimo».
J. Baudrillard
Crasi tra la parola italiana “Umanesimo” e l’inglese “humanism”, Umanism è un progetto ad ampio raggio fondato a New York da Valeria Orani nel 2015 con lo scopo di aiutare e promuovere cultura e arti tra Europa, in special modo l’Italia, e America. Parte e cuore di questa piattaforma aperta a sviluppare strategie dalla pianificazione alla presentazione di eventi culturali è l’Italian and American Playwrights Project, curato da Orani e da Frank Hentschker (direttore del Martin E. Segal Theatre Center di New York), centrato sullo scambio e la diffusione mutuale di opere teatrali americane e italiane, supportato dal centro di diffusione e promozione teatrale 369gradi (da lei fondato nel 2003), Italian Cultural Institute NY e l’American University of Rome. Tra le drammaturgie italiane che per prime hanno trovato posto nelle edizioni del progetto rientrano quelle di nomi quali Stefano Massini, Lucia Calamaro, Deflorian/Tagliarini, Fausto Paravidino, poi anche Giuliana Musso,Teatro delle Albe, Michele Santeramo, Fabrizio Sinisi e Elisa Casseri e Armando Pirozzi (che proprio il 14 maggio saranno presenti con L’orizzonte degli eventi e Un quaderno per l’inverno all’Istituto Cervantes di Chicago).
In un momento storico di chiusura quale quello attuale i promotori sostengono quanto siano importanti al contrario le nozioni di «passaggio, di ibridazione, di apertura e meticciato». Li avevamo incontrati qualche tempo fa all’interno del Foyer del Teatro Valle durante il più recente evento italiano dell’American Playwrights Project sulla figura del drammaturgo americano Will Eno che in Italia ha trovato sponda produttiva grazie all’impegno di BAM teatro (alla presenza dell’autore, anche gli attori Francesco Mandelli, Emanuela Ponzano, Stefano Patti, coordinati da Graziano Graziani alla moderazione e da Marco Quaglia alla traduzione).
A partire da questo incontro-reading sono emerse interessanti riflessioni sul concetto di casa e di identità. È proprio Will Eno a evidenziare come «per gran parte della mia vita non mi sia mai sentito “a casa”, né nel mio corpo, né sulla terra. Credo che più che un posto geografico, “casa” sia una sensazione che ricerchiamo, nella quale proviamo a tornare». Il concetto di identità pone personaggi e interpreti sempre «sul ciglio di perdersi e ritrovarsi continuamente», continua, evidenziando come questo termine all’interno del suo teatro non sia da considerarsi soltanto tematicamente ma anche nella sua dimensione scenica, sempre tesa tra memoria e condivisione di un racconto che viene spesso interrotto per tirare in causa direttamente il pubblico. Il suo è un teatro del pensiero continuamente mediato dalle interferenze del reale e però aggrappato al presente. Le figure che lo abitano smettono di essere personaggi riconoscibili (spesso senza nome, senza una storia forte o provocatoriamente “basati sul niente” come sottotitola il suo Thom Pain, qui in Italia interpretato quasi dieci anni fa da Elio Germano) per condividere invece un atto di presenza e condivisione con gli spettatori, spesso direttamente chiamati in causa, come era accaduto durante la recente messinscena di Title and Deed, con un inedito Francesco Mandelli in grado di instaurare una genuina relazione con il suo uditorio.
Will Eno è un “sopravvissuto” che riesce a fare su larga scala quello che di solito si vede nei teatri più piccoli; il suo è «un atto di resistenza contro quella scrittura psicologica che spesso impernia molti dei lavori off», sostiene Frank Hentschker, eppure non è estraneo alle collaborazioni con le grandi realtà, come conferma la preparazione di una miniserie televisiva con un attore del calibro di John Turturro per un progetto dal titolo – e ritorna come costante il senso di estraneità di cui aveva parlato a inizio incontro – Is there no place on earth for me? (Non c’è nessun posto sulla terra per me?, ndr), in cui Turturro interpreta il fratello di uno schizofrenico.
Sogno e incubo degli artisti è la Broadway piena di luci e sfarzo, del regno dei musical di successo e delle parabole finite male, dell’OFF diventato istituzionale tanto da rendere necessario doppiarne l’aggettivo, designando un OFF-OFF che probabilmente nemmeno basta a descrivere il panorama sfaccettato: questo immaginario collettivo rende bene le complessità sistemiche di una realtà quale quella newyorkese, all’interno della quale è sicuramente difficile creare un teatro che non sia commerciale (per quanto esistano delle interessanti eccezioni, come racconta Will Eno). Anche da un punto di vista più generale, Hentschker definisce la Grande Mela come un «melting pot which hasn’t never been melted», un agglomerato che non si è mai veramente legato. Del resto, delle oltre 150 lingue che attraversano la città, difficilmente si riesce a dare voce a questa potenziale ricchezza. Allora diventa fondamentale il lavoro fatto al Martin Segal, che dà spazio e dimora a scrittori da tutto il mondo, e quello di realtà quali Umanism, in grado di costruire luoghi di plurima libertà rievocando quella rivoluzione culturale quale è stata l’Umanesimo, in grado di guardare alle arti (anche quelle del passato) come bacino di arricchimento per l’uomo.
Viviana Raciti