In scena fino al 1° giugno al Costanzi il nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma de L’angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev. Direttore Alejo Pérez, regia Emma Dante. Recensione.
Entrando nella chiesa di Santa Maria della Pace a Palermo e scendendo le ripide scale dietro all’altare, si accede ad un luogo incredibile, unico al mondo, dove si ha l’impressione che tutto si sia fermato, dove ci si illude che la morte abbia vinto sul tempo. Nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo giacciono quasi 8000 salme imbalsamate, vere e proprie mummie di frati Cappuccini e nobili siciliani: centinaia di uomini, donne e bambini sepolte nel corso di tre secoli. Tra queste, la più impressionante di tutte, l’ultimo corpo deposto nel 1920: la salma di Rosalia Lombardi, una bambina di due anni, ancora perfettamente conservata, col suo fiocco rosa in testa, chiamata per questo “La bella addormentata”. Ed è con questa immagine negli occhi, l’immagine di morte viva della bambina delle catacombe di Palermo, che Emma Dante si approccia alla regia dell’Angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev, in scena al Teatro Costanzi di Roma fino al 1° giugno.
La scena si apre su quella che dovrebbe essere una mansarda, diventata un’oscura catacomba, nella quale riposano uomini e donne dei secoli passati. La locandiera che accoglie il cavaliere Ruprecht (Leigh Melrose), qui raffigurato come un soldato ottocentesco, non gli propone un letto, ma uno dei loculi dell’imponente parete sepolcrale, per questo allestimento progettata da Carmine Maringola. Qui Ruprecht incontra Renata (Ewa Vesin), anche lei caratterizzata come una donna di fine Ottocento, nel suo vestito rosa a balze, con tanto di cuffia abbinata. La trova nel pieno di una delle sue visioni demoniache: davanti a lei, una figura danzante vestita di bianco, un ballerino di breakdance, si libra in volo con salti e acrobazie. È una danza disturbante, scomposta. Solo noi e lei possiamo vederlo. Si tratta di Madiel’, l’angelo di fuoco, lo spirito che Renata ha rincorso per tutta la vita, incarnato poi nel corpo del conte Heinrich. Ruprecht rimarrà talmente incantato da Renata che deciderà di aiutarla nell’impresa di ritrovare l’amato di lei, nel disperato tentativo di sedurla.
L’angelo di fuoco è il diavolo? È la prima domanda che ci poniamo a pochi minuti dall’inizio dell’opera e che continueremo a porci fino alla fine. E se il ballerino, come pure gli attori inseriti sul palco da Emma Dante, sono un libero intervento della regista, il concetto dell’ambiguità è invece insito nella partitura di Prokof’ev. Basata sul romanzo omonimo di Valery Bryusov, l’opera del compositore russo indaga i temi della follia, dell’elemento demoniaco e del desiderio sessuale, riuniti nella figura di Renata, la donna ottocentesca affetta da isteria. Si tratta di un lavoro complesso, un’opera unica, dalla genesi travagliata. Quando dopo sette anni di lavoro, nel 1927, Prokof’ev tenterà di farla mettere in scena, si imbatterà in una serie di rifiuti. Troppo ostica sia per il mercato americano (paese in cui viveva all’epoca Prokof’ev) sia per quello russo: uno spartito troppo ardito, troppo moderno, difficile a vendersi, abbinato a una storia altrettanto ardita e frammentata, divisa in cinque atti e sette quadri, senza un vero e proprio sviluppo drammatico coeso. Tristemente il compositore russo non vedrà mai la sua opera messa in scena. Essa vedrà la luce solo due anni dopo la sua morte, nel 1955 a Venezia con la regia di Giorgio Strehler.
La regia coglie questa frammentazione e ne inquadra i dualismi. Bene e male, reale e sovrannaturale si scontrano continuamente. Due sono i demoni che vede Renata, uno bianco e uno nero, doppia è la percezione che abbiamo noi spettatori dei fenomeni che avvengono sul palco: gli spiriti sono visibili anche gli altri personaggi? La magia, il tavolo che si solleva, i colpi battuti dallo spirito, esistono davvero o sono solo nella testa della protagonista? E tutto quello che ella vede è bene o è male? Renata (chiamata così come l’ultima strega morta sul rogo) non sembra capirlo: per lei Madiel’ è solo uno spirito buono, uno spirito d’amore, pur trattandosi di un amore carnale. Tutto il tempo però la protagonista è circondata dalla morte, un vero e proprio personaggio sempre presente in scena: l’indovina che compare nel secondo quadro porta con sé un sacco pieno di ossa e teschi e le predice che morirà di morte violenta. In un momento di disperazione, poi, la stessa Renata diviene artefice di morte: convinta che l’unico modo per liberarsi dall’ossessione dell’amore per il conte sia quello di ucciderlo, costringerà Ruprecht a sfidarlo a duello, causando il ferimento del cavaliere.
Renata è una donna rotta, torturata da un mondo maschilista che non le permette di esprimersi e che la relega allo status di corpo-oggetto, esistente solo grazie allo sguardo sessualizzante di Ruprecht, per tutta l’opera spinto solo dal desiderio di possederla. E così, distrutta dal dolore del suo desiderio sessuale impuro, sbagliato, Renata diventa una novella Giovanna d’Arco, punita per le proprie visioni, tanto sante quanto demoniache. Quando sul finale si ritirerà in convento, alla ricerca di pace, troverà invece ancora dolore e sofferenza. Non essendo in grado di dissolvere le sue visioni, l’inquisitore la esorcizzerà, tentando di estirpare il male che c’è in lei e che sta contagiando tutto il convento. Le suore intorno a lei, però, si pongono in sua difesa, lasciandoci ancora una volta con il dubbio: è il demonio a guidarle o la santità di Renata? Le due ipotesi finiscono per mescolarsi e confondersi, trasformando la morte della protagonista in quella di una martire. Il buio cala su di lei mentre viene trasformata in una Madonna, con in testa un velo nero, lungo fino ai piedi e sul petto un gigantesco Sacro Cuore di Maria d’oro, perforato da pugnali.
Emma Dante compie un’operazione che ha del portentoso, per non dire, in accordo con l’opera, del soprannaturale. La regista palermitana mette a punto, in maniera sorprendentemente riuscita, un esperimento alchemico che si dimostra in grado di sovrapporre il suo immaginario personale, fatto di sud Italia, di cattolicesimo, di superstizione ma soprattutto di morte – una morte tutta carnale, visibile, di teschi e catacombe – all’immaginario grottesco, esoterico e simbolista del Prokof’ev di inizio Novecento. Un incantesimo magico sembra azzerare la distanza siderale tra Russia e Sicilia, trasformando i luoghi medioevali favolistici dell’Angelo di fuoco, in quelli simbolici delle catacombe palermitane. Una regia imponente, caratterizzata da immagini forti, altamente evocative, e una grande professionalità nella realizzazione fattuale dello spettacolo, in particolare nella gestione delle masse: quasi ottanta gli elementi sul palco, tra coro, cantanti e attori della compagnia di Emma Dante. Questi ultimi rappresentano la più vistosa differenza dall’opera originale, la vera e propria firma di regia: a loro vengono affidati dei piccoli intermezzi recitati, per favorire lo smontaggio nei cambi scena, realizzando quella che forse è l’operazione più discussa di questa regia.
Discussioni a parte, però, questo Angelo di fuoco è uno spettacolo vincente, a giudicare dagli applausi che accolgono prima i cantanti, poi il direttore Alejo Pérez. Non è scontato che un’opera così ardua e di difficile esecuzione venga affrontata con tanta maestria sia dal direttore che dall’orchestra dell’Opera di Roma. Una direzione musicale estrema, esagerata, con dei fortissimo tanto forti da sovrastare quasi i cantanti, che bene ha reso le atmosfere demoniache dell’opera. Si tratta dunque dell’ennesimo grande risultato dell’ente lirico romano che, grazie anche alle felici scelte della direzione artistica di Alessio Vlad e del sovrintendente Carlo Fuortes, ci sta regalando quest’anno una stagione di altissimo livello.
Flavia Forestieri
Teatro dell’Opera – Teatro Costanzi, Roma – maggio 2019
L’ANGELO DI FUOCO
musiche Sergej Prokof’ev
libretto del compositore da un romanzo di Valerij Brjusov
direttore Alejo Pérez
regia Emma Dante
maestro del coro Roberto Gabbiani
scene Carmine Maringola
costumi Vanessa Sannino
movimenti coreografici Manuela Lo Sicco
luci Cristian Zucaro
maestro d’armi Sandro Maria Campagna
PRINCIPALI INTERPRETI
RUPRECHT Leigh Melrose
RENATA Ewa Vesin / Elena Popovskaya 1 giugno
PADRONA DELLA LOCANDA Anna Victorova
INDOVINA Mairam Sokolova
AGRIPPA DI NETTESHEIM Sergey Radchenko
JOHANN FAUST Andrii Ganchuk *
MEFISTOFELE Maxim Paster
MADRE SUPERIORA Mairam Sokolova
INQUISITORE Goran Jurić
JAKOB GLOCK Domingo Pellicola *
MATHIAS WISSMAN Petr Sokolov
MEDICO Murat Can Guvem *
SERVO Andrii Ganchuk*
PADRONE DELLA TAVERNA Timofei Baranov *
I GIOVANE MONACA Arianna Morelli / Carolina Varela 30 maggio, 1 giugno
II GIOVANE MONACA Emanuela Luchetti / Silvia Pasini 30 maggio, 1 giugno
* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento