Alle Fonderie Limone di Moncalieri il Teatro Stabile di Torino produce Amleto diretto da Valerio Binasco con gli attori del neonato Lemon Ensemble. Recensione.
Di nuovo Amleto? Sì, di nuovo Amleto. Amleto è come un gorgo che risucchia l’attenzione di artisti e spettatori per trascinarla giù verso l’essenza stessa del teatro. Perché uno dei più vividi segni lasciati da questa immortale tragedia shakespeariana è forse la frustrazione: in un complicato gioco di scatole cinesi, tutti i personaggi sembrano intestardirsi a piantare semi di domande che non riescono mai davvero a generare una risposta.
Nel 1999 Valerio Binasco riceveva uno dei suoi cinque Premi Ubu per l’interpretazione del Principe di Danimarca nell’allestimento di Carlo Cecchi. Oggi ritorna, da direttore di quello stesso Stabile di Torino che lo aveva prodotto, a dirigere un gruppo di attori che da questa stagione avvia il progetto di una compagnia stabile, il Lemon Ensemble.
Il grande spazio delle Fonderie Limone di Moncalieri resta per lo più sgombro di scenografie, accoglie il pubblico e gli attori offrendo un’opprimente visione del vuoto, una buia radura dove le luci, cadendo sul linoleum nero, sembrano non avere mai la forza di costruire un chiarore. Così il drappo bianco, che dalla quinta di sinistra invade il palco nella scena del banchetto di nozze, ferisce quasi gli occhi; ma anche tavoli e pedane di legno, quasi mangiati nei contorni da un’oscurità imperante, sembrano tentare invano di esprimere una qualche potenza spaziale. Il “carro di Tespi” degli attori, per tramite dei quali Amleto predisporrà la «trappola per topi» atta a smascherare lo zio fratricida e usurpatore del trono, non ha bisogno di ammennicoli e drappi vistosi: è il suo giungere in scena a rappresentarne il valore di cesura drammaturgica. E ancora, il siparietto di apertura del quinto atto, in cui i becchini seppelliscono Ofelia – come di consueto giocato su dialetti e ritmi da sonnolenta slapstick comedy – è immerso in un cumulo di terra sudicia: neppure qui sembra arrivare salvezza a un inferno in cui si scende fin da subito.
Questa elegante e curata versione di Binasco, mostrando forse un tributo alle messinscene di un gigante come Nekrosius, insiste sull’essenzialità visiva per riportare la traduzione impeccabile di Cesare Garboli ad animare personaggi tridimensionali, sofferenti, smarriti, profondamente umani. In tre ore e trenta di versione praticamente integrale, c’è spazio per ogni gradiente della recitazione, dalla furia del Laerte di Fausto Cabra all’inquietante e bambinesca follia cantata dall’Ofelia di Giulia Mazzarino, fino alla tagliente e credibile ironia di Nicola Pannelli, che incarna alla perfezione il Polonio “topo” servizievole del potere, o alla coppia reale (Mariangela Granelli e Michele Di Mauro), accordata sui registri di una macchia tragica insanabile. Generoso e intenso, Gabriele Portoghese conferisce ad Amleto un affanno costante; sudore e febbre gli fanno luccicare gli occhi e lo vediamo da vicino quando, seguito da Rosencrantz e Guildenstern (ben colorati Michele Schiano Di Cola e Vittorio Cammarota), si getta tra le file della platea.
Nella regia di Binasco si esprime un profondo amore per l’enigma che il teatro rappresenta. «Something is rotten in the state of Denmark», ma non solo lì: la perversione del potere avvelena i princìpi fondanti dell’amore famigliare e sentimentale, il nòmos divora il ghènos dichiarando fin da subito il fallimento di ogni possibile riscatto. Quel dubbio che ha reso tristemente celebre Amleto, ergendolo a paradigma delle aporie moderniste, qui si sparge in ogni battuta, come fanno il fumo e i suoni sinistri che annunciano lo Spettro, al punto da rendere di troppo le musiche d’accompagnamento a certe scene madri.
Come sempre quando si scende a capofitto in questo testo vertiginoso, la chiave appare essere la possibilità di restituire in maniera efficace un racconto di eventi così terribili e, insieme, così inevitabili. Il fool che sempre offre al padrone la prospettiva inversa, in grado di ricalibrare il ragionamento, qui è morto prima che si levi il sipario; e stavolta di Yorick non resta neppure il teschio. Il dolore del Principe affonda lo sguardo in orbite vuote e non trova mai pace in una condivisione, perché – e in questo Binasco riesce bene – la perdita del senno (di Amleto come di Ofelia), così come il gioco del teatro, non riescono a produrre un linguaggio comprensibile e anzi – nel paradosso della rappresentazione – spezzano ogni reale comunicazione col mondo.
Amleto non vedrà mai l’arrivo di Fortebraccio e, se è vero che in questa tragedia l’intera parabola narrativa passa attraverso gli occhi del protagonista, la morte di quest’ultimo non permette di comprendere se l’avvicendarsi del re di Norvegia sul trono di Danimarca riuscirà o meno a sanare il «marcio». Orazio può limitarsi a riportare al nuovo sovrano il più dettagliato dei racconti, ma «il resto è silenzio».
Sergio Lo Gatto
Fonderie Limone di Moncalieri (TO) – maggio 2019
AMLETO
di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
consulenza drammaturgica Fausto Paravidino
con (in ordine alfabetico) Fausto Cabra, Vittorio Camarota, Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Christian di Filippo, Mariangela Granelli, Giulia Mazzarino, Nicola Pannelli, Mario Pirrello, Gabriele Portoghese, Franco Ravera, Michele Schiano Di Cola
e con gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Torino Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Cristina Parku, Davide Pascarella
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Michela Pagano
suono Claudio Tortorici
assistente alla regia Simone Luglio
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale