La settima edizione di Trasparenze Festival, dal titolo “Muovere Utopie” ha avuto come centro il Moby Dick del Teatro dei Venti. Tra spettacolo e documentario, qui un racconto sulla potenza del teatro.
2015. Un’idea come un chiodo fisso (la cattura della balena bianca per il capitano Achab, per il regista Stefano Tè la produzione di una versione da piazza di Moby Dick di Herman Melville); l’incontro provvidenziale con uno scenografo; splendidi bozzetti che chiederebbero oltre 300mila euro per essere realizzati; la ricerca paziente e snervante del denaro, delle alleanze al di là del sostegno dei grandi Stabili; la creazione di un equipaggio; la lotta per conquistare la vetta della giusta fattibilità. Senza voler né poter rinunciare a niente. L’utopia, ecco. Nel documentario Moby Dick o Il Teatro dei Venti (proiettato in forma privata per la stampa alla Sala Truffaut di Modena dentro Trasparenze 7) il filmmaker napoletano Raffaele Manco ci svela perché il Moby Dick del Teatro dei Venti sia un punto cardine e forse una metafora del teatro italiano di questi anni. Seduti nel piazzale dello Spazio EstatOFF per vedere la seconda replica italiana dello spettacolo (di cui avevamo già parlato qui) a creare emozione è la semplice constatazione di essere lì, di trovarsi davvero di fronte a un sogno che, dopo tre anni, è riuscito a realizzarsi.
Avremmo potuto affidare l’abbrivio di questo articolo a una qualsiasi citazione del romanzo, ché quasi ogni brano si presta a consegnarne il senso. Forse è vero che diventano “un classico” quelle opere che sanno parlare al tempo presente al di là di ogni geografia, al di là del conto degli anni, al di là delle intemperie socioculturali. Soprattutto la loro forza sta nel prendersi cura di una missione che è quella dell’arte: raccontare l’umano. E di fronte alla sua realizzazione sembra che, come in un naufragio della percezione, nessun fruitore riesca a salvarsi da una sorta di richiamo, in cui ciascun particolare finisce per evocare rimandi e consonanze.
La compagnia modenese ha attraversato un processo creativo e produttivo mastodontico in totale indipendenza, senza legarsi a coproduttori stabili italiani, dando priorità alla circuitazione estera e raggranellando le economie dalla Regione Emilia-Romagna, Comune di Modena (in cambio di un lavoro sul territorio approfondito e quotidiano), Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, i partner lituani (Festival Juros Svente 2018 di Klaipeda), il Comune di Dolo e l’Associazione Echidna.
In questa prima replica in notturna di Moby Dick, un’intera comunità di spettatori – almeno coloro che hanno avuto modo di condividere le ore successive – ha portato con sé, come un arpione piantato nella schiena, la sensazione che un’opera letteraria e la sua estensione spettacolare siano in grado di ridimensionare con luminosa prepotenza il ragionamento sul tempo presente. Andando incontro a una tempesta produttiva senza mai demordere.
Quando ancora qualche goccia di pioggia bagnava il cortile, l’incontro pre-spettacolo tenuto da Giulio Sonno (autore della drammaturgia e consulente artistico del festival) aveva messo in chiaro i passaggi interpretativi (da Melville a Emerson, Whitman e Thoreau, fino al Leviatano di Hobbes), disegnando una costellazione di filosofia politica fatta di precisi appuntamenti e snodi, consegnando agli astanti una bibliografia mentale per leggere a fondo il lavoro. Preso posto tra le oltre settecento sedute occupate da modenesi in ardenza, sotto a un tramonto miracolosamente sgombro di nubi, il grandeur dell’atto performativo ha in parte inabissato la dimensione intellettuale dell’operazione, riconciliando lo spettatore con il manifesto di un teatro totale, architettato come un progetto di rianimazione della meraviglia. D’altronde, va detto, anche drammaturgia e regia sembrano voler svuotare progressivamente l’esecuzione di ogni ammiccamento circense, a favore di un affiorare della solitudine umana di fronte alla tempesta degli eventi.
A fine giornata, più di uno notava come ogni timbro troppo cerebrale perdesse nitidezza di fronte all’evidenza comunicativa del teatro. Ma la caccia al senso di questa operazione non è terminata sabato 4 maggio. Il giorno dopo, sotto una pioggia battente, ci si è ritrovati spettatori di un passaggio fondamentale: la proiezione del documentario (qui il trailer) di Raffaele Manco. Attraverso interviste ai protagonisti, un approfondimento sul laboratorio scenografico (pensato da Dino Serra e realizzato insieme a Massimo Zanelli), inserti più poetici che inchiodano in primo piano gli interpreti sudati e col fiatone sotto una luce basculante mentre consegnano (in voce off) brani di testo, Manco ha spezzato in capitoli ispirati alla scansione del romanzo un racconto partecipato e vivo, una dedica appassionata all’utopia.
Gerardo Guccini, invitato a commentare il tutto, parlava della rinascita di quel “teatro dei gruppi” nato tra gli anni Sessanta e Settanta e qui ricomposto in forma di macchina identitaria, uno strumento di mappatura attraverso cui l’attore riconosce se stesso in un organismo collettivo. «Il teatro di gruppo svolge una forma di posizionamento dell’individuo all’interno di coordinate ben più vaste del teatro stesso, coordinate dove ci si misura con la propria possibilità di essere». Dalla traccia filosofico-politica si approda così a quella umana, amplificata da una caparbia soluzione scenica, ma ancor di più dal processo di lavoro. Guccini sostiene che «nella narrazione delle coordinate di esistenza proposta dal teatro è possibile realizzare l’impossibile», perché il teatro stesso è un «programma identitario» che trova nel «processo di costruzione» l’ingranaggio fondamentale.
Lo spettacolo come il documentario, allora, sembrano far emergere non tanto il realizzarsi di un’utopia, quanto il suo presentarsi in forma di enigma irrisolvibile, che pare accadere come un colpo di coda del fato e che al contempo ritrova una motivazione nel più materiale degli sforzi, testimoniato anche dalla costruzione in tempo reale della macchina scenica.
Chiuso l’incontro, il festival avrebbe previsto un programma finale ambientato nel vicino comune di Gombola, tra passeggiate poetiche ed eventi performativi incastonati nella natura. E invece no. La stessa Natura che la sera prima aveva salvato la nave dalla tempesta ha lasciato scendere la neve a maggio, bloccando salita e discesa verso il paese, lasciando gli spettatori in una Modena inondata di pioggia e costringendo alcuni artisti a trascorrere la notte nel piccolo paese, a filmare sui propri smarphone i colli ammantati, come un banco di balene bianche.
Come se davvero il Leviatano, provocato dalla protervia e dall’arroganza dell’uomo Achab, avesse prima accolto un arpione e poi trascinato la nave di questo evento teatrale, sempre brillante per la sua ricerca di comunità, in quell’oceano minaccioso che è il suo regno, senza possibilità di appello.
Come accaduto a Raffaele Manco nella narrazione del proprio documento, tra il serio e il faceto, non abbiamo potuto noi spettatori sottrarci al nominare sventure e piccole vittorie con le locuzioni di Melville, tra «tuoni e fulmini», «laggiù, soffia!», «alla caccia», «epilogo». Se ci si ritrova a vedere in ogni accadimento un segno dell’esperienza di fruizione appena attraversata occorre spingersi oltre la relazione di una somma di coincidenze, forse addirittura oltre la considerazione delle difficoltà produttive, per riconoscere all’evento teatrale la propria potenza di monstrum.
«In questo possibile avverato – osservava ancora Guccini – l’uomo non può chiamarsi artefice esplicito, ci vuole un’umanità diversa; ci vuole l’uomo messo accanto al Leviatano. Ci dimostra che bisogna mettersi a disposizione del concretamento dell’impossibile, lasciare al lavoro il privilegio di farsi elemento che si nutre della collaborazione di tutti, libero da un progetto demiurgico che lo incatenerebbe».
Ecco. È qui che davvero torna tutto. A tarda sera, riuniti nella sala del Teatro dei Venti, dopo aver ascoltato le improvvisazioni vocali dell’Incontro Cantato di Mario Biagini (Open Program Workcenter Jerzy Grotowski con Collettivo Hospitales) decimato nei membri dalle condizioni meteo, abbiamo atteso il ritorno di Stefano Tè. Egli è apparso come sarebbe apparso un Achab dopo l’ennesimo duello con quel him (la balena è sempre maschile nel romanzo di Melville), o un Ishmael sopravvissuto al massacro. A Trasparenze non c’è davvero alcun progetto demiurgico, ma il tentativo di incontrare un equipaggio umano fatto di artisti e spettatori. Quello di coinvolgere le comunità più minute, prendendosi la lussuosa responsabilità di fallire. Come in ogni grande impresa.
Sergio Lo Gatto
MOBY DICK o Il Teatro dei Venti from PianoC on Vimeo.
Trasparenze Festival 7, Modena – maggio 2019
MOBY DICK
ideazione e regia Stefano Tè
adattamento drammaturgico Giulio Sonno
consulenza alla regia Mario Barzaghi
assistenza alla regia Simone Bevilacqua
direzione musicale Luca Cacciatore, Igino L. Caselgrandi e Domenico Pizzulo
costumi a cura di Teatro dei Venti, Luca Degl’Antoni e Beatrice Pizzardo;
disegno luci Alessandro Pasqualini; audio Nicola Berselli
scenotecnica e realizzazione macchine di scena Dino Serra e Massimo Zanelli
scenografie Dino Serra in collaborazione con il Teatro dei Venti
con Oksana Casolari, Marco Cupellari, Daniele De Blasis, Alfonso Domínguez Escribano, Federico Faggioni, Talita Ferri, Francesca Figini, Alessio Boni, Davide Filippi, Hannes Langanky, Giovanni Maia, Alberto Martinez, Amalia Ruocco, Antonio Santangelo, Mersia Valente, Elisa Vignolo
produzione Teatro dei Venti
in co-produzione con Klaipeda Sea Festival (Lituania), realizzata con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Modena, della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con il contributo del Comune di Dolo (VE) in collaborazione con l’Associazione Echidna.