Shakespeare/Sonetti per la regia di Valter Malosti, uno spettacolo frammentato e poetico, andato in scena al Teatro Vascello di Roma. Recensione
Cosa non faremmo per amore? Cosa, in nome di quella forza in grado di scuoterci il petto, capace di farci librare leggeri come seta chiara o incombere inesorabili come un uccello nero sulla pelle della sua preda? E poi, nudi, a riscoprire quel peccato originale, tentati da una mela nella mano, o, nella lotta ferocemente sensuale dei nostri corpi su un talamo, intenti a ritrovare in quello, tutti i volti dell’amato? Cosa rimarrebbe, infine quando tutto verrebbe dato per finito, quando il verso sarebbe giunto all’orecchio dell’amato; quando rifiutati o sconfitti dagli inganni del tempo, saremmo, probabilmente soli per strada, sotto un lampione, noi tutti, poco meno che poeti tragici e buffoni?
Amore, la sua inesorabilità beffarda che si dice infinita ed effimera assieme; le sue sfaccettature crudeli e languide, il suo dichiararsi, (ben prima che da Barthes) frammentato, volubile e capriccioso: questo è il cuore di Shakespeare/Sonetti, cuore concettuale e concreto per questo spettacolo nato dall’incontro di Valer Malosti con Fabrizio Sinisi per la drammaturgia, con Michela Lucenti per la coreografia, tenuto assieme sulla scena da un comparto sonoro (anch’esso a cura di Malosti assieme a Fabio Cinicola) che spezza e ricuce elettronica e melodia, tra noise e Modugno.
Nel terzo degli “Shakespeare non teatrali” (dopo Venere e Adone e Lo Stupro di Lucrezia), passato a fine tournee anche al Teatro Vascello di Roma, Malosti sceglie di presentare una summa dei 154 sonetti del Bardo, quasi fossero un’unica tragedia compiuta i cui atti vanno a isolare le diverse emozioni e i diversi stadi dell’amore, in una scena necessariamente frammentata. Due scatole aperte, quasi fossero gli interni di un carillon, al cui interno girano languide una figura chiara di un giovinetto apparentemente gentile (il “Fair Youth” dedicatario dei primi 126 sonetti, interpretato da Marcello Spinetta) e un’altra nerovestita, schiena nuda e tentatrice (la “Dark Lady” Michela Lucenti degli ultimi 28); a queste si aggiungerà, come nella raccolta shakespeariana anche in scena, il “Poeta rivale” (Maurizio Camilli), a smontare gli equilibri.
Malosti, microfono in mano e una voce potentissima in petto, trucco e costume da giullare, diventa l’io narratore che collega le diverse isole di senso: si rivolge ai suoi destinatari, li invoca e li poggia su un piedistallo, li fa danzare e li dileggia, mentre una figura, torva e inquietante al centro del palco, scrive e borbotta silenziosamente per tutto il tempo (Elena Serra). Una “S.” puntata, dichiarano i materiali di sala: esemplificazione del poeta, della sua scrittura? Poco importa rintracciare un univoco significato, quanto assommarlo al resto, a questi quadri che scivolano l’uno sull’altro, alla danza cupa e appuntita di Michela Lucenti, a quella della coppia Spinetta-Camilli, evocatrice di un amplesso crudo e mai volgare, all’autenticità della voce di Malosti, «esibizione di un io disperato e precario, disposto a dire tutto, a farsi povero e buffone, a divenire esso stesso spettacolo, pur di non perdere l’Altro».
Lo spettatore distratto, quello a cui avrebbe potuto appartenere la risata blanda, registrata e mandata “in onda” a inizio spettacolo quasi ci si trovasse all’interno di uno show televisivo, si ritroverebbe spiazzato dalla mancanza di una struttura drammaturgica prominente – per cui ci si trova a saltare dalla preghiera all’offesa, dall’invocazione all’indifferenza, dalla tristezza alla passione –; da una scena, che, specie nella prima parte, si fa forza quasi esclusivamente nelle parole di uno e solo poi concede agli altri corpi di trovare espressione. Ma forse, saranno stati fortunati, loro, a non aver mai incontrato un amore non fatto di mille parole, un amore sconnesso e non logico, un amore che passa dall’idillio alla tragedia in un respiro, un amore di cui ancora ci si ostina a pensare anche quando ritorna solo in forma di ricordo evocato, anche quando, smessi i panni dei buffoni lasciamo sul letto quell’involucro, vuoto e pieno ancora, e continuiamo a guardarlo. «Se questo è errore e mi sarà provato, / Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato».
Viviana Raciti
SHAKESPEARE/SONETTI
versione italiana e adattamento teatrale Fabrizio Sinisi e Valter Malosti
regia Valter Malosti
coreografie Michela Lucenti
con
Valter Malosti Io narrante / Il Poeta come buffone
Michela Lucenti | Dark Lady
Maurizio Camilli | Il poeta rivale
Marcello Spinetta | Il giovane ragazzo
ed Elena Serra | S.
scene e costumi Domenico Franchi
luci Cesare Agoni, Sergio Martinelli
acconciature e trucco Bruna Calvaresi
assistente alla regia Elena Serra
canzoni Domenico Modugno
Un pagliaccio in paradiso, Che cosa sono le nuvole, Dio come ti amo
progetto sonoro Valter Malosti
musiche voci e frammenti sonori da Alan Splet, Murcof, Bruno Pronsato, Michael Nyman, Al Pacino, Scanner, Arvo Pärt
estratti da Liquefatto, progetto musicale di Gup Alcaro e Valter Malosti
suono Fabio Cinicola
direttore di scena Gennaro Cerlino
truccatrice Barbara Petrolati
sarta Augusta Tibaldeschi
datore luci Umberto Camponeschi
una produzione TPE-Teatro Piemonte Europa, CTB Centro Teatrale Bresciano, Teatro di Dioniso