All’interno della XXVI edizione di Fabbrica Europa, il Focus Cina. Corpo, ideologia, contemporaneità ha offerto a Firenze una panoramica sull’attuale coreografia cinese. Una conversazione con il curatore Fabrizio Massini, sinologo, consulente artistico, produttore e drammaturgo.
Fabrizio Massini mi accoglie davanti all’ingresso del PARC con lo sguardo aperto e una riconoscibile stanchezza da jet lag: è appena rientrato dall’ennesimo viaggio in Cina, a Dali, nella provincia dello Yunnan, dove ha terminato di condurre un workshop sulla drammaturgia della danza. Forse è da quelle zone, dalle sue risaie e dalle sue montagne impresse nell’immaginario collettivo, che proviene il tè che si offre di preparare a entrambi, mentre ci accomodiamo su un divano nei nuovi uffici di Fabbrica Europa. È in questi spazi ancora intonsi che stanno avendo luogo i tanti eventi del Focus Cina. Corpo, ideologia, contemporaneità, la rassegna curata da Massini all’interno della ventiseiesima edizione del festival fiorentino, che si propone di offrire una panoramica sull’attuale produzione di danza e arti visive cinesi. Alternando spettacoli a workshop, conferenze a incontri, il Focus Cina ha condotto nel cuore di Firenze un gruppo di coreografi emergenti e le loro creazioni: Wu Hui, Lian Guodong, Lei Yan, Tian Tian, Yu Yanan, ai quali si aggiunge Er Gao, che proprio Massini portò in Italia una prima volta nel 2015, all’interno del festival bolognese Gender Bender. Per una settimana, Fabbrica Europa diventa il palcoscenico per una trasmissione di pratiche e una condivisione di sguardi: tra performer, ma anche tra spettatori e artisti, lontani per esperienza e tradizioni e tuttavia accomunati dalla volontà di individuare anche nella danza – come leggiamo nel programma del Focus – un possibile territorio di «libertà transnazionale».
Come nasce il tuo rapporto con la scena teatrale cinese?
Mi sono laureato in Studi Interculturali qui a Firenze, studiando inglese e cinese, e nel 2005, mentre frequentavo il terzo anno dell’università, sono andato per la prima volta in Cina, rimanendone folgorato. Già a partire dal 1999, però, facevo teatro: ho cominciato al Teatro Studio di Scandicci, sotto la direzione di De Martin prima e di Staino poi, con la compagnia Istituto Charenton. Dopo la laurea ho deciso di unire queste due passioni, e mi sono trasferito a Londra per frequentare la SOAS, una delle istituzioni europee dove si può studiare teatro cinese, inteso come teatro moderno e contemporaneo. Terminato il master, nel 2009 ho ottenuto una borsa di studio per frequentare la Central Academy of Drama di Pechino. A Londra avevo un’amica norvegese, anche lei entusiasmata dal teatro cinese, con la quale condividevo spesso un progetto forse un po’ naïf: quello di fondare una compagnia di teatro contemporaneo in Cina. In quegli anni stava d’altra parte nascendo il Beijing Fringe Festival, e noi, che avevamo studiato lo sviluppo del teatro negli anni Ottanta e Novanta e l’avanguardia, volevamo unirci allo sviluppo di questa new wave. Durante la Rivoluzione Culturale il teatro era solo uno strumento di propaganda: esistevano soltanto otto cosiddette “opere modello”, spettacoli di balletto tradizionale francese con innesti di opera cinese a tematica socialista, che venivano replicati ovunque nella nazione.
Al termine della Rivoluzione Culturale, nel 1976, quando la Cina si è parzialmente dischiusa al mondo con la Politica della Porta Aperta, la gente tutto voleva tranne che il teatro: voleva il cinema, voleva la televisione. Quindi il teatro ha subito un processo di ibernazione terminato soltanto alla fine degli anni Novanta, quando il Beijing Fringe ne ha sancito la rinascita. Stava emergendo una scena nuova, si percepiva un’enorme curiosità… Quando con la mia amica siamo arrivati a Pechino, eravamo due mosche bianche: due stranieri che parlano cinese e vogliono fare teatro con la scena locale. Ma siamo stati subito accolti da una comunità molto coesa, giovane, con tanta voglia di fare. E il Fringe ne è stata la casa: fu il suo direttore artistico, Meng Jinghui, davvero il nome più importante per il teatro contemporaneo cinese, a propormi di curare una sezione per gli artisti stranieri. Rimasi interdetto: Meng Jinghui, che avevo studiato soltanto l’anno prima, telefona a me per chiedermi qualcosa? Appena arrivato, già ero stato preso, adottato dalla comunità. Finito l’anno all’Accademia sono così rimasto in Cina, lavorando come traduttore e insegnante per qualche anno, e nel frattempo cominciando a invitare un po’ di gruppi italiani come Codice Ivan o Sanpapié. L’idea era quella di proporre artisti e creazioni che avessero un senso anche in Cina. Ovviamente c’era un grosso gap, a livello di linguaggi, di complessità del discorso, di concezione stessa della contemporaneità: ma che cos’è la contemporaneità? Chi la definisce?
Non a caso, contemporaneità è una delle parole da te scelte come sottotitolo di questo Focus Cina.
Sì, è una delle mie ossessioni negli ultimi dieci, quindici anni. Sono andato via dall’Italia con delle idee preconcette di che cosa fosse la ricerca, che cosa fosse il contemporaneo, che cosa fosse l’orizzonte, e sono arrivato in un luogo in cui questi canoni sono inutili, non corrispondenti a nulla. Ho dovuto svolgere una ricostruzione, interrogarmi su quanto risultasse rilevante in Cina. Ho dovuto domandarmi da capo il significato del termine “politico”, “indipendente”, “ricerca”.
Il rischio, citando Edward Said, è sempre quello dell’orientalismo: applicare ovunque la nostra idea di contemporaneità, o adeguarci invece a un pregiudizio stereotipato di che cosa possa offrire un determinato panorama performativo.
Esatto: me ne sono accorto anni dopo, lavorando per Ibsen International (società fondata nel 2010 che promuove collaborazioni internazionali, di cui Massini è direttore artistico, ndr), quando accompagnavo a teatro stage designer, light designer o coreografi stranieri, invitati a tenere workshop e masterclass. Se erano spettacoli tradizionali, o che sembravano corrispondere alla nostra idea di Cina, rimanevano affascinati: le maniche lunghe, il modulare delle voci dell’Opera di Pechino, i volti truccati… Tutto sembrava così bello, così elegante, esotico, curioso. Se si trattava invece di spettacoli moderni, questi non risultavano ai loro occhi “abbastanza contemporanei”, bensì vecchi, emulativi, derivativi. Questo atteggiamento mi faceva rimanere sempre un po’ perplesso: chi è che assegna la patente di ricerca a un artista? È da questa domanda che ho iniziato a indagare i codici della contemporaneità.
Come hai costruito il cartellone del Focus Cina?
Sono partito dalla consapevolezza che del teatro contemporaneo cinese in Europa arriva poco, e in Italia ancora meno. Ciò che vediamo è sempre sostanzialmente di due tipi: da un lato il teatro tradizionale e classico, l’Opera di Pechino, i contorsionisti, gli acrobati, le coreografie di gruppo. Questo è ciò che il governo sponsorizza, l’immagine da cartolina che vuole spedire al mondo. In altri paesi, specialmente in Germania dove l’attenzione al contemporaneo ha avuto origine prima, invitano spesso artisti come Paper Tiger o Living Dance Studio: due nomi di riguardo, che hanno fatto la storia della danza indipendente in Cina. Ma sono sempre soltanto questi a circuitare. Avendo vissuto in Cina dieci anni, ho invece esperito una realtà vastissima, un sottobosco gigante all’interno del quale esiste anche una scena giovanissima non rilevata dai radar. Nel mettere insieme il Focus Cina il principio fondamentale è stato quello di cercare di rompere l’immagine monolitica del paese, e presentarne invece uno spaccato variegato. Aprire una specie di ventaglio, di mosaico, e farne vedere la pluralità e la diversità.
Un altro termine centrale nel Focus è ideologia: e non a caso ricordi come sia volontà statale quella di esportare una precisa immagine delle arti performative. Quale rapporto intercorre tra il Governo di Pechino e la scena teatrale?
Non si tratta soltanto di una loro volontà di esportazione: esiste anche una precisa aspettativa di importazione. La domanda e l’offerta si incontrano spesso, in questo settore. Come la macchina istituzionale cinese è interessata a promuovere certi artisti, anche qui in Europa c’è interesse a ospitare una precisa tipologia di spettacolo: per la risposta del pubblico, per la semplicità di gestione… Per una forma di orientalismo, certo. È un discorso di cui però vale anche l’inverso: mi sono trovato spesso a parlare con promoter, operatori, direttori di festival in Cina che mi chiedevano informazioni soltanto sulla Commedia dell’Arte o su Goldoni. Lo scopo del focus è stato anche quello di rompere questo circolo vizioso.
Il discorso sull’ideologia è piuttosto complesso. Il 1989 ha tracciato un confine molto netto: non si parla di politica, ma tutto il resto è ammissibile e rappresentabile. Durante la Rivoluzione Culturale, invece, l’io ideologico era tutto il tuo io. Non avevi neanche un genere, non eri un uomo o una donna: eri prima di tutto un compagno. Negli anni Novanta questo scenario si è aperto: si è ottenuta libertà nella gestione della vita privata, ma non si poteva comunque parlare di politica. È qui che ha avuto luogo una biforcazione. Da una parte, un gruppo di artisti si è mosso a favore di questa corrente, dedicandosi alla pura ricerca estetica di forme e di linguaggio, sia nel teatro sia nella danza. Dall’altra parte, invece, c’è stato chi ha voluto affrontare proprio le questioni politiche: e all’interno di questa seconda categoria c’è chi lo ha fatto in maniera radicale, cercando e aprendo degli spazi indipendenti e illegali, secondo modalità un po’ settarie, un po’ elitarie, ma eticamente e politicamente integerrime; e chi invece ha scelto invece di aggirare la questione, parlando di politica ma non esplicitamente. Il caso emblematico è quello di Meng Jinghuei, autoproclamatosi “teppista del teatro”, artista inizialmente antisistema e politicizzato, poi progressivamente inseritosi nel teatro nazionale, che nel 1994 mette in scena Morte accidentale di un anarchico ricorrendo allo stesso stratagemma utilizzato da Dario Fo. Così come Fo si difendeva dalle accuse spostando lo sguardo dall’Italia degli anni Settanta agli Stati Uniti degli anni Venti, così Meng Jinghuei sosteneva di mettere in scena l’Italia degli anni Settanta, non la Cina degli anni Novanta. Lo spettacolo di Lian Guodong e Lei Yan presentato all’interno del Focus, I Didn’t Say Anything, è proprio un tentativo di adeguare la forma al contenuto: una forma e un titolo che affermano di “non dire nulla”, e tuttavia, guardando lo spettacolo, si comprende di che cosa si stia parlando.
Come è organizzato il sistema dello spettacolo in Cina?
È un sistema verticistico, nel quale non c’è divisione tra scena indipendente e scena nazionale: esiste soltanto una scena istituzionale. Se vuoi fare l’artista devi cercare di rientrare in una qualche istituzione, sia essa un’accademia o un teatro. Un tempo questi enti erano completamente statali, negli ultimi anni sono stati in parte privatizzati: il governo elargisce fondi, ma i teatri devono implementarli attraverso la vendita dei biglietti. Sta avendo luogo una commercializzazione dell’istituzione statale, ma persiste il ricorso a fondi pubblici consistenti. L’artista indipendente, invece, deve avere inventiva, perché quasi non esistono programmi che offrano una sovvenzione. Chi fa parte della scena indipendente si guadagna da vivere insegnando, o svolgendo professioni commerciali a margine della propria ricerca personale. Se vuoi essere un’artista indipendente in Cina, hai bisogno di ancora più impegno, convinzione e dedizione, per tanti motivi: condizioni materiali di lavoro, finanze, accessibilità agli spazi… In confronto anche l’Italia è il paese della cuccagna.
E il pubblico, invece?
Il pubblico è numerosissimo: a partire dalla fine degli anni Novanta, inizio anni Duemila, il teatro è risorto. Adesso si inaugura un teatro ogni mese, si dà vita a un festival, e l’età media del pubblico è bassissima, intorno ai 25 anni. È un pubblico giovane, in continua crescita. Una delle ragioni per cui sono rimasto in Cina, e per cui ho trovato un significato al continuare a occuparmi di teatro in Cina, è che si tratta di pubblico poco specialistico: quando metti in scena un lavoro, puoi essere certo che per una buona metà degli spettatori, o almeno un trenta percento, quello sia il primo spettacolo che vedono nella vita. Quindi c’è curiosità: alla fine degli spettacoli è sempre organizzato un momento di questions & answers. E a volte questo Q&A dura quanto lo spettacolo: la gente ha tante domande, che spaziano da «perché l’attore è vestito di rosso?» a interpretazioni coraggiose, che ti lasciano esterrefatto. Tutti gli artisti che vengono dall’Europa notano l’interesse estremo del pubblico, la sua totale umiltà totale nel dire «non ho capito, voglio discutere, voglio parlarne», e al contempo questa capacità di analisi bellissima, ma spesso lontana da ciò che è realmente accaduto in scena.
Ricorrendo a termini che sono ormai da noi consueti, in Cina c’è forse più bisogno di audience development che di audience engagement.
Sì: qui, come nel Regno Unito o in Francia, spesso il problema è che non c’è pubblico o ce n’è poco, e quello che c’è è vecchio, e bisogna trovare un modo di portare nuovi spettatori a teatro. In Cina questo problema non c’è, perché i teatri si riempiono da soli: tu presenti un lavoro e la gente viene, non devi andare a cercarla. Quello che manca è la costruzione di un’abitudine allo sguardo, per cui a volte nei Q&A ti vengono poste domande come «perché il danzatore è entrato da destra?». I registi o gli artisti spesso si spazientiscono: ma a me – da osservatore, a volte traduttore, a volte curatore, comunque da figura di transizione e mediazione – sembra bellissimo che ci sia gente che non solo decide di uscire di casa per vedere uno spettacolo, ma che dopo averlo visto decide di rimanere e ha cose da dire. Ci vorrà del tempo, perché la gente ha cominciato a esser esposta ad altre modalità performative soltanto di recente. Ciò che il cinema e la televisione veicolano è la struttura classica, aristotelica: c’è una trama, ci sono dei personaggi, c’è da capire chi è buono, chi è cattivo e perché, qual è la morale… Ormai per noi è consuetudine assistere alla decostruzione dei formati: ma chi assiste per la prima volta nella vita a uno spettacolo e vede un lavoro non narrativo, a volte rimane di stucco, a volte si lamenta. Ma si tratta pur sempre di una minoranza. La maggior parte degli spettatori invece rimane entusiasta di ciò che riesce a cogliere, di ciò che afferra. Ci sarebbe semmai bisogno di creare maggiori momenti di approfondimento.
Quale biunivoco scambio di pratiche e di esperienze speri che si origini a partire dal Focus Cina?
Spero che si comprenda la ratio con cui ho costruito il cartellone. Le installazione video che costellano gli spazi del PARC in questa occasione mostrano sia le creazioni di artisti seminali, come Wen Hui e Willy Tsao, al quale si deve la nascita della danza contemporanea in Cina alla fine degli anni Ottanta, sia di alcuni giovanissimi coreografi, anche under 25. Vorrei che il pubblico comprendesse le tante diversità della Cina. Spero inoltre che gli artisti cinesi invitati abbiano modo di vedere che cosa vuol dire “danza” qui, che abbiano modo di vedere le creazioni di coreografi della loro generazione: a che cosa si interessano, come lavorano, come intendono il corpo, che significa essere un artista indipendente o un artista istituzionale in Italia. In sostanza, capire un’altra realtà.
Alessandro Iachino