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Danilo Giuva. Drammaturgia dell’amore matrigno

Al Teatro Argot Studio di Roma, nella rassegna OVER, è andato in scena Mamma di Annibale Ruccello, diretto e interpretato da Danilo Giuva. Recensione.

foto di Manuela Giusto

Nera coltre oscura e densa a ricoprire l’intorno: buio fitto, notturno vischioso che appesantisce, blocca lo sguardo sprofondandolo giù e ancora giù, per lasciare gli occhi aperti ma incapaci di vedere. Tra le ombre, sale la fiaba di Basile, quella di Catarinella che è cunto musicato dalla timbrica vocale issata alta sugli accenti e aggrovigliata poi nella gravità dei toni. Danilo Giuva è attrice madre che dà la vita e la toglie, che protegge, custodisce e accudisce per poi scacciare, rinnegare, insultare. Vita e morte oggettivate in quel calco, bianco latte, di seno e ventre rigonfi, che è inizialmente poggiato a terra e poi indossato, come a “vestire di maternità” la figura maschile di Giuva. L’attore pugliese è unica voce recitante le quattro piccole tragedie minimali (Catarinella e il principe serpente, Maria di Carmelo, Il mal di denti e La telefonata) che compongono il testo Mamma, scritto da Annibale Ruccello nella primavera del 1986 e presentato quello stesso anno al Primo Premio Gennaro Vitiello.

foto di Manuela Giusto

L’adattamento del testo originale si è focalizzato sul legame filiale «per svelare il bug che infetta il cervello della donna/madre nell’istante dell’espulsione e che trasforma una condizione così bestialmente carnale e istintiva nell’incarnazione metaforica della disgregazione del nido familiare in funzione del Sé, al punto da indurla a disconoscere ogni sua mansione naturale e rivelare, all’opposto, un animo di genitrice perfida e mutevole». Queste le note di regia del parto drammaturgico, presentato al Teatro Argot Studio di Roma durante la rassegna Over Emergenze Teatrali, con il quale Giuva ha vinto il primo premio al festival Troia Teatro 2018. Queste quattro donne sono minimalistiche figure che incarnano la tragedia della procreazione, dono meraviglioso e al contempo condanna biologica. Donne già madri, che non sarebbero potute essere nient’altro che madri, nelle cui vite entriamo senza conoscere la storia ma seguendo la scrittura antropologica di Ruccello nel manicomio di Maria di Carmelo e nel vascio di Jennifer, il basso, l’abitazione tipica dei quartieri popolari napoletani con l’ingresso sulla strada, in cui letto, cucina e bagno sono concentrati in un’unica e singola stanza.

foto di Manuela Giusto

«Un quadrato 4 metri per 4, vuoto» è lo spazio scenico in cui Giuva sceglie di far agire le quattro donne facendo parlare loro non la lingua napoletana di Ruccello ma il dialetto foggiano, quel dialetto, dice, «che ho sempre sentito usare alle madri importanti della mia vita e che, più di ogni altro, mi consente di mantenere l’autenticità di cui le quattro donne protagoniste hanno bisogno». Una scelta linguistica attuata non per traduzione ma per traslitterazione, spostando dunque la valenza dialettale tanto sul piano fonetico quanto su quello semantico, andando a riempire il testo con tutto il portato emotivo della propria lingua madre. Le parole di queste figure si rincorrono furiosamente per la fretta di uscire fuori, di non trattenersi più dalla voglia di dirsi, e poi si chiudono accartocciandosi, perdendo le vocali, stringendo le labbra, a schermarsi gelosamente, per esprimersi ma mai del tutto. Una lingua che, quando non inveisce, ingoia dolore e per rimozione si difende.

foto di Manuela Giusto

Scegliendo una posa decentrata sulle punte dei piedi per il peso della nuova vita da portare in grembo, Giuva abita questo vascio illuminato in bianco e nero dalle luci di Cristian Allegrini, come fosse una regina in pantofole e pinza per capelli; il suo è un regno femminile e matriarcale in cui gli uomini non sono mai presenti e sempre criticati per la loro inettitudine. Il potere è della madre, è lei che sa curare e, morbosamente, distruggere il focolare domestico, sempre più sconquassato, profumato di lacca per capelli, disturbato dal suono gracidante della televisione e dallo squillo incessante del telefono. Bozzetto di vita figlio dello sguardo partecipante col quale Ruccello osservava la Napoli degli anni Ottanta restituendone la bellezza sfatta e volgare, che pullula in questo spettacolo inedito di Giuva. Qui è impossibile non rintracciare una familiarità poetica che lo lega all’autorialità della Compagnia Licia Lanera, di cui fa parte e dalla quale si distacca per presentare questa prima prova registica. Terrigna è la voce di queste donne intervallata dalle musiche e dai suoni di Giuseppe Casamassima, un sottofondo elettronico che aumenta la densità del testo, di quelle stesse parole che sembrano prolungarsi e ampliarsi in un’eco corposa, rotonda e armonica.

foto di Manuela Giusto

Infame natura e rovinosa sorte che non ha pietà per sé e i suoi figli e che li guarda morire, gettarsi dal balcone come nell’ultimo e conclusivo quadro – nel testo originale Il mal di denti. «Da subito mi è stato chiaro – si legge ancora nelle note – che proprio il legame fortissimo ancora esistente con mia madre non mi avrebbe consentito di costruire un lavoro oggettivo e universale e, di conseguenza, efficace». Attuando questa distanza interpersonale, Giuva si serve del testo di Ruccello per creare un piano narrativo surreale e fiabesco, dove è buio pesto. Sul fondo della sala, a campeggiare luminoso sul fondale bianco di Silvia Rossini, un cuore disegnato sulla tela, bidimensionale e immobile, le cui arterie sembrano radici conficcate nella terra, a ricordarsi della carne e del sangue, dell’amore viscerale che stringe lo stomaco, dell’angoscia per lo sfacelo, di cogliere in uno slancio la sua caducità, di sapere che si può amare al punto di fagocitare l’altro per averlo dentro di sé e non farlo mai fuggire.

Lucia Medri

Teatro Argot Studio, Roma – maggio 2019

MAMMA

di Annibale Ruccello
con Danilo Giuva
regia e spazio Danilo Giuva
consulenza artistica Valerio Peroni e Alice Occhiali
luci Cristian Allegrini
musiche e suoni Giuseppe Casamassima
fondale Silvia Rossini
assistente alla regia Riccardo Lacerenza
produzione con il sostegno di Ombre – Associazione Culturale, Teatro Rossini e Assessorato alla Cultura di Gioia del Colle

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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