Parte la seconda edizione di Grandi Pianure, la vetrina della danza contemporanea del Teatro di Roma. Abbiamo incontrato il curatore Michele Di Stefano.
Sulla locandina campeggia una prateria, estesa a perdita d’occhio, resa livida dal viraggio in negativo. L’unica figura che si staglia è un bisonte rosso sangue, che guarda in camera. Grandi Pianure, la vetrina affidata dal Teatro di Roma al coreografo Michele Di Stefano, ha come sottotitolo «gli spazi sconfinati della danza contemporanea» e giunge oggi alla seconda edizione. Un programma ricco e variegato che si snoda tra Teatro Argentina, Teatro India, Teatro del Lido di Ostia e raggiunge poi due nuovi spazi: il Palazzo delle Esposizioni, che verrà invaso da Buffalo, kermesse che vede una selezione di performance artist installarsi negli spazi museali, e Villa Maraini – Istituto Svizzero di Roma. Gli artisti coinvolti in ordine di apparizione: Marco D’Agostin, Enzo Cosimi, Ioannis Mannafounis, Kinkaleri, Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi, Cristina Rizzo, Roberta Mosca, Virgilio Sieni, Pamina de Coulon, Oliver Roth, Christelle Sanvee, Maria Violenza, Sequoyah Tiger, Olivier Dubuois, Alessandro Sciarroni.
Incontriamo Michele Di Stefano per un aperitivo, alla vigilia della presentazione alla stampa. Scopriamo che è un appassionato di outdoor, tra camminate e alpinismo, orienteering e vita nei boschi. E tutto torna vedendo alcuni lavori della sua compagnia mk, come l’ultimo Parete Nord, ma anche Il giro del mondo in 80 giorni, Robinson, Quattro danze coloniali viste da vicino e Speak Spanish. Anche in un’operazione curatoriale come Tropici risuonano i due atti, fortemente complementari, dello spostarsi e dell’abitare. Proprio come quando si parte alla scoperta di una nuova Frontiera. Allora, più che fargli raccontare il programma, ci interessa indagare questi due termini: sulla base del lavoro svolto per Grandi Pianure, cerchiamo di estendere la nostra conversazione al rapporto tra coreografia e luoghi culturali, tra processo artistico-creativo e processo curatoriale-creativo.
Grandi Pianure è una rassegna ministeriale e può dunque contare su una triennalità. Che differenza ha fatto per te?
Ho avuto altre possibilità. Ho pensato di non limitarmi a ottemperare a quello che sulla carta poteva funzionare con una rassegna di cinquantamila euro, cioè sette giorni al Teatro India a metà luglio; questo non avrebbe avuto la giusta risonanza. Per fare questo c’è di certo bisogno di una struttura che mi supporti; allora il mio lavoro è essenzialmente dedicato a rendere quella struttura fluida. In questo senso l’intervento della nuova direzione artistica, in particolare della consulenza artistica di Francesca Corona al Teatro India, potrebbe essere risolutivo, perché a lei mi lega una forte complicità, costruita con diversi progetti di sinergia. La stessa idea di realizzare una rassegna specifica sulla danza potrebbe cambiare, perché pare esserci una più generale intenzione, da parte di questo sistema, di rivoluzionarsi su un più ampio livello.
Da un punto di vista di immagine esterna un’impostazione come quella dello scorso anno poteva avere senso all’interno di una direzione artistica come quella di Antonio Calbi, di per sé organizzata in maniera molecolare e frammentaria. Adesso forse è importante pensare un percorso più organico, che riesca a pensare la danza come parte di un più ampio insieme di arti performative che venga organizzato a partire da un pensiero curatoriale chiaro, in grado di nutrire la fame di attività culturali che questa città esprime.
È quello che sento anche io e sto provando a fare dei tentativi in maniera “sregolata”, che si confrontano con l’eccezione. Vorrei cercare di uscire anche dall’elenco di spazi che originariamente mi era stato prospettato, tentando di inserire, qua e là, un luogo extra. Come lo scorso anno aveva un senso portare il pubblico all’Angelo Mai, anche se si è trattato di un dialogo a volte problematico: idealmente sposava alla perfezione la mia idea di “spazio selvaggio”, di “boscaglia”, ma ci siamo dovuti confrontare anche con le necessarie prerogative burocratiche di cui un teatro nazionale deve sempre tenere conto.
Quali strutture ospiteranno questa seconda edizione di Grandi Pianure?
C’è innanzitutto un cambiamento di scenario legato ai luoghi. Ho messo in dialogo due istituzioni che, per certi versi, usano lo stesso tipo di linguaggio; per me così è più facile muovermi. L’obiettivo è di aumentare ancora di più le connessioni reali con questi luoghi: l’Istituto Svizzero di Roma è entrato in maniera molto diretta e chiara nel progetto, così come l’Azienda Speciale Palaexpo con la direzione di Cesare Pietroiusti. Avendo intuito opportunità e criticità durante l’esperienza dello scorso anno, ho apportato qualche modifica. Per esempio abbiamo deciso di non allungare la programmazione oltre Short Theatre, che incarna comunque la collaborazione più forte; abbiamo però evitato di portarci fino a ottobre e novembre, concentrandoci piuttosto sulla prima parte dell’anno, dove c’è meno movimento. La questione principale resta però quella di stare il più possibile a ridosso della programmazione tradizionale, facendo in modo che questi eventi arrivino sempre un po’ “all’improvviso”. Non c’è, mi sento di dire, una poetica basata sui contenuti, io ricerco piuttosto una prossimità tra le posizioni rappresentate dagli artisti, che aiuti a costruire una macchina curatoriale complessa e però fluida.
Come hai impostato un discorso sulla danza all’interno di un teatro nazionale?
È qualcosa di molto difficile, perché si tratta di uno scenario che ragiona in modo completamente differente dalla nostra abitudine. Ora sento che qualcosa si sta dispiegando, ma il mio obiettivo era quello di incontrare innanzitutto un pubblico più vasto e non è semplice quando la programmazione viene inserita in momenti svantaggiati della stagione e quando, come scelta curatoriale, ci sarebbe quella di non limitarsi ai nomi di richiamo. Il successo di pubblico, infatti, è stata la vera vittoria della scorsa edizione.
La strategia di quest’anno sta nel fare al meglio della qualità possibile quello che mi sembra sia stato ipotizzato ed essere apertissimi alle nuove possibilità di una direzione appena insediata. Dipende molto da qualcosa che oggi sta già accadendo: la possibilità per la danza di abitare dei luoghi. Questo bisogna aiutare, cercando soprattutto di tratteggiare delle linee di senso tra una e l’altra esperienza.
Come si colloca il tuo lavoro di coreografo nella geografia attuale della danza italiana?
Forse è vero che l’eccentricità della danza italiana dipende dalla sua non consuetudine a un certo tipo di circuiti; la mia generazione si è costruita senza avere le reti a disposizione e dunque informando la propria stessa concezione spettacolare perché non doveva rispondere a nessun requisito di mercato. Non doveva e, forse, non voleva rispondere. Io ho cominciato con mk, accanto a noi c’era Kinkaleri, c’era Fabrizio Favale e pochi altri, era un periodo particolarissimo, in cui il territorio era davvero non coltivato. Aldes, ad esempio, proveniva da un movimento riconosciuto: mentre hanno molto spesso tentato di farci fuori, noi siamo tra i pochi sopravvissuti di quella stagione post Virgilio Sieni, post Enzo Cosimi, post Sosta Palmizi.
Era un periodo di passaggio, eravamo in qualche modo più puri e più sperduti, oscillanti tra due estremi, una piena autorevolezza o la completa non esistenza. Abbiamo avuto di certo molti complici, curatori come Silvia Fanti e certo tutti i festival che ci hanno sostenuto. Eppure è giunta presto una tendenza a storicizzare e quindi a chiudere, per responsabilità di critici e studiosi. Il mio lavoro, ad esempio, lo conoscono davvero in pochi, perché io ho altri interlocutori che non appartengono allo specifico del mondo della danza, che hanno cominciato ad accettare quell’impostazione e, col tempo, a valutarne la qualità. Ho più complicità con quegli interlocutori che tendono a rifiutare categorie troppo definite, accettando anche di essere inserito nella “non danza”, cosa che è paradossale, perché per me tutto può essere contemplato nel lavoro che cerco di fare. Solo adesso, in un’ondata di ritorno, è come se avessi ricevuto un’investitura a posteriori, che fortunatamente coincide con il mio periodo più lucido rispetto alla produzione spettacolare.
Che cosa ha reso possibile questa “investitura a posteriori”?
Credo che si tratti di un insieme di fattori. Non parlo tanto dei riconoscimenti (Michele Di Stefano ha ricevuto il Leone d’Argento alla Biennale Danza nel 2014, ndr), né dalla costanza e persistenza del nostro lavoro, piuttosto dall’assoluta incorruttibilità, una sorta di immobilità di posizione, come quella di una montagna. Una questione più personale, poi: questo tipo di lavoro, di attività e di condizione artistica di fatto non mi lascia mai solo, e avere questa forza nei momenti critici è stato fondamentale. Qualche esempio: nel 2006 andammo a Biennale Danza con Tourism, poco dopo producevamo Il giro del mondo in 80 giorni; tutti lavori gelidi, completamente diversi da ciò di cui si stava occupando la danza in quel momento. Se non ci fosse stato questo sincero dialogo interno e con la materia viva e quella posizione ben definita, non saremmo sopravvissuti.
Stiamo parlando di una questione identitaria, dell’urgenza di tenere fede, anche dal punto di vista del linguaggio coreografico e del rapporto con il sistema, a un’idea ben precisa.
Una posizione granitica perché magmatica sotto e quindi in cerca di continuo nutrimento. Io faccio questo lavoro perché non saprei dove altro andare a parare, ma non mi sento neppure così naïf da non vedere che occorre sempre scontrarsi o tentare l’incontro con dei massimi sistemi e da qui viene la vera linfa di un lavoro di ricerca.
C’è stato forse un momento in cui il termine “danza pura” ha smesso di avere un senso identificabile. È interessante, da un lato, ma preoccupante dall’altro il fatto che – magari in altri termini – l’esigenza di una simile divisione ora stia tornando. Negli ultimi anni abbiamo potuto vedere alcuni esperimenti, anche quelli internazionali, in cui sembrava fosse urgente comunicare che i nuovi linguaggi della danza erano ben consapevoli di quella “danza pura”, ma finendo per guardarla con scherno più che con rispetto. Ora sembra che ad avere paura di queste nuove forme non sia tanto il pubblico nuovo che si potrebbe incontrare, ma quello che ha alle spalle decenni di frequentazione dei teatri e che pare non riesca a ricollocare del tutto lo sguardo.
Eppure non sapere dove ricollocarsi dovrebbe, soprattutto nell’arte, rappresentare una posizione splendidamente privilegiata. Se tu riesci a comunicare il “privilegio della ricollocazione”, piuttosto che il convincimento o l’educazione allo spostamento, allora conquisti davvero qualcosa. Non è mai un trasloco, si tratta piuttosto di spostarsi per prendere il sole da un’altra angolazione. Se, attraverso gli spettacoli e le programmazioni che firmi, riesci a comunicare che siamo tutti in spostamento e in movimento allora non hai più bisogno neppure di intavolare discorsi sullo specifico coreografico, sull’autorialità dei coreografi, sul modo in cui viene usato il corpo, su “danza o non danza”. Il corpo viene usato dappertutto e ovunque, anche alle Olimpiadi, il discorso non è lì. C’è una coincidenza sul fatto che gli spettacoli cosiddetti “di danza” hanno in corso una questione “posturale”, intendo una messa in discussione del loro modo di porsi; ma è una questione che informa il contenuto, il contenitore e che è capace di informare anche quello che c’è oltre il contenitore, cioè l’appuntamento spettacolare. Questo è idealmente ciò che cerca di fare anche Grandi Pianure. In questa prima fase si presenta come ondivaga, si sposta in vari luoghi, sperimenta una nuova gestione del calendario, ma cerca di dimostrare proprio che ci stiamo spostando tantissimo.
Come la conquista del West, ci si sposta gradualmente spostando il confine. Che forma ha questa Frontiera? Come la si raggiunge?
Dobbiamo conquistare le condizioni per ambientarci, il nostro dialogo, così come la danza stessa, si costruisce nella durata e c’è bisogno di luoghi precisi da poter gestire, coreografi e artisti insieme a operatori. Quello che sta accadendo oggi con il Teatro India è che si stanno formando dei nuclei operativi che ipotizzano la gestione nella durata.
In questo modo il discorso artistico/creativo si riconnette a quello curatoriale/creativo. La desinenza è sempre la stessa.
Per me la danza pone una questione formale molto chiara: come far convergere una sporcatura energetica? Attraverso il corpo, la sua permeabilità, il suo dentro-fuori io riesco a riflettere scoprendo qualcosa sul rapporto interno-esterno. Immagino la danza esclusivamente come uno strumento di esplorazione, il ritorno formale è un “retrodiscorso” ormai lontano dal nucleo della questione, che resta esplorativo. Allo stesso modo io immagino la costruzione di una progettualità come strumento esplorativo di un interno – la struttura che lo contiene – e un esterno – il mondo fuori, il pubblico, oltre il pubblico. Questo lavoro è dunque sempre condizionato dal contesto. C’è un’enorme differenza fra una e l’altra curatela: l’atteggiamento è sempre lo stesso, ma le pareti sono molto diverse e il riverbero cambia e questo influenza moltissimo il ritorno verso l’esterno. Per me capire l’atteggiamento con il quale si porta avanti un compito – intendo anche rispetto alle persone – è molto simile a quello con il quale articolo il lavoro con i performer. C’è anche la scoperta di un linguaggio che deve accettare di essere molto differente, di luogo in luogo. La sfida è stata quella di dover andare in assonanza con il tipo di linguaggio istituzionale; poi si imparano i fondamentali del parlato e si può procedere insieme, in una sorta di accompagnamento prossemico. Esattamente come nella danza.
Sergio Lo Gatto