Julian Rosefeldt è regista e autore di Manifesto, video installazione in tredici schermi programmata al Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 22 aprile 2019. Un’analisi e un’interrogazione.
Un manifesto è gesto estetico e politico. È pensare, organizzare l’esistente – nello specifico arte, società, o entrambe – in base a una qualche concezione del mondo. Vi si sviluppano in forma scritta le condizioni per cui nuove idee e nuovi oggetti artistici, quindi estetici, possano abitare lo spazio della polis. La parola dei manifesti, dunque, si pensa già come parola-azione che necessariamente si traduce o guida la praxis-poiesis del fare artistico, quella agìta. Che la parola dei manifesti sia in stretta connessione con un fare organico lo mostra l’attore. Organico, perché agire parole è proprio alla prassi attorale: incarnare testo, farne gesto, sostanza corporea. L’attrice Cate Blanchett, allora, agisce la parola dei manifesti e ce la dimostra: non mera lettera confinata allo stampato, piuttosto programma di azioni, da compiersi e che siano finalizzate a un fare. Un fare (parola-programma d’azione) iscritto all’interno di uno spazio, di ambienti e contesti precisi, che sembrano stare in rapporto paradossale, eppure perfetto e coerente, con quanto è detto nei manifesti.
La scena filmica costruita da Julian Rosefeldt – artista e regista tedesco – per l’esposizione Manifesto, video installazione in tredici schermi programmata a Roma al Palazzo delle Esposizioni, ci mostra per ognuno dei tredici episodi (di dieci minuti per una durata complessiva di 130 minuti) l’impensato del manifesto, coerente nella misura in cui ogni manifesto si configura come qualcosa di nuovo e originale rispetto a un ordine non più riconosciuto dalla società. Ecco allora che la madre “tradizionalista” che “prega” a tavola con le parole di Claes Oldenburg, non è forse, in fin dei conti, l’icona più assolutamente popular dell’occidente middle-cult, più ancora delle Marilyn e delle Campbell Soup di Warhol, o dei fumetti di Liechtenstein? Non è, forse, la sua famiglia, il principale organo di consumatori di quei miti della cultura pop? Oppure, si può associare Dada e orazione funebre: Tristan Tzara, Picabia, il primo Duchamp, in fin dei conti dichiaravano morto l’intero ordine esistente prima della Grande Guerra. Sembra qui prossimo il riferimento a un film vicino al movimento Dada, Entr’acte di René Clair, del 1924, e alla sua scena più famosa, ovvero un funerale dove gli astanti, tanti signori e signore altoborghesi, si mettono a correre dietro alla bara sul carro funebre che fugge via impazzito.
Rendere il mondo abitabile, incidere quindi nello spazio (politico, artistico), pensare un nuovo ordine a un mondo esistente, rovesciare quello in cui si vive. Il fatto è che l’ordine del mondo a noi contemporaneo ci sembra sempre caotico e inaccettabile. La propria epoca è sempre la più oscura finché se ne fa esperienza dal di dentro. Ogni contemporaneità è indecifrabile, perché del resto un sistema si vede bene solo dall’esterno, o col senno del poi. Cercare di mettervi ordine, renderlo quindi nuovamente abitabile, vivibile, come il manifesto (artistico, politico) spesso si propone di fare, in fin dei conti non è diverso dall’operazione che al cinema si compie col montaggio. Dare ordine, appunto, a un girato, magari anche caotico, a inquadrature, a scene, a sequenze, fornendo loro un proprio specifico linguaggio e, citando Ėjzenštejn, un senso.
Nel lavoro di Rosefeldt, a compiere il montaggio tra i vari film (oltre a quello già effettuato nei singoli episodi, dove Blanchett pronuncia, come discorso unico, porzioni di testo da più manifesti montati tra loro per affinità poetiche, concettuali, politiche) siamo noi stessi. Sta a noi rendere abitabile lo spazio dell’installazione, renderla effettivamente fruibile, vivibile. I tredici schermi occupano distinte porzioni della sala e i video relativi a ciascun manifesto vengono proiettatati in loop senza che si possa distinguere un inizio e una fine. Il fruitore, colto dallo spaesamento iniziale, vi si posiziona di fronte e a sua discrezione sceglie autonomamente il tempo di visione che egli stesso reputa funzionale alla propria costruzione di senso. L’installazione, insomma, ci chiede di essere fruita cinematograficamente, muovendoci e creando un nostro montaggio, concentrando l’attenzione volta per volta su uno schermo. E non è del tutto facile, né tantomeno intuibile dal percorso installativo, riuscire a orientarsi nel profluvio di parole dalle quali si è travolti una volta entrati nella sala. La totale, e strutturale, assenza di didascalie al di sotto dei singoli video non permette infatti una linearità della fruizione e la declamazione e ricezione del manifesto è per il pubblico disordinata e confusionaria. L’indistinto sonoro è ciò che ci sfida e ci chiama a farci montatori di un ordine che non c’è. Costruttori, in qualche modo, del nostro personale cinema, del nostro personale manifesto, delle condizioni per cui questo mondo, e questa opera, siano abitabili e vivibili.
Il punto di vista di Rosefeldt, articolato all’interno della rigorosa struttura dei manifesti, sembra rilanciare l’aspetto più critico e controverso dell’appropriazione o del rifiuto del potere della parola. Che questo metta in gioco poiesis estetica come praxis politica è già esplicitato nel prologo dell’opera (l’unico dei filmati senza Blanchett): nel primo schermo, sulle immagini di una miccia che brucia, l’esordio sonoro rimanda a un passo dal Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels. Nel prologo e in tutti e tredici i manifesti, la parola e la sua azione performativa sono interrogate attraverso la poliedrica e straordinaria prova di Cate Blanchett. Ora corpo veicolo di un’azione politica, ora automa immobile nell’interpretazione di undici diversi personaggi femminili e di uno maschile: un senzatetto, una broker, l’operaia di un impianto di incenerimento dei rifiuti, una CEO, una punk, una scienziata, l’oratrice a un funerale, una burattinaia, la madre di una famiglia conservatrice, una coreografa, una giornalista televisiva e un’insegnante. È significativo, a questo proposito, che i manifesti di cinema (dalle intuizioni di Stan Brakhage a Dogme95, alla Dichiarazione del Minnesota di Werner Herzog) si leggano in una scuola, a mo’ di istruzione che un’insegnante rivolge ai propri studenti: organicamente, il mezzo-cinema, la sua lingua, è l’abc in cui l’installazione Manifesto è scritta, e forma e contenuto della stessa.
Unico “richiamo all’ordine” imposto, anche al fruitore, sembrerebbe il momento in cui tutti e tredici i manifesti si armonizzano in una sorta di cantilena robotica. Il guardare in macchina dell’attrice, con lo sguardo perso a fissare il vuoto e solo in quel momento assente da sé, come se fosse un a parte nella scrittura filmica dell’inquadratura, sembra dunque dimostrare che al di là dell’inserimento nel presente di ciascun manifesto, esso cali dall’alto e venga introiettato con alienazione e totale assoggettamento. La parola, dunque, più che essere manifesto, si manifesta nell’azione performativa dell’attrice e nella fruizione del pubblico. Manifesto e manifestazione sono i poli interrogati da Rosefeldt e a noi resta insoluta e aperta l’ultima domanda: oggi quale tempo e quale azione per la parola?
Antonio Capocasale e Lucia Medri
Azienda Speciale Palaexpo, Roma – aprile 2019
MANIFESTO
Opera, scritta, diretta e prodotta da Julian Rosefeldt.
Commissionata da ACMI – Australian Centre for the Moving Image di Melbourne, l’Art Gallery of New South Wales di Sydney, dalla Nationalgalerie – Staatliche Museen zu Berlin e dallo Sprengel Museum di Hanover
Co-prodotta da Burger Collection Hong Kong e Ruhrtriennale
Realizzata grazie al generoso sostegno di Medienboard Berlin-Brandenburg
In cooperazione con Bayerischer Rundfunk.