Si è conclusa la sezione primaverile del festival La democrazia del corpo, la rassegna fiorentina diretta da Virgilio Sieni e dedicata alla danza. Una panoramica sul percorso e uno sguardo a Prélude à l’après-midi d’un faune e a Forme dell’amicizia.
È anche lungo una traccia mnestica, al contempo intima e collettiva, che è sembrata dipanarsi questa prima sezione del festival fiorentino La democrazia del corpo: oggetto ora di una rievocazione privata, ora di una sua sofisticata declinazione sotto forma di eredità, la memoria ha costituito uno dei sentieri sui quali il segmento primaverile dell’edizione 2019 ha condotto artisti e spettatori.
Diretta dal coreografo Virgilio Sieni, la rassegna ha come di consueto avuto in Cango il proprio centro propulsivo, a partire dal quale si è irradiata in città e ha abitato luoghi inediti del paesaggio performativo metropolitano: tra i quali P. I. A. – Palazzina Indiano Arte, lo spazio per l’arte contemporanea gestito dalla Compagnia Virgilio Sieni e che, insieme al PARC, sede della Fondazione Fabbrica Europa, sta contribuendo a ridefinire la zona delle Cascine come nuovo distretto culturale di Firenze.
Accanto alle proposte spettacolari, La democrazia del corpo è da sempre l’occasione di sperimentare pratiche pedagogiche: rivolti primariamente a danzatori e condotti dai protagonisti del festival, i laboratori – i cui esiti sono stati tradotti in creazioni site specific – hanno coinvolto altresì quel folto gruppo di amatori che negli anni ha trovato nell’Accademia sull’arte del gesto percorsi di apprendimento e formazione a loro dedicati. La compresenza di professionisti e semplici “cittadini” – a evidenziare, anche nella scelta lessicale utilizzata nei programmi della rassegna, quanto la partecipazione al processo artistico sia in questo caso un atto squisitamente civile – costituisce uno dei naturali strumenti di condivisione di un bagaglio emotivo e storico.
Proprio nelle due creazioni che hanno visto Sieni nel ruolo prima di coreografo puro, poi di co-ideatore e performer, l’atto del ricordare si è manifestato attraverso corpi differenti, plasmati dal lavoro coreutico o da una vita lontana dai palcoscenici; si è tradotto in rielaborazioni di classici della danza novecentesca; infine si è sciolto in un commosso inabissarsi autobiografico. È una memoria incarnata, politica: ha unito storie di vita spesso antitetiche, in un continuo rifrangersi e reciproco specchiarsi, traducendo in movimento un afflato comunitario. Lungi dal delimitare alla mera ricerca estetica o performativa il proprio campo di indagine, la danza vista ed esperita durante La democrazia del corpo è sembrata piuttosto animarsi di risvolti etici, finanche psicologici. La trasmissione della memoria, quell’instancabile donare all’altro frammenti di sé e proprie narrazioni, si è rivelata come collante interpersonale, azione fondativa di una società che nell’inesausto dialogo tra le età e i vissuti trova costantemente linfa: e la riflessione intergenerazionale – spesso originatasi a latere di un’analisi del mito, come in And It Burns, Burns, Burns di Simona Bertozzi e in Prélude à l’après-midi d’un faune di Sieni – ha assunto a tratti l’aspetto di uno struggente viaggio nel tempo.
Proprio Prélude – presentato come evento inaugurale del cartellone dopo il debutto dello scorso autunno al Saloncino Paolo Poli del Teatro della Pergola – costituisce in questo senso una summa delle istanze di indagine sulla memoria e la mitologia: nuclei tematici che Sieni edifica sì a partire da un confronto con il celebre balletto di Nijinsky, ma che qui rilucono di sfumature inedite. Non una riscrittura, né soltanto la nuova tappa di una pluriennale esplorazione dell’arte seminale dei Balletti Russi – che, soltanto negli ultimi anni, Sieni aveva già affrontato in Le Sacre e in Petruška – Prélude à l’après-midi d’un faune è adesso occasione di una meditazione sul rapporto tra le età, nella volontà di riscoprire quanto del fauno, e del suo primigenio vigore, il tempo celi e nasconda nei corpi.
L’artista fiorentino affida così a un organico inconsueto – due danzatori e due anziani cittadini – il compito di rievocare, per accenni e citazioni, l’originale coreografia del 1912, ma inscrive tali stilemi in una partitura affatto originale, all’interno della quale acquisiscono nuovi significati. Ecco così che le note di Claude Debussy risuonano ripetutamente, in un susseguirsi di quadri dove tuttavia il poemetto sinfonico accompagna ora Maya Oliva, ora il fauno interpretato da Andrea Palumbo, infine i due amatori Franco Bozzi e Otello Cecchi.
Già l’ingresso della pianista Giulia Contaldo, tuttavia, è oggetto di un approccio coreografico forse eccessivamente lezioso: l’incedere lentissimo della musicista accanto all’unica striscia di luce che illumina il tappeto danza, parallela alle due ali di pubblico che chiudono i lati più lunghi dello spazio scenico, è il primo di una serie di soluzioni gestuali improntate a quella bidimensionalità che Vaclav Nižinskij impose al balletto. È poi Maya Oliva, ninfa candida, ad aprire la creazione: il suo braccio appare dalle quinte nel silenzio, unico dettaglio anatomico a emergere dal nero. A svolgersi è una crescente epifania del corpo, un’anticipazione di quella progressiva conquista dello spazio che avrà il suo climax nel dischiudersi della musica. In piedi, al centro della scena, Oliva sviluppa una danza aurorale, nella quale la verticalità si frattura in brevi sequenze a terra e il movimento si staglia come da un bassorilievo: tra slanci e lunghe pause, nelle quali anche il respiro si fa latore di sensi, il solo è un rigoroso esercizio di espressione dell’interiorità, delle sue pieghe primordiali, della loro improvvisa scoperta.
Andrea Palumbo, indossando un lattiginoso costume caprino, il torace e i capelli imbiancati dal talco, dà vita a una danza complementare a quella di Oliva: dove non c’è più spazio per il desiderio ferino, per quell’erotismo primordiale che scandalizzò il pubblico parigino, bensì per un’intimista indagine sull’io. Palumbo accosta alla bidimensionalità sequenze di floor work: la schiena si inarca, la testa si capovolge mentre gli occhi continuano a fissarci, a contemplare quel pubblico chiamato ad assistere al risveglio di un animale che tanto ci somiglia; il frammento successivo, danzato con Oliva, rifiuta qualsiasi indugio dialogico, qualsiasi mera coabitazione dello spazio, per sciogliersi invece in una gestualità speculare e condivisa, nella quale le braccia tendono verso un orizzonte vicino, e le frequenti pause interrompono l’esplosivo lavoro sulle articolazioni. È un duetto che preannuncia il quadro conclusivo, affidato ai “cittadini” Franco Bozzi e Otello Cecchi.
I due, in pantaloni di uso quotidiano, giacca e camicia, entrano in scena recando sulle spalle una colonna dorica, traccia archeologica di un’umanità originaria, di un sé stessi obliato e tuttavia ancora riconoscibile: anche le loro braccia si tendono verso il pubblico, le pause e gli sguardi si fanno contemplativi e interrogano gli osservatori su quel tempo che separa il fauno dall’uomo civilizzato, la giovinezza dalla vecchiaia, il ricordo dal rimpianto.
Di ricordi, d’altra parte, si nutre Forme dell’amicizia, il piccolo, struggente dono che Sieni e Alessandro Certini hanno offerto a un pubblico numeroso e commosso, unito da una gioia nostalgica: quella per un lontano 1989, anno del debutto di un lavoro fondamentale per la coreografia italiana di fine Novecento. Duetto. L’importanza della trasmigrazione degli ultimi sciamani – riallestito nel 2011 da Fattoria Vittadini, nell’ambito del progetto RIC.CI – Reconstruction Italian Contemporary Choreography anni ‘80/’90 – vedeva in scena questi due futuri protagonisti della scena nazionale: il primo fondatore insieme a Julie Ann Anzilotti e a Roberta Gelpi della compagnia Parco Butterfly nel 1983; il secondo anima, insieme a Charlotte Zerbey, di Company Blu, sorta in quello stesso ’89.
E tuttavia a danzare Duetto erano soprattutto due amici, due uomini che avevano condiviso euforie, dubbi, progetti. Trent’anni, quasi una vita separa l’oggi da quell’epoca, al punto che riannodare i fili della memoria, sbrogliarne le matasse sul palco di Cango, assomiglia piuttosto a un inizio assoluto, a una prima volta nella quale corpi e anime sconosciute tentano di avvicinarsi.
Il risultato è di conseguenza irripetibile, destinato all’unicità e a una coessenziale impermanenza: non una coreografia, quanto un naturale, umanissimo improvvisare e sperimentare posture, un agire e un reagire ai gesti e ai pensieri dell’altro. Forme dell’amicizia è un racconto che Certini e Sieni narrano primariamente a sé stessi, nella volontà di recuperare l’entusiasmo del proprio ultimo incontro sulle scene e al contempo di stilare una cronaca del tempo trascorso, fianco a fianco oppure distanti.
Il pubblico non osserva né contempla: piuttosto spia un atto privato di cristallina bellezza, il collidere momentaneo e felice di due percorsi. Sono due sedie vuote, di foggia diversa e medesimo colore scuro, ad annunciare agli spettatori una prossima compresenza, un medesimo fronteggiare la platea e forse la vita stessa; in pantaloni e t-shirt nera, i due entrano in scena nel silenzio, si accomodano replicando i gesti, cercando di sincronizzare il ritmo del respiro. Il movimento si origina dalle mani, dalle braccia, dalle dita: un’esplorazione tattile dello spazio, che gli artisti compiono in autonomia, consapevoli della presenza altrui e tuttavia indipendenti.
Gli sguardi sono una scoperta successiva, così come i contatti: ora in piedi, ora l’uno al posto dell’altro, Certini e Sieni si prendono le mani, con la dolcezza e la curiosità che tanto accomuna l’amicizia a una forma dell’amore. Abitano quello spazio intermedio che li divide e tuttavia li tiene in relazione, e a dispiegarsi è una palette emozionale che giustappone la rabbia e il desiderio, la competizione e il gioco.
L’ironia colora le movenze: un umorismo che non è mai distacco ma profondissima empatia, l’umile consapevolezza delle storie che, sopra i palcoscenici e lontano dai teatri, i due uomini hanno attraversato. Risate strozzate e colpi di tosse sfumano la progressiva conquista dello spazio, lo spingersi a terra e il sostenersi, il correre verso direzioni opposte e l’incrociarsi: di nuovo, ancora, ognuno con la propria cifra e il proprio linguaggio, ognuno con la volontà di apprendere i segreti dell’altro. Il disegno luci divide in sezioni la creazione, il buio separa sequenze energiche da frammenti essenziali, astratti, nei quali anche fonazioni animalesche, urla e strepiti traducono l’inconoscibile mistero degli affetti. «Chiudiamo, no?», chiede Certini, ma Sieni risponde con un movimento, un nuovo gesto, e l’«Adesso chiudiamo» arriverà dopo altri episodi e altre vicende, altre lotte e altre distanze: per allontanare, ancora un poco, l’abbraccio del saluto, e confidare all’amico di sempre, ancora un poco, ciò che si è, ciò che siamo stati.
Alessandro Iachino
Cango, Firenze – marzo / aprile 2019
PRÉLUDE À L’APRÈS-MIDI D’UN FAUNE
di Virgilio Sieni
musica Claude Debussy, Prélude à l’après-midi d’un faune
eseguita dal vivo da Giulia Contaldo (pianoforte)
interpreti Maya Oliva e Andrea Palumbo – Compagnia Virgilio Sieni
e con la partecipazione di Franco Bozzi e Otello Cecchi – Accademia sull’arte del gesto
costumi Laboratorio d’Arte del Teatro della Pergola
luci Mattia Bagnoli
produzione Fondazione Teatro della Toscana, Compagnia Virgilio Sieni
FORME DELL’AMICIZIA
di e con Alessandro Certini e Virgilio Sieni
produzione Company Blu