Siamo stati a visitare la Venticinquestima Piattaforma di Danza Ceca a Praga. Un viaggio vorticoso tra nuovi linguaggi e omaggi ai grandi del passato.
Quando si pensa a Praga l’unico nome di coreografo che di norma balza alla mente è quello del settantaduenne e ultra-titolato Jiří Kylián, appena eletto nuovo membro dell’Academie des Beaux Arts, dove si è installato con una cerimonia solenne e gioiosa sotto la Coupole dell’Institut de France, a Parigi. Sembrerebbe che lo stile e la poetica del noto artista abbiano ben poco a che fare con l’effervescente scena della danza contemporanea della sua amata città. Invece, linguaggio a parte, nei quindici spettacoli che abbiamo assorbito con stupita voracità durante il giubileo della 25esima edizione della Czech Dance Platform (1-4 aprile) sono emersi a sorpresa tratti comuni a Kylián. Ad esempio l’umorismo mai fine a se stesso, bensì pensoso, intelligente; l’utilizzo di oggetti e di scenografie spesso ‘parlanti’ e una certa propensione, a non lasciare mai in sospeso un assunto espressivo.
Due pièce umoristiche, in parte o in toto, sono a esempio capitate sotto le interminabili e concitate grinfie teoriche di una variegata giuria internazionale di esperti (affiancata al voto degli spettatori per le menzioni finali), e hanno ottenuto il maggior pauso. Si tratta di PLI, un assolo con 21 sedie tra danza, circo e performance di Viktor Černický – già ospitato in residenza a OperaEstateFestival Veneto l’anno scorso, e ora in cartellone ad agosto – e del duetto femminile Same Same ispirato a Buster Keaton – diretto subito a un festival russo, ma di certo non ignorato dagli organizzatori italiani specialmente per la presenza di Tereza Ondrová, una delle interprete ceche più creative.
PLI vede su di un tappeto bianco latte lo stralunato (ma solo nel volto) Viktor Černický, in pantaloni neri e giacca bianca ricamata. Con matematico rigore dei piedi, che battono il suolo senza posa come in un composto tip tap, Viktor sistema sedie nere in diagonale, in verticale, alzandole e piegandole in gruppo, come presenze e assenze in un tempo-spazio ipoteticamente annullato. Per questo suo gioco metafisico pare si sia ispirato dapprima alla famosa trilogia fiabesca di Italo Calvino (il confine tra fiction e non fiction) per poi finire tra le braccia di Gilles Deleuze e della sua interpretazione dell’epoca barocca secondo il matematico e filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz.
Tra l’altro PLI ruba il titolo a Le Pli (La piega), incantevole testo deleuziano in cui l’oggetto si trasforma concettualmente in “oggettile”. Questo accade alle sedie di Černický, trasformate in oggetti percepibili in modi e angolature sempre diverse, in perenne trasformazione, sino a che con un atto funambolico, il loro perspicace manovratore – che solo una volta concede il suo sguardo al pubblico – non le impila creando una curva, una piega (nella costruzione del suo/nostro universo) che vorrebbe scalare ma non può, o finge di non saperlo fare, dopo tensioni, caos, tra sedie accatastate e inestricabili e una, la ventunesima, che scappa fuori perché nulla mai è perfetto.
La compiutezza e la profondità dell’assolo e del suo autore – piuttosto simile all’indimenticato Xavier Le Roi prima maniera, per l’umile minimalismo e lo spessore culturale – è davvero encomiabile: meriterebbe ben più di questa scarna chiosa. Facile descrivere, invece, l’umorismo freddo di Same Same: due segretarie, in tailleur e tacchi neri – una sgraziata e servile, l’altra segaligna, occhialuta e burbera – espongono a ritmo battente superiorità e inferiorità in una serie di azioni danzate, soprattutto dalla portentosa Tereza, srotolate a precipizio dalla razionalità all’assurdo. Nell’esplosione finale e dopo l’uso di oggetti quotidiani di vario tipo trasformati in altro (tavoli, cartelle, cuscini, scale), le due, cavalcando una bicicletta che non c’è, si ritrovano esposte, come in un palindromo entro uno specchio distorto, a cedere ai propri istinti primari e animaleschi.
Curioso il fatto che la segretaria servile, sempre affannata e negletta, sia in realtà una regista e che lo spettacolo rechi la firma coreografica della franco-belga Karine Ponties, affiancata al drammaturgo Guillaume Toussaint Fromentin, pure belga. Simili commistioni non sono inusuali nella nuova danza ceca (e in parte in quella slovacca): cinque pièce di diversa caratura anche teatrale – ricordiamo che Praga è la capitale della Lanterna Magica e del Teatro al Nero – sono state allestite da scenografi, musicisti, artisti visivi e digitali diventati coreografi o co-coreografi.
È il caso di Medùza di Marie Gourdain, anzitutto visual artist dal background francese. Il suo spettacolo trae titolo e ispirazione dalla Zattera della Medusa di Théodore Géricault, con cinque performer indaffarati a comporre pannelli come luoghi di salvezza in un mondo che si immagina assatanato e pericoloso. Pur restandovi abbarbicati sopra con movimenti che non evitano la Conctact Dance, non basta la musica di Bach a sedare la paura, né le urla mute e disperate, né il braccio alzato dell’unica, graziosa, naufraga femminile, né le mani protese, nel finale, verso il pubblico.
La salvezza è speranza lontana; invece non se ne percepisce neppure l’ombra nel concitato e ultra ribelle Refuge del gruppo Farm in the Cave il cui scopo è quello di infrangere le barriere tra musicisti, cantanti e danzatori.
Qui siamo idealmente in un bunker, tra l’atro tecnicamente attrezzatissimo di luci e altoparlanti come la maggior parte degli invidiabili spazi praghesi per le performing arts. C’è una gran rabbia condivisa dal piccolo ensemble musicale che dapprima suona la prima aria delle Goldberg Variationen di Bach e poi altre musiche compreso il jazz, tutte sgretolate tra urla concitate e intermezzi mitigati da una cantante in lungo abito nero.
Il formalismo del comparto musicale cozza, nell’immagine, con i danzatori anche asiatici: a terra si muovano con forza leonina, ma gli strumentisti scendono pure loro in campo per condividere, con tromba, trombone, clarinetto e parole, una lotta qui ispirata ad alcune interviste raccolte a Londra, tra giovani border-line e senzatetto, mentre l’intera pièce è dedicata «agli amici del Tibet». Nel finale il gruppo, già noto nel mondo, rievoca pure Jan Palach, tramviere e patriota che proprio a Praga si diede fuoco nel 1969, diventando simbolo (dimenticato) della resistenza anti-sovietica del proprio Paese. Uno dei tre bravissimi ed energici danzatori, in piedi sopra un pianoforte si concentra nell’atto di cospargersi di acqua/pseudo benzina.
Non meno politica perché ecologista la pièce intitolata Assemblage della slovacca Martina Hajdyla Lacová e della scenografa Zuzana Sceranková. Disseminata di tronchi spezzati, enormi bozzoli appesi, pietre, ampi drappi militari e mimetici, cappelli da David Croquette, impiega sei danzatrici semi professioniste, in parte slovacche, nella concitata impresa di ricreare il mondo stendendo sopra ogni cosa un lungo drappo argentato. Assemblage può essere ricordata per la parte musicale, affidata dal vivo ad una vocalist flautista dal piffero ritorto, che crea un variegato mondo tra cinguettii, ritmi folk e klezmer, scatenamenti di tempeste, uragani e guerre.
La fantasia è un dono nella danza contemporanea ceca. Ne danno prova le tre coreografe interpreti quasi accademiche, ma non solo, di Costellations II. Time for Sharing, uno strano lavoro della loro Spitfire Company guidata dal regista e scenografo Petr Boháč, che qui ha allestito uno spazio tondo puntellato da frecce che spesso feriscono le interpreti, oppure, messe sotto le loro gonne, le incitano a danzare il tango. Eppure l’assetto potrebbe essere quello di un’ennesima Sagra della primavera, o di un rito al femminile in cui di tanto in tanto si scuote il batacchio di un campana posta sopra una scala. Qui giace a lungo una delle tre interpreti vestita di rosso: l’ipotetica Eletta, tra compagne in svelti abiti fioriti. Il tempo è possibile protagonista di questa pièce (menzionata per l’uso delle luci) – dove si vola avanti e indietro, tra memoria, presente e una misteriosa magia -, stringe le tre danzatrici performer lasciando al pubblico il compito di leggere ciò che più gli aggrada.
Pure Everywhen, elegante performance multidisciplinare, è opera tutta al femminile, creata da un collettivo slovacco composto dalla performer Sona Ferienčikova, da Mária Jùdova, artista visiva e digitale e Alexandra Timpau, responsabile rumena del suono. Almeno quattro enormi schermi proiettano immagini (personali e non) di Sonia, che per tutta la durata della pièce ruota in lungo abito grigio e attillato come un derviscio, ma su musica siderale. L’idea è un continuo uscire ed entrare in sé tra immagini d’infanzia, idoli indiani, scenari di guerra e bianche forme di sculture anonime, tutte precedute dal ruotare dell’interno di un ingranaggio simile a quello di un’enorme campana. Gli assoli proposti all’effervescente Czech Dance Platform procedono comunque in direzioni disparate.
Degno di nota (e infatti menzionato) è Don’t Stop di e con Tereza Hradilková, eccellente coreografa e danzatrice dal segno rabbioso e morbido, dal linguaggio sempre sulle punte scalze dei piedi, originale per come scuote mollemente il corpo allenato anche in Olanda e a New York. Tereza usa l’ampio spazio a disposizione e si collega con la musica dalla quale trae la sua silenziosa passionalità e il suo minimale (è in mutande e maglietta) sex-appeal. La curiosa idea iniziale della sua pièce è proprio controllare la musica, sostituirsi a un ipotetico direttore d’orchestra, rifiutare le sue indicazioni sia che la musica sia varia, sia che si tratti di una desueta opera di Vivaldi (in questo caso l’Arsilda, regina di Ponto). Quando parte l’aria più famosa di questa creazione del 1716, rivisitata per la danzatrice dal dramaturg Lukáš Jiřička, la danzatrice si ritira in un angolo e inizia a sbucciare e poi a mangiare mandarini.
È un rifiuto all’azione, ma anche il tentativo di restituire quelle pause morte e di relax che strumentisti e direttori si concedono durante le prove. Lei non ascolta sino a che il canto non sparisce e la lotta continua tra accettazione e rifiuto, con gesti appunto da direttore d’orchestra, cadute in ginocchio, dinieghi col capo e un lasciarsi trascinar via bellissimo come se la musica, o la vita, la portasse con sé, prima di una caduta dalla quale si rialza e se ne va.
Due altri assoli del già noto, anche in Italia, Martin Talaga, Faunus (giunto alla 27esima versione) e Soma (35 edizioni: la successiva sarà al Festival Oriente Occidente di Rovereto quest’anno), entrambi già premiati nell’edizione 2018 del festival ceco, sono stati presentati nel magnifico spazio della nuova Galleria d’Arte Contemporanea di Praga. In Faunus lo stesso Talaga si abbarbica nudo sopra un enorme tronco d’albero spezzato dalle forme di corna di cervo, e con altri rami d’arbusto raccolti da terra e branditi con gioiosa maestria, espone la sua bravura tecnica e performativa non priva, sulla musica dell’Après-midi-d’un Faune di Claude Debussy, di un compiacimento forse eccessivo. Lo stesso che ravvisiamo nella parte finale del suo Soma.
L’inizio della pièce è folgorante e in esso si esprime compiutamente il significato psicologico del termine “soma” come percezione interiore del proprio corpo e si adombra l’idea di un corpo personale. Infatti due performer rannicchiati di spalle al pubblico, le schiene nude, un segno azzurro sul braccio, restano a lungo quasi immoti, ma poi poco alla volta, ciascuno a proprio modo, muovono le mani poste sotto il sedere, le discostano dal busto e aprono le braccia e infine le gambe quasi a ragno ricordando il Butoh, tendenza di ritorno in danza e teatro fisico, sino a raggiungere una posizione quasi eretta.
Un terzo performer rotola in scena coperto a metà da una blusa nera; mostrerà un paio di gambe in plastica che raddoppieranno prima le gambe vere, poi le braccia. La musica scivola dal techno al Bel Danubio Blu e s’inerpica sui Carmina Burana all’uscita di uno dei performer con in testa un cubo bianco, entro al quale si rannicchierà sino a far emergere il capo fulvo e il volto barbuto. Dopo essersi liberato di braccia e/o gambe finte anche l’uomo senza volto si concede a una sfilata modaiola e sensuale in proscenio. Così i tre si rivelano bellimbusti nella maniera più edulcorata e nota ma forse il “soma” ritorna in circolo, nel finale, con la sua urgenza d’intimità – quando uno dei tre si pone sopra il cubo a testa in giù e gambe all’aria per poi rannicchiarsi su quella piccola e bianca dimora.
Infine, nell’inaspettata varietà di questa 25esima Piattaforma della Danza ceca, si potrebbe accostare l’assolo Fly di Markéta Stránska – performer, coreografa e fisioterapista disabile – con Soma.
Gli intenti espressivi sembrano simili, ma la solista che affascina all’inizio per come sta immobile eppure vibrante davanti a una grande pietra pendente dall’alto che gira, ha davvero una gamba sola e quando la pietra cessa di girare, lei scopre la sua protesi scatenandosi in una forsennata danza pop. Markéta ha già lavorato anche con i londinesi Candoco, e forse pure da loro ha appreso quel motto del “si può fare” in lei spinto sino all’inverosimile. Tanto che non ci accorgiamo delle sue due stampelle poste a terra se non quando ne fa uso e lo scatenamento raddoppia in salti e capriole. Poi la luce si fa fioca, cala il silenzio. Markéta (pure menzionata dai giurati per la sua vitalità) cade a terra e si rattrappisce, rotola su se stessa. Sembra priva di forze; invece torna a danzare con la sua sola gamba e la sua protesi a vista mentre la pietra, nella luce, s’è fatta d’argento.
Chapeau, nell’insieme, all’organizzazione, alla professionalità, alla passione nell’affiancare gli artisti e nello svelarne metodi, teorie, contaminazioni e segreti, della danza ceca.
Marinella Guatterini
Bellissimo pezzo. Pieno di spunti di riflessione per il panorama italiano, assolutamente incancrenito da un astrattismo dilagante e vuoto di propositi costipati di autocompiacimento. Ci sono davvero lavori come questi in giro? Qui da noi si vede poco di tutto ciò, e me ne dispiace. Ma se si può fare a Praga, perchè non anche a Milano?