The Night Writer, ultimo spettacolo di Jan Fabre interpretato da Lino Musella, sta attraversando l’Italia. In questo articolo offriamo una recensione, contestualizzata nelle recenti accuse di molestie sessuali rivolte al regista fiammingo.
È con un ritardo piuttosto significativo che i precipitati etici, politici ed estetici del movimento #metoo si sono resi evidenti anche in ambito teatrale: o forse il differimento ha coinvolto soltanto la scena italiana. Da quell’ottobre 2017 del reportage di Ronan Farrow su The New Yorker e dell’arresto di Harvey Weinstein all’oggi delle manifestazioni che hanno colorato Verona e Milano – e che hanno gioiosamente preso di mira un monumento a Indro Montanelli – la nuova ondata transfemminista, internazionale e interculturale, ha attraversato diverse fasi, si è tradotta secondo differenti formulazioni e articolata su fronti specifici, ha conosciuto taluni eccessi e alcuni tentativi di backlash. E a svolgere una veloce ricerca sul Web, che comprenda così solo alcune delle testate e degli autori che hanno cercato di sistematizzare la vastità delle questioni poste all’attenzione dalla cronaca e dalla riflessione socioculturale, appare evidente come l’attuale dibattito in corso su The Night Writer – la creazione di Jan Fabre e impegnata in una corposa tournée nazionale – contenga in nuce molti degli aspetti già affrontati nell’ambiente cinematografico, letterario, artistico.
La volontà di spostare l’attenzione verso il processo creativo – o piuttosto la necessità di compiere una tale torsione – così come l’indagine sui suoi metodi di racconto e di analisi, sono infatti emerse con crescente furore intorno a Woody Allen e Bernardo Bertolucci, Louis C.K. e Roman Polanski, fino a coinvolgere Jonathan Franzen e un inconsapevole Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. Ed è rilevante come la discussione e le prese di posizione, tuttavia, tocchino soltanto in maniera marginale il fatto spettacolare: quell’ora e mezza di tempo sospeso in cui Lino Musella interpreta alcune pagine tratte dai diari di Fabre stesso, raccolti nei tre volumi del Giornale notturno editi in Italia da Cronopio.
Più che la nuova creazione del pluripremiato regista e coreografo – invero piuttosto tradizionale se confrontata ad altri suoi celebri, e a volte osteggiati, lavori – ad agitare la comunità teatrale nazionale è una supposta ambiguità di alcuni sguardi critici nel processo di osservazione e restituzione dello spettacolo, così come una sotterranea volontà di rinegoziare secondo un approccio squisitamente etico il legame che intercorre tra l’artista, la sua biografia, le sue modalità di lavoro e l’esito del percorso ideativo e produttivo.
Con un corposo post pubblicato su Facebook, l’artista Leonardo Delogu (che con Valerio Sirna è ideatore di DOM-) ha duramente biasimato l’entusiastica recensione a The Night Writer firmata da Andrea Porcheddu per Gli Stati Generali, rea – secondo il performer – di non contenere neppure un accenno alle accuse di molestie sessuali mosse nei confronti del regista belga da un folto gruppo di performer della compagnia Troubleyn, e sulle quali è stata pubblicata da Teatro e Critica la densa testimonianza di Ilse Ghekiere, fondatrice del movimento Engagement. Nel post – di fatto un’intensa e commossa lettera aperta che chiama a raccolta colleghi, critici e operatori – Delogu rivendica la necessità di non scindere il valore dell’opera d’arte dalle caratteristiche del percorso creativo, invita a una pratica osservativa che dilaghi da una prospettiva politica che sappia oltrepassare l’oggetto osservato, infine indica nell’atteggiamento di Porcheddu il sintomo di una maschilità che conferma le strutture di potere anziché contribuire a decostruirle.
Ciò che sembra delinearsi, nell’antiteticità delle posizioni, è uno stratificato dialogo che coinvolge questioni filosofiche, etiche, ma anche prettamente giornalistiche e logico-argomentative. Nelle affermazioni di Delogu, infatti, sembra essere implicita una peculiare struttura sillogistica: per la quale il silenzio dello studioso sulle modalità di creazione sia necessariamente un sintomo inequivocabile di adesione alle stesse, una lettera scarlatta di vergognosa complicità, secondo il vecchio adagio per il quale qualsiasi epochè, qualsiasi “sospensione del giudizio”, è in quanto tale omertosa, il tacito assenso a un sistema di dominio. Eppure il ricordare ai lettori lo scandalo che ha investito il mondo della danza belga ed europea, e il rammentare i comportamenti inaccettabili dei quali è accusato Fabre, non sembrano una sufficiente garanzia di quella «disidentificazione con la mascolinità necropolitica» individuata da Paul B. Preciado e citata da Delogu: sulla cui imprescindibile urgenza c’è o ci dovrebbe essere unanime accordo.
Quanto Porcheddu tralascia non è però soltanto un fatto di cronaca, epocale almeno per l’assopita quotidianità teatrale e in quanto tale, forse, elemento rilevante in qualsiasi articolo che voglia essere un attraversamento di The Night Writer. L’omissione – Delogu si chiede se sia volontaria – chiama infatti in causa, ancora una volta, l’inesausta questione dei rapporti tra artista e creazione, tra opera e biografia: in ultima istanza tra etica ed estetica. Il vulnus di uno sguardo cieco al tema – ma anche i rischi di un orientamento apodittico e focalizzato soltanto su di esso – sembrano essere quelli di non affrontare le annose problematiche che intercorrono tra la statura etica di un uomo e il giudizio sul suo operato artistico o teoretico, che hanno attraversato tutto il Novecento – come conciliare la grandezza di Essere e tempo con l’adesione al nazionalsocialismo di Martin Heidegger? come avvicinarsi alla vertiginosa esperienza della lettura di Viaggio al termine della notte, se Céline firmò anche Bagattelle per un massacro, violento pamphlet antisemita? – e che sembrano riemergere adesso con particolare virulenza.
È qui che Caravaggio entra in gioco per bocca di Jonathan Franzen: in un’intervista pubblicata agli albori del movimento #metoo, l’autore de Le correzioni e di Libertà, sapendo che l’artista uccise un uomo durante una rissa, ha confessato il proprio disagio di fonte alle opere del Merisi. Letizia Muratori, in un commento pubblicato su Rivista Studio, fa emergere con fulminante sagacia le aporie del «metodo Franzen», quella tendenza per la quale si giudica un’opera «a partire dalla buona condotta del suo autore», e tuttavia invita a rifuggire qualsiasi «pigrizia liquidatoria», tracciando una «terza possibilità» di sguardo, una prospettiva ulteriore dalla quale esaminare quell’oggetto d’arte così eticamente, e oggi anche politicamente, connotato. Ciò che Muratori, con essenzialità giornalistica, cerca di delineare, è di fatto un esercizio di complessità: una pratica critica che non schiaccia il giudizio dell’opera sull’etica dell’artista, non impone all’osservatore di valutare preliminarmente la moralità del processo creativo, ma che ciò nonostante accetta di confrontarsi con l’esperienza estetica e finanche con i rischi a essa connessi, forte di una consapevolezza che non influenza la valutazione ma che la affianca, la arricchisce, la completa.
The Night Writer, in questo senso, si pone come possibile case study di una simile angolazione, proprio per la sua natura prettamente autobiografica e per la fitta rete di censure e di affabulazioni che, coessenzialmente, contraddistingue qualsiasi forma di auto-narrazione. I testi portati in scena – per noi sull palco del Teatro Fabbrichino di Prato – coprono un arco di tempo della vita del regista belga che dal 1978 giunge, sotto forma di confessione, sino agli anni Novanta, accanto a brani tratti da alcuni dei suoi più celebri spettacoli, da La reincarnazione di Dio del 1976 a Drugs Kept Me Alive del 2012. Questo collage drammaturgico – curato da Miet Martens e Sigrid Bousset, nella traduzione di Franco Paris – offre uno specchio all’autore, ma di esso lascia intravedere un’immagine disturbante, ancipite e vagamente morbosa, dove i segni della genialità si confondono con quelli di un maledettismo compiaciuto. In un precario equilibrio tra autoassoluzione e disvelamento, tra reticenze e onestà, Fabre tratteggia un nucleo familiare difficile quanto affascinante, degno di «una tragedia greca»: due genitori dalle burrascose dinamiche di coppia, una nonna fonte d’ispirazione per via delle sue intemperanze, l’amatissimo fratello morto.
Egli offre poi una testimonianza delle prime performance, riflette sull’essenza stessa dell’arte fino a teorizzarne uno statuto che, alla luce della cronaca, appare pericolosamente enigmatico: «ogni vera bellezza è scomoda». «Io sono un errore / Perché voglio essere un errore / Io sono un errore / Perché non sono un essere umano / Io sono un errore / Perché sono un dio»: è un autoritratto che, percepito nella sua immediatezza primaria, appare narcisista e irrisolto, colorato tuttavia nella messinscena di sfumature ironiche, forse compassionevoli. È solo, Lino Musella, seduto di fronte a una scrivania in cristallo posta al centro di una distesa di sale sulla quale trovano spazio soltanto i fogli del testo e pochi oggetti, a suggellare un’alterità assoluta, un’irriducibile estraneità dell’artista dal mondo, vittima del suo stesso ardore creativo, schiacciato da esso.
Sequestrato da quel febbrile sfogo teorico e intimo, Musella non si alzerà per più di un’ora: bloccato in una postura che sembra stridere con l’intensità del dettato, l’attore si fa cassa di risonanza di parole ostiche, affidando alle vibrazioni delle mani e dei piedi, alle improvvise rigidità delle braccia, all’esplosione della voce il compito di tradurre un denudarsi dell’anima che sembra inchiodarlo, legarlo, possederlo.
Ciò a cui assistiamo è l’impressionante esito di un processo di menschwerdung, di incarnazione della psiche di Fabre nelle fibre di Musella, e al contempo una sua rifrazione, tale da spezzare qualsiasi mera identificazione in un più complesso scambio tra regista e performer, tra il sé autopercepito e quello agito sulla scena: tra autobiografia e autofiction, verità e sua espressione. L’attore si modella i capelli a formare due piccola corna, come quelle che ornano gli autoritratti scultorei che Fabre ha composto nella serie Chapters I-XVIII, ma contempla anche, divertito, quella marionetta con le fattezze di Fabre che per pochi istanti appare al lato del palscoscenico. The Night Writer è così una prismatica riverberazione delle connessioni tra artista, performer, opera d’arte, osservatore: è allo spettatore che Musella si rivolge, invitandolo ad accompagnarlo nell’interpretazione di Amandoti dei CCCP o di Volare di Modugno, due intermezzi canori che fratturano con sarcasmo la parossistica intensità della creazione (o forse, nel caso di My Way cantata da Frank Sinatra, con gongolante autoindulgenza).
Come un’impetuosa mise en abyme, Fabre sembra interrogare con questa creazione – frutto di un grande impegno produttivo, che vede coinvolti, oltre a Troubleyn e Aldo Grompone D.I., FOG Triennale Milano Performing Arts, LuganoInScena-LAC, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, Marche Teatro, Teatro Stabile del Veneto – quelle stesse posture sulle quali, oggi, sembra svolgersi la querelle tra Porcheddu e Delogu. Sul fondale posto alle spalle di Musella scorrono come aforismi le battute più significative del testo, intervallate da alcune sequenze della registrazione video – in bianco, nero e accenni di blu – di una performance che Fabre realizzò ad Anversa negli anni Ottanta. Continuamente interrotto, impossibilitato a giungere alla sua conclusione dal flusso di coscienza al quale Musella dà voce, il film sembra costituire l’origine, il nucleo germinativo di un percorso artistico che – come il fiume sul quale l’azione scenica ebbe luogo – The Night Writer cerca di risalire, sfidando lo scorrere del tempo e le mistificazioni della memoria.
È un fronteggiare la corrente che avrà termine soltanto alla fine dello spettacolo, quando allo spettatore, memore del conradiano viaggio di Charles Marlow nel Congo di Leopoldo II del Belgio, sembra forse aprirsi allo sguardo, «oltre la tranquilla via d’acqua che conduceva agli estremi confini della terra (…) il cuore di un’immensa tenebra».
Alessandro Iachino
Teatro Fabbrichino, Prato – marzo 2019
THE NIGHT WRITER
testo, scene e regia Jan Fabre
traduzione Franco Paris
con Lino Musella
musica Stef Kamil Carlens
drammaturgia Miet Martens e Sigrid Bousset
produzione Troubleyn / Jan Fabre, Aldo Grompone, FOG Triennale Milano Performing Arts, LuganoInScena-LAC, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, Marche Teatro, Teatro Stabile del Veneto
prossime date
8-9 aprile 2019 LUGANO Teatro LAC
11-14 aprile 2019 TORINO Teatro Astra
16 aprile 2019 CARRARA Teatro Sala Garibaldi
18 aprile 2019 NAPOLI Teatro Politeama
27 settembre 2019 POTENZA Teatro Francesco Stabile
23-26 gennaio 2020 VENEZIA Teatro Goldoni
28 genn.-1 febb. 2020 PADOVA Teatro Verdi