Intervista a Sista Bramini, attrice, regista e fondatrice della compagnia O Thiasos, impegnata in progetti spettacolari e laboratoriali a stretto contatto con la natura. Contenuto in media partnership.
Dall’incontro con Grotowski durante il Teatro delle Sorgenti fino agli incontri legati al pensiero ecologico; da una riflessione sulla figura della donna nella drammaturgia contemporanea fino al rapporto dell’attore nello spazio. Nel 1992 nasce un progetto teatrale e formativo originale, TeatroNatura, con spettacoli e laboratori site specific in contesti naturali, tutt’ora attivi. Incontriamo le parole di Sista Bramini, attrice, regista e fondatrice della compagnia O Thiasos.
In occasione dei vostri primi venti anni, hai definito il momento fondativo della vostra compagnia O Thiasos, e dunque del tipo di teatro che portate avanti, il “TeatroNatura”, come «una possibile conversione ecologica all’arte teatrale», qual è stata la spinta che vi ha mosso e come si è trasformata nel tempo?
Il tutto nacque quando frequentavo l’Università. Al Centro Teatro Ateneo della Sapienza, quando era direttore Ferruccio Marotti – un’epoca gloriosa – erano state invitate moltissime personalità del teatro, l’università era aperta, anche la società civile veniva ad ascoltare questi maestri, tra cui anche Jerzy Grotowski. A quell’epoca lui era nella fase del Teatro delle Sorgenti, per mezzo della quale provocava l’ambiente del teatro con un progetto che si svolgeva all’aperto. Nel fare quest’esperienza concreta – stando nel bosco la notte, camminando, stando in silenzio a lungo, per dei giorni – siamo approdati a una relazione con la natura molto forte.
Una seconda occasione molto importante è avvenuta durante le attività della Casa Laboratorio di Cenci, che è tuttora un punto di riferimento innovativo importante per quanto riguarda l’educazione ecologica; con me c’era Franco Lorenzoni, l’abbiamo fondata insieme. Per un lungo periodo ci siamo trovati in questo luogo in Umbria, in mezzo alla natura, molto giovani, selvaggi, ispirati da Grotowski… Poi sono sopraggiunti i progetti educativi, ho incontrato tanti ragazzi e insegnanti. Ma per me era più stringente dedicarmi a un progetto più artistico e ho dovuto fare un po’ per conto mio, così coinvolsi Francesca Ferri e Maria Mazzei nel 1992 e nacque la compagnia O Thiasos.
Questo progetto poi è stato aiutato, tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, da una serie di discorsi importanti svolti all’interno dei cicli di incontri chiamati “La fiera delle utopie concrete”, su idea di alcuni ecologisti di livello molto alto come Ivan Illich, Wolfgang Sachs, Alex Langer.
All’interno di questi contesti ho iniziato a proporre i miei spettacoli immersi nel verde, c’era un bel fermento nei parchi, ho pensato che avrebbero accolto l’idea di poter immettere l’arte teatrale dentro la natura, naturalmente con i criteri adatti, cioè senza impatto ambientale, senza luci, senza amplificazioni, con grande attenzione e in rispetto del silenzio, mettendosi in una dimensione più ricettiva dalla quale poi sarebbe partito l’aspetto creativo. Purtroppo il loro iniziale interesse è andato spegnendosi.
Il vostro approccio, tanto negli spettacoli quanto nei laboratori, mette in stretta analogia il processo creativo del performer con i processi di trasformazione naturali; l’attore deve necessariamente porsi in relazione consapevole con lo spazio e con le sue peculiarità. Come avviene?
Dal Novecento in poi chi fa teatro è portato a rifondarlo, anche il TeatroNatura va in questa direzione; per noi è a tutti gli effetti un genere teatrale, che ha certe caratteristiche e certi limiti, però è anche un modo per ripensare il teatro nella sua origine, non tanto nel senso cronologico del termine ma nel ricercare un’essenzialità della sua funzione, anche secondo la scia di Grotowski. Per lui, come per noi, il teatro è un incontro tra esseri vivi che non ha bisogno altro che la relazione tra pubblico e attore.
Entrando dentro la natura ci siamo dovute rendere conto di tantissimi problemi, che però erano in grado di essere trasformati in soluzioni, riflessioni. Quando arrivi in uno spazio all’aperto vieni preso dall’angoscia perché non c’è un palco, cambia la luce, la temperatura, la presenza o meno del vento cambia la trasmissione della voce… magari hai di fronte una bella scena ma gli spettatori non c’entrano, dove e come li metti? Tutti questi problemi che possono sembrare logistici diventano parte della creazione.
Noi abbiamo sviluppato molto le nostre qualità fisiche, lavorato il corpo per renderlo duttile ai vari tipi di terreno, per arrampicarci sugli alberi… Abbiamo un allenamento molto preciso ma la partitura performativa è mobile perché si deve ambientare in paesaggi diversi e quindi l’aspetto vivo e vivente del teatro è molto allenato. Anche Michail Cechov nei suoi scritti sugli attori parlava di assorbire le atmosfere e irradiarle. Non solo l’atmosfera del testo ma anche l’atmosfera del luogo, perché, altrimenti, il contesto può schiacciarti. Passando a lavorare nei luoghi archeologici è la stessa cosa, se non ti relazioni in maniera adeguata con quel che hai attorno, finisci per dare fastidio. A volte l’attore si mette davanti e fa dimenticare il luogo, ma deve anche saper lasciare spazio al resto.
Poi abbiamo portato avanti molto la ricerca sul sui canti polifonici tradizionali all’aperto, dalla tradizione mediterranea, fino a quella dell’Est Europa e dell’Oriente. Importantissimo per noi è il lavoro di Giovanna Marini che è stato portato prima da Francesca Ferri e ora da Camilla Dell’Agnola e Valentina Turrini. Inoltre, il nostro teatro si è sviluppato attraverso un linguaggio molto diretto e narrativo, specialmente anche grazie al recupero dei miti classici, quali quelli raccolti da Ovidio e Omero, che riscriviamo e ricreiamo per rendere pertinente l’attraversamento della natura con i temi che la natura stessa richiamava.
Quali sono gli elementi teatrali che per te sono imprescindibili all’interno del TeatroNatura, oltre agli attori?
Più che parlare di attori, vorrei parlare di attrici, per una maggiore presenza e interesse da parte delle donne nei confronti del TeatroNatura. Certo, ci sono stati anche alcuni uomini, ma le grandi scoperte, le fatiche sono avvenute per la maggior parte con delle donne generosissime. Difatti il nostro teatro nasce anche come un’insofferenza ai personaggi femminili che erano dentro la drammaturgia, e che non mi sembrava che rispecchiassero l’essere umano tout court, erano sempre mogli, madri, amanti ma era sempre il personaggio maschile che prevaleva.
All’inizio ero soprattutto interessata alla creazione attoriale, pensavo che la natura non avrebbe presentato problemi scenografici, ma dopo pochi anni ho cambiato totalmente pensiero! Nella natura trovi luoghi bui, quasi tutti gli spettacoli sono all’imbrunire, nel passaggio dal giorno alla notte, per cui cambia molto la percezione di uno stesso luogo. Nel nostro Aspettando Godot, durante il primo atto eravamo davanti a una quercia, ma nel secondo atto gli spettatori si muovevano dietro e quell’albero diventava protagonista. Non vedi più l’albero che hai sempre visto, ma vedi qualcosa di vivo, soprattutto se qualcuno vicino lavora percependolo continuamente e inglobandolo sia sensorialmente sia con il contenuto di quel che si sta facendo. Il TeatroNatura è un teatro percettivo.
Quali sono i partecipanti che più spesso si avvicinano a questo lavoro? Che tipo di percorso intraprendono e quali strumenti e metodi incontreranno?
Per me è importante sottolineare come i laboratori siano un luogo in cui portiamo avanti la nostra ricerca, sia presentando delle costanti che abbiamo individuato nel tempo, sia sperimentando momento per momento. I partecipanti ai laboratori sono tra i più vari. Solitamente li dedico ai giovani attori e attrici anche a coloro che non fanno un altro tipo di teatro ma che sono interessati a esplorare un altro punto di vista. Arrivano anche guide turistiche, insegnanti e soprattutto guide naturalistiche e in generale chiunque voglia stare nei luoghi in una maniera più viva e in ascolto. Le nostre proposte vertono molto sulle pratiche di attraversamento e di sosta del paesaggio, pratiche contemplative che ti aprono al silenzio e ti fanno arrivare davvero a comprendere e a vivere quel luogo; poi ci sono anche esercizi sul corpo, sul canto, sulle acustiche dei luoghi. Quasi sempre si lavora su un mito antico, ricreandolo e riraccontandolo. Ciascuno trova una propria versione, immette delle azioni dentro uno specifico luogo.
I laboratori sono quasi sempre diversi, perché dipende molto dai luoghi in cui sono fatti. Per esempio, ne abbiamo due sul greto del fiume Paglia, e sono caratterizzati dal lavoro sull’acqua, con le pietre, in un tipo di ambientazione rurale agreste, al tramonto sul fiume. Abbiamo anche dei laboratori nel Parco d’Abruzzo o quelli in alta quota nel Parco Nazionale Gran Paradiso; lì ci sono altri tipi di suggestioni, altri colori, altri tipi di qualità… magari non si lavorerà sulle pietre, preferendo un lavoro sulla distanza con l’acqua, o nel bosco, la notte, tutto dipende sempre dal luogo.
Tra i prossimi laboratori ne avremo uno, Officina Naturae, dal 2 al 5 maggio nella Tuscia, tra Lazio e Toscana, poi un altro dal 2 al 5 luglio che si chiama Anima Selvatica, ed è organizzato all’interno di Gran Paradiso dal vivo, un piccolo festival che dirigo e che è stato proprio voluto dal Parco Nazionale, poi Natura Narrante che si svolgerà nel Parco d’Abruzzo e infine a settembre ritorneremo sul fiume Paglia con Genius Loci, un intensivo di una settimana per approfondire il nostro TeatroNatura.
Nella sfida che continuamente pone la realtà naturale nei confronti di quella artistica, quale è stata la vittoria più grande?
Ho sempre davanti agli occhi una spettatrice che mi ha detto: “quando vengo a vedere i vostri spettacoli rimango sempre colpita dalla qualità artistica ma dopo un po’ il mistero dentro il quale ci immergiamo attraversando la natura fa sì che io non senta più la differenza tra voi e noi”. Vedo in questa affermazione il recupero di un’idea di rituale comunitario. Non vorrei mai che fosse una cosa posticcia, New Age, tutto questo non è nel nostro dna culturale, anche se ha una sua ragion d’essere, perché parla di una serie di esigenze rimosse.
Mi viene in mente l’ostacolo più grande che abbiamo superato, l’ambiente più complicato in cui abbiamo recitato. In Sardegna, nell’Isola di San Pietro, avevamo presentato le Metamorfosi di Ovidio che era uno spettacolo che durava quasi tre ore, eravamo in 18, avevamo i trampoli; poco prima dello spettacolo si era alzata la marea, c’erano le onde, sugli scogli… I pochi che hanno avuto il coraggio di scendere hanno avuto modo di assistere a un qualcosa di incredibile. Se sei stato in grado di sviluppare quella particolare attenzione, ti sei donato con dedizione e coraggio, la natura sembra collabori! Capita che arrivi l’arcobaleno a fine spettacolo, che il vento si alzi nella battuta giusta, o che si sentano tuoni lontani in momenti drammaturgicamente efficaci… Se la nostra mente si apre e si sospende l’incredulità, è possibile vedere corrispondenze continue molto emozionanti. A volte gli spettatori non applaudono, e questa per me è la vittoria più grande. Finisce lo spettacolo e rimangono lì, in ascolto della risonanza, del paesaggio, si sono quasi dimenticati di essere a teatro. Stanno facendo un’esperienza che li riconnette con qualcosa da cui siamo stati brutalmente separati. Allora capisco che lo spettacolo ha funzionato, il silenzio non è imposto dagli attori ma è un modo per percepire meglio, anche per dimenticarsi di noi attori, il mio compito non è apparire ma far apparire tutto il resto.
Viviana Raciti