Abbiamo visto all’Ambra Jovinelli di Roma il Dracula di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio. Una verticale sulla figura del vampiro, con una breve recensione dello spettacolo.
Psicanalisi, critica del colonialismo e del capitalismo basato sul monopolio, potere, eros e thanatos, presagio del tramonto dell’era vittoriana. Molto numerose e controverse sono le interpretazioni offerte dalla critica occidentale per Dracula, romanzo dell’irlandese Bram Stoker pubblicato nel 1897. La sua fortuna editoriale, inizialmente legata alla passione del tempo per il gotico, per la fantascienza e per la detective story (H.G. Wells, H. Riger Haggard, Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Sir Arthur Conan Doyle, Henry James, Gaston Leroux) e solo in seguito arrivata a celebrarlo come capolavoro della letteratura di fine Ottocento, lo ha portato a essere una delle opere più riutilizzate e riadattate. Prendendo le mosse dal racconto The Vampyre di John William Polidori, pare che Stoker abbia impiegato ben sette anni in ricerche sul folklore dell’Est Europa, servendosi a piene mani dello studio di Emily Gerard Transylvania Superstitions e sfogliando libri di storia di una terra che, prima della Grande Guerra, risultava esotica e misteriosa, specialmente agli occhi dei britannici. Una storia che facilmente si intrecciava alla leggenda.
Per anni saccheggiata, senza risparmiare totali stravolgimenti, dal cinema di genere, l’opera di Stoker tornava alla luce nel 1992 grazie a una produzione ormai di culto, quella di Francis Ford Coppola, al punto che molti, da quel Bram Stoker’s Dracula in poi, facilmente riconoscono nel film del regista americano uno degli adattamenti più fedeli. In verità, nonostante la maniacale dovizia di particolari che ammicca ai conoscitori, la versione di Coppola è frutto di una radicale scelta interpretativa, che rilegge la figura del Conte Vlad come una sorta di Satana più simile all’angelo caduto di John Milton (Paradise Lost), un essere profondamente romantico la cui vocazione al male è una vendetta per un tradimento di palazzo, che spinge la sposa Elizaveta a crederlo morto e a togliersi la vita. Nel Dracula di Coppola rinnegare quel Dio per cui da guerriero aveva combattuto permette al Conte di risorgere come principe delle tenebre, ma è anche una gabbia di disperazione e tedio, da cui salvarsi ritrovando il proprio amore, reincarnatosi in una graziosa dama londinese, Mina Harker. Un protagonista malinconico per una sontuosa e impeccabile dark love story, dunque, cui lo spettatore può perdonare ogni nefandezza.
La geniale invenzione letteraria di Stoker è piuttosto quella di incastonare in un romanzo epistolare – fatto di diari, lettere, ritagli di stampa e giornali di bordo – un protagonista assoluto che non compare mai. La figura del vampiro è sì descritta, spesso con precisione esemplare, ma sempre confusa dentro a toni e stili di racconto molto diversi, generando un fantasma sinistro e inafferrabile, che non si fa fatica a identificare con quella pulsione al male assoluto che alberga in ognuno di noi. Il Dracula originale, allora, è molto più simile a un sorprendente romanzo giallo, un misto di storia, indagini geografiche e strategiche e azione forsennata, il cui meccanismo cronometrato e infallibile conduce il lettore dalle nebbiose strade di Londra, con i suoi manicomi fatiscenti e i vicoli infestati di topi, alla soleggiata Withby, dove Mina e l’amica Lucy (la prima vittima inglese del mostro) trascorrono la villeggiatura e dove attracca il vascello che porta le casse di terra che proteggeranno la bestia, poi in treno fino agli aspri Carpazi, all’inseguimento di un nemico che resta invisibile fino all’ultimo, fino al momento in cui un coltello gli trafiggerà il cuore e un altro gli mozzerà la testa, mettendo fine alla maledizione.
Non stupisce, dunque, che un materiale letterario così perfettamente orchestrato abbia reso possibile ogni genere di reinterpretazione. Ché questa è la prerogativa dei classici immortali.
Già, tra queste interpretazioni eravamo qui per citare anche quella di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio, di ritorno sul palco dopo l’esperimento di Delitto e Castigo. Il gruppo di personaggi si riduce a Jonathan Harker / Lo Cascio (avvocato inviato in Transilvania e imprigionato dal Conte), la moglie Mina / Margherita Laterza (vettore della maledizione), il dottor Seward / Roberto Salemi (ormai orfano di funzione drammaturgica), il vecchio e caparbio Van Helsing (Rubini) e il pazzo Renfield / Lorenzo Lavia reso schiavo dal vampiro. E poi c’è un Dracula (Geno Diana) che passa ogni tanto in platea inforcando pastrano e cappello e poi compare, una tantum, in luce, con la camicia aperta sul petto per dar da bere sangue a Mina. Senza pronunciare mai parola. Il tutto mentre, in un angolo del palco, nell’ombra si muove colui che manovra gli effetti sonori, come un fantasma che nessuno può vedere (perché extradiegetico) salvo quando occorre far entrare in scena un inserviente del manicomio.
L’adattamento di Carla Cavalluzzi e dello stesso Rubini (anche regista) sceglie un montaggio serrato per nulla in grado di salvarsi dalla citazione del mezzo cinematografico. Il palco è organizzato in un disordinato insieme di ambienti dove pannelli coperti da lenzuoli cercano di afferrare ogni accattivante bagno di luce; quest’ultima si nutre quasi solo di tagli e controluce, disponendo così gli attori in una schiera compatta, spesso impacciata, quando non impegnata a far vorticare torce elettriche (nel 1897? Sicuri?) o ad assumere pose statuarie e imbevute di cliché come: donna morsa dal vampiro e riversa su lenzuolo, uomo curvo su scrittoio delle memorie, eroe che alza il mento e gonfia il petto nella sfida lanciata al demone. Sei teli neri piovono dal soffitto e basta agitarli sotto una pioggia di fari bianchi a far intuire, secondo lo scenografo, un temporale o una tempesta del Mar Nero.
Ad annullare quel poco di teatralità offerta almeno dalla sala dell’Ambra Jovinelli di Roma è un uso completamente indisciplinato dei microfoni, che dimentica ogni nozione di spazializzazione del suono e imprime ogni voce in primo piano acustico, appiattendo ogni pur appassionato tentativo di interpretazione (come quello di Lavia, che infatti risulta purtroppo sopra le righe) in una resa televisiva, tirata a lucido da sospiri e grugniti, degna dei più basici doppiaggi di serie B.
E poi c’è il pubblico, quello accalcato nel foyer prima e dopo. Qualche gruppo di più giovani lamenta certe scelte un po’ a buon mercato; ma la maggior parte, piuttosto soddisfatta dell’abbonamento di cui a stento ricorda i prossimi titoli in programma, davvero crede di aver trascorso una serata a teatro.
Sergio Lo Gatto
Teatro Ambra Jovinelli, Roma – aprile 2019
DRACULA
di Bram Stoker
adattamento teatrale di Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
con Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini
e con Geno Diana, Margherita Laterza, Lorenzo Lavia, Roberto Salemi
regia Sergio Rubini
regista collaboratore Gisella Gobbi
scene Gregorio Botta
costumi Chiara Aversano
musiche Giuseppe Vadalà
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
luci Tommaso Toscano
presentato da Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana