Compagnia Berardi Casolari, la pratica scenica e la sua parola nell’ultimo lavoro Amleto Take Away. Recensione.
Nel continuare a domandarci se abbia valenza o meno la vittoria di un Premio, se la conferma meritocratica di un percorso si attesti tramite il suo riconoscimento e plauso; appuriamo nuovamente, e a mesi di distanza, che i Premi Ubu 2018 hanno di certo messo in luce il lavoro svolto da alcuni artisti, la loro pratica continuativa e sotterranea che nel corso degli anni ha innervato il sistema teatrale, modificandolo. Al di là dei quesiti relativi alle opportunità offerte dalla vittoria, vi è un assunto oggettivo e affatto nuovo dal quale potrebbe essere utile partire: i premi offrono innanzitutto conoscenza, favoriscono l’informazione e il conseguente dibattito, uno spartiacque in grado di stimolare un confronto dialettico tra favorevoli e contrari.
I migliori attori 2018 secondo l’Associazione Ubu per Franco Quadri sono stati Ermanna Montanari, Lino Guanciale e, a pari merito, Gianfranco Berardi. Quest’ultimo lavora dal 2008 a fianco di Gabriella Casolari nell’omonima Compagnia Berardi Casolari la cui cifra – a detta degli stessi fondatori – «si muove al confine fra il teatro tradizionale e un linguaggio più sperimentale e innovativo, tanto da definire i propri lavori vere e proprie “Tragicommedie”, in cui la miseria del vivere diventa spunto comico e la leggerezza veicolo per la riflessione». La coppia Berardi Casolari attinge dal teatro popolare, non solo da quello appartenente legato alla tradizione, ma soprattutto da quello delle consuetudini umane e ordinarie, quello delle commedie i cui protagonisti sono dilettanti che – attraverso l’attoralità, la regia e la drammaturgia del duo – ci raccontano di un «contro temporaneo», criticando i paradossi del presente per far risaltare la tragedia contraddittoria, e per questo meravigliosa, del reale. Come In fondo agli occhi (edito da Editoria&Spettacolo) e Io provo a volare – omaggio a Domenico Modugno, anche Amleto Take Away – ultima creazione che ha debuttato durante la scorsa edizione del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari e rivista a Roma di recente al Teatro Biblioteca Quarticciolo – è il «luogo dove si nasconde, e quindi si svela, il teatro».
Sulla scena squintata un teatrino campeggia solitario, porzione di possibile incorniciata da due tende rosso vivo sulla quale si poserà il corpo crocifisso dell’attore Amleto (Berardi) osservato nel suo delirio di onniscienza da lei (Casolari) non mero servo di scena ma guida delle azioni dell’attore. Non vedente sin dalla giovane età, Gianfranco Berardi è seguito nei passi, salti, inciampi dagli occhi della propria compagna che ne anticipa e protegge i movimenti; li orienta e suggerisce con tensione e premura, che è rigoroso esercizio di ascolto. Amleto indossa la maglia numero 9 dell’Inter (specularmente ma con un senso diverso, il Tiresia di In fondo agli occhi indossava la maglia numero 10 dei Mondiali Italia ’90), ed è l’incarnazione del fallimento scelto e agito volontariamente, un «dispositivo» – come definito nell’intervista apparsa su queste pagine – attraverso il quale scandagliare il presente scegliendo temi privilegiati sui quali intervenire autorialmente.
La famiglia viene intesa come un tessuto culturale da mettere costantemente in discussione rispetto alle diverse fasi della vita (scuola, lavoro, relazioni); la dimensione della solitudine virtuale e i diktat dell’apparenza: «To be o FB, questo è il problema! Chiudere gli occhi e tuffarsi dentro sé e accettarsi per quello che si è, isolandosi da community virtuali per guardare da vicino e cercare di capire la realtà in cui si vive? O affannarsi per postare foto in posa tutte belle, senza rughe, seducenti, sorridenti, grazie all’app di photoshop?».
La drammaturgia a doppia firma Berardi Casolari è inscritta in quell’incoerenza della tragedia originale, in quei salti che lo stesso Berardi definisce «difficili, alieni rispetto alle modalità della drammaturgia dell’epoca: però è proprio attraverso questi salti che si riesce a dare spazio a un pensiero così profondo». In quegli interstizi a latere del plot principale la spinta satirica e comica fa leva sui significati del contemporaneo, li sposta per selezione e li elabora in un linguaggio che, tra concitata musicalità, rabbiosi accenti e storture dialettali, amplifica le sfumature grottesche. Il teatro stesso, inteso come categoria di relazione e sistema-mondo, non trova scampo in questo calembour di invettive e viene processato in nome della creazione contro la ricerca solipsistica che rischia, ripetono gli autori nell’intervista, di renderlo «piccolo sistema di scambismi autoreferenziali, un circuito chiuso, onanistico appunto perché piccolo ma, allo stesso tempo, istituzionalizzato».
Amleto Take Away è il mordace guizzo di una drammaturgia che si costruisce prima e decostruisce poi, capace di agire semanticamente come una sorta di ipertesto rispetto a quello shakespeariano, dotandosi di una fisicità attoriale abile nel restituire concretezza e tangibilità corporea ai volteggi imprevedibili della scrittura. Seppur tendente alla morbosità didascalica in alcuni momenti e all’invasione della platea per un coinvolgimento del pubblico che sembra risultare poco funzionale, quella di Berardi e Casolari è una parola d’attore figlia di un’umile e tradizionale pratica, fiera di avere sulle spalle anni di solerte e consolidata attività scenica, che confida nella fragilità e la rende vincente.
Lucia Medri
Teatro Biblioteca Quarticciolo – marzo 2019
AMLETO TAKE AWAY
Uno spettacolo di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
con Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
musiche Davide Berardi e Bruno Galeone
luci Luca Diani
produzione Compagnia Berardi Casolari / Teatro dell’Elfo
con il sostegno di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival di Armunia Castiglioncello, Comune di Rimini-Teatro Novelli
Si ringraziano César Brie, Eugenio Vaccaro, Il Teatro del segno di Cagliari, Sementerie artistiche di Crevalcore (BO)