Regista, neo direttore artistico, dramaturg, venticinque anni. L’8 marzo, in occasione di Vie Festival, insieme a Kepler-452 debutta con lo spettacolo F. Perdere le cose, una produzione ERT Fondazione. Intervista a Enrico Baraldi.
Enrico Baraldi è nato nel 1993 e da quest’anno è il direttore artistico del Festival 20 30, a passargli il testimone è stato Nicola Borghesi, che oltre ad aver fondato con lui e Paola Aiello la compagnia Kepler-452, è colui che il festival l’ha ideato e che al proprio interno ha coltivato un gruppo di giovani spettatori, a tutti gli effetti una delle vere novità del teatro italiano degli ultimi anni. Giovani e giovanissimi si trovano a formare collettivi ai quali i festival delegano parte della responsabilità legata alla programmazione. Sono spettatori sospinti e infaticabili, vanno a teatro più volte a settimana, si muovono di città in città e visionano anche centinaia di schede progettuali e video. Con loro, la figura dello spettatore si trasforma, diventa non solo percettore ma anche un vero e proprio propulsore del processo di visione e selezione: a loro viene chiesto di scegliere qualcosa di cui saranno anche i primi destinatari.
Questi gruppi affinano con il tempo il proprio lavoro attraverso processi esperienziali e formativi, in parte autonomi: spesso sono coadiuvati dall’accompagnamento di direzioni artistiche più esperte, ancora più spesso mettono in evidenza la necessità di creare comunità attorno al fatto teatrale. Diventa necessario comprendere quali siano i limiti e le possibilità di questa concezione che centralizza lo spettatore e che forse, senza la presa in carico della funzione critica e culturale, rischia di creare una sorta di “populismo spettacolare”. Riportare i giovani a teatro a discapito, insomma, della ricerca? Del Novecento il teatro dovrebbe ereditare quantomeno la propria autonomia artistica: ciò che non può essere compreso dal pubblico di oggi può forse creare il linguaggio per quello di domani? Questi gruppi di spettatori/selezionatori sono in grado di guardare al futuro? Per avanzare una prima risposta, abbiamo dialogato con chi tiene le fila delle dinamiche più interne: a gambe incrociate sulla sedia di un appartamento qualsiasi parliamo di compagnie, di avanguardie, di critica, di paura, di sfrontatezza e di nuovi debutti.
Quanto sono importanti gli incontri e come è accaduto con Kepler-452?
Prima ancora di Kepler-452 c’è stato un incontro, quello tra me e Nicola Borghesi. Ho cominciato il mio percorso insieme (e grazie) a lui, nel 2013. Nicola era il mio insegnante di teatro al liceo. Quando ero all’ultimo anno ho deciso di frequentare il suo laboratorio per conquistare una ragazza; non ebbi grande successo (lei non c’è stata), tuttavia quell’estate, su invito di Nicola, passai una settimana in una bellissima casa di campagna, dove abbiamo messo in scena Il Gabbiano di Anton Cechov. Lì, per la prima volta nella mia vita, ho avuto la netta sensazione di bruciare violentemente per qualcosa.
Tornato dalla residenza mi sono iscritto ai provini della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, senza nemmeno sapere che cosa fosse un’accademia. Ho superato le selezioni. Allora ho iniziato a vivere tra Milano e Bologna, perché nel frattempo Nicola si era inventato il Festival 20 30, e io, senza sapere bene perché, mi trovavo sempre lì a dare una mano. È stata un’esperienza pioneristica: cinque serate insieme a compagnie che tenevano anche laboratori. Un giovane attore-regista, Nicola, a inventare tutto quanto, nessuno a sapere come sarebbe andata, e io come primo testimone di quella magica intuizione.
L’anno dopo, invece, ogni cosa ha cominciato a prendere forma. In quell’anno si costituiva Kepler-452: sono arrivati Paola Aiello e Lodo Guenzi, siamo diventati per lo stato un’associazione culturale e per noi stessi una rivoluzione, che di fatto abbiamo trasferito nel titolo dei nostri primi due spettacoli: La rivoluzione è facile se sai come farla, scritto da Quit The Doner, e La rivoluzione è facile se sai con chi farla (il nostro primo format di teatro partecipato).
Se è possibile la rivoluzione in una compagnia, è possibile mantenere un ordine comune a tutti?
È possibile e anche con una discreta affinità di vedute. Le visioni divergenti aiutano a convergere. Esiste un patto inviolabile all’interno della nostra compagnia che è quello sancito in funzione dell’attore e sta nel permettergli di cercare e trovare una propria modalità di presenza sulla scena e, allo stesso tempo, essere autore di gran parte del testo.
Io, nello specifico, tendo a lavorare più di tutti in sottrazione, personalmente credo che si abbiano pochissime chance di andare a segno ed è necessario cercare di ripulire il più possibile ogni traccia, incaricando quelle buone di rivelare il percorso essenziale. Il che non significa ingabbiare la recitazione, ma trovare una dimensione di relazione tra sé, gli altri attori, lo spazio e il pubblico, che sia quanto più sintetica possibile. Il mio ruolo in compagnia lo sento principalmente legato proprio alla mediazione nella relazione tra questi elementi.
La storia di Kepler-452 è legata imprescindibilmente a quella del Festival 20 30. Come è successo che dal non “sapere bene perché ti trovassi lì” tu sia arrivato a condurlo?
È successo che a un certo punto Nicola ha avuto la lucidità di capire di aver creato un festival pensato, partecipato e agito da un pubblico di giovanissimi e di averlo diretto fino ai 32 anni. Ma non è stato tanto il fattore anagrafico a fargli prendere la decisione di lasciare la direzione artistica, quanto la consapevolezza che quella creatura dovesse crescere e imparare un’altra lingua. Quindi ho condotto con Nicola la penultima edizione, conclusa con lo spettacolo Manifesto. Questo ha permesso a lui di fissare un punto alle cose che aveva da dire: gran parte dello spirito, dell’analisi e delle idee che lo hanno mosso per quattro anni si sono incuneate lì e lì hanno trovato un vero e proprio indice. Negli ultimi due anni, invece, i ragazzi hanno lavorato insieme a me, girando l’Italia per guardare e selezionare gli spettacoli: le avanguardie sono cresciute e io con loro, abbiamo maturato una coscienza in fatto di gusto, pensiero, di riflessione e di critica che mi ha portato a lanciare una sfida. Da loro coetaneo (non c’è iato anagrafico tra di noi) ho proposto di creare un sistema orizzontale e di rimettere tutto in discussione: un apparato libero, costruito sulla fiducia tra ogni componente.
Da parte mia, ho voluto portare un diverso immaginario, le scelte che ho preso rispondevano alla mia personale idea di teatro, quest’anno gli spettacoli proposti divergevano molto da quelli degli anni passati: Tropicana di Frigoproduzioni, Stabat Mater di Liv Ferracchiati e Peppa Pig di Davide Carnevali sono solo alcuni esempi che però indubbiamente trasferiscono una modalità di rapporto con il pubblico asciutta, di sicuro in minore, talvolta senza l’estremo bisogno narrativo ma con un’estetica definita e precisa che ha a che vedere con il minimalismo, con la sottrazione degli elementi in scena: una sorta di stand up comedy dall’ironia tendente al cinismo. Quando mi immagino un discorso rivolto alla mia generazione sento il bisogno di arrivare al punto immediatamente, prima che qualcuno distolga gli occhi e il pensiero per riposare altrove. Questo perché c’è tantissima voglia di tirare giù la maschera e di escludere ogni filtro, e farlo non significa tracciare il segno di una generazione ma quantomeno individuare uno stile ben definito, schierarsi dalla parte dei discorsi diretti, della parola detta fuori dal recinto dei denti.
Se il teatro fosse tutt’altro genere?
Sarebbe il rap (che io – per inciso – ascolto assai poco). O un certo tipo di musica Indie. Hanno entrambe un impianto apparentemente semplice e orecchiabile che rischia la stessa ambiguità di cui soffre la “canzonetta”, che si porta il vuoto appresso finché non finisce la stagione in cui l’abbiamo cantata. All’Indie e al rap spesso viene attribuita una catalogazione sbagliata, molto simile a quella che trent’anni fa, senza accorgersene, si dava a un certo genere musicale riconducibile alla musica leggera, fino a quando non si è capito che quelle stesse canzonette costituivano un immaginario comune per moltissime persone, come un movimento, come una lingua: il teatro dovrebbe immaginarsi allo stesso modo, senza obbligatoriamente necessitare di strumenti per comprenderlo, senza un approccio forzatamente critico, senza fare delle proprie forme l’elemento centrale dell’indagine, sviluppando così un discorso raffinato e complesso. Per poi scoprire magari che nella semplificazione risiede una operazione (anche concettuale) parecchio raffinata.
Faresti una critica alla critica?
Una alla critica, una agli artisti. La critica sta analizzando, creando schemi concettuali, guardando la storia del teatro per tracciare delle direttrici con il teatro presente. Ma il teatro presente è già passato. Se uno spettacolo debutta nel 2017, inevitabilmente è stato prodotto almeno nel 2015, in pratica quando il critico arriva a vederlo al debutto in qualche modo sta analizzando il punto in cui il teatro era fino a un attimo fa. Sembra un continuo sguardo al passato che stenta a tracciare delle ispirazioni per immaginare invece il teatro che deve ancora essere.
D’altra parte, invece, dall’artista ci si aspetta che si collochi con il proprio lavoro un passo avanti al critico: chi crea ha il compito di immaginare soluzioni differenti a cui non si può arrivare attraverso schemi concettuali perché è chiamato a fare agire l’inconscio, a tradurre quella parola incomprensibile che si è messa in rapporto con lo spirito del proprio tempo, a prevedere la storia, a prevedere la politica; l’artista deve produrre ciò che non era prevedibile. Trovo interessante quel tipo di ricerca che pone al centro l’estetica e la destrutturazione dei linguaggi, tuttavia questo campo dovrebbe essere ampliato a nuovi orizzonti del contemporaneo: il teatro che non si nasconde e non nasconde il discorso e la parola, e che prende una posizione netta sulla realtà.
E quale teatro lo fa? Fai i nomi.
Frigoproduzioni, Liv Ferracchiati, Sotterraneo, Davide Carnevali, ma anche Deflorian/Tagliarini. Più precisamente, tutti coloro che danno alla parola il ruolo di un’arma, che si mettono a nudo e perseguono il criterio della sincerità fin dove è possibile. Tutti questi spettacoli sono accomunati dall’intenzione di prendere a soggetto la psiche costruendo un dialogo fitto di interrogativi in connessione diretta con il pubblico: “questo sono io” è il primo pensiero che deve innescarsi nello spettatore.
Fino ad arrivare a portare l’io sul palco. Allora fino a dove può considerarsi teatro?
Il teatro può essere qualsiasi cosa. Nel momento in cui decidiamo di attivare una convenzione in cui uno è spettatore e l’altro attore e tra di loro esiste uno spazio scenico, anche indefinito, si può parlare di teatro.
E se lo spettatore partecipa?
Allora la convenzione si rompe. Ma le convenzioni sono fatte per essere rotte. Ogni convenzione deve essere ricostruita dall’inizio. Anche di questo il teatro si dimentica, dando per scontata la relazione palco-platea! In questo momento le platee sono vuote, i teatri sono vuoti; non ho la pretesa di dire che il teatro debba rinnovarsi attraverso una rivoluzione pop, ma si deve comprendere che aprire il dialogo, rimodulando il linguaggio in favore della platea, non è populismo, anzi, è l’ultimo spazio di libertà rimasto, l’unica vera sperimentazione comprensibile.
La ricerca deve vertere non sulle forme della realtà, ma sulla sua sostanza. Allora capirai come diventa importante rivolgere lo sguardo verso il fuori. Ho la sensazione che molte compagnie abbiano le spalle voltate: noi parliamo a nostri coetanei che non vedono il teatro nel loro orizzonte culturale, che sono consumatori culturali ma che talvolta ignorano l’esistenza di questa forma. Cerchiamo di dire che anche a teatro si può vivere un’esperienza – emotiva, filosofica, politica – e che irrimediabilmente unisce pancia e pensiero.
Che tipo di esperienza sarà perdere le cose?
In F. Perdere le cose abbiamo incentrato il lavoro su una drammaturgia dell’assenza. L’indagine è cominciata con una prassi abbastanza solita per la nostra compagnia: una indagine sul territorio a caccia di identità “non identiche”, di alterità da narrare e portare in scena. In questo caso il filtro tematico era la figura del perdente. Quando, in un dormitorio per senza tetto, ci siamo imbattuti in F. abbiamo individuato un punto di partenza non soltanto in lui, ma nel limite cui la sua identità (intesa in senso legale e burocratico) ci poneva davanti: F. infatti non può entrare in scena. Per lui il palcoscenico è un confine che non può essere valicato. Il problema per F. è legato ai suoi documenti e alla vertigine burocratica che lo separa dalla possibilità di esistere legalmente sul territorio italiano.
Il lavoro di coinvolgimento di un non attore sulla scena è stato quindi superato dalla assenza obbligata del protagonista. Questo mette in crisi il senso stesso di teatro partecipato per come lo abbiamo sempre inteso noi. Come si fa a raccontare la realtà se la realtà è oscena, nel senso più etimologico del termine ovvero fuori scena, non potendo entrarci?
Il mio lavoro come dramaturg in questo spettacolo si è incentrato prevalentemente su questo, ovvero cercare di rispettare il vuoto, l’assenza. Il teatro diviene così non soltanto un luogo della rappresentazione, ma il perimetro di una comunità che si interroga sulle barriere realmente esistenti in una sala teatrale: la divisione palco platea ovvero la quarta parete non è un fatto immaginario ma è normato da leggi, così come la presenza degli spettatori in sala. Esiste un diritto a essere più spettatori di altri? E questo diritto da che cosa è normato? Dalla legge della rappresentazione (ovvero dal patto tra attori e spettatori) o dall’Ex Enpals (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza Lavoratori dello Spettacolo, ora Inps)?
Il concetto che credo di avere stravolto di più dentro di me durante la gestazione di questo spettacolo riguarda l’idea di libertà: la mia libertà (anche come artista) non finisce forse proprio dove finisce la libertà di qualcun altro? Se limito la possibilità di F. di presentarsi e di dire “io sono”, di prendere parola, non sto forse togliendo a me la possibilità di un incontro? In questo senso abbiamo cercato un ribaltamento in cui noi stessi, come comunità, diventiamo vittime delle stesse politiche restrittive che poniamo per tenere lontano l’altro, il diverso, lo straniero.
Francesca Pierri
F. Perdere le cose è in scena a Vie Festival, Arena del Sole di Bologna, dall’8 al 10 marzo.