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Teatrosofia #90. Una via per l’autarchia. Il teatro in Ippia di Elide

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il numero 90 avanza alcune caute ipotesi sulle opinioni di Ippia di Elide, secondo cui il teatro sarebbe il fondamento di un vivere autosufficiente e autarchico.

Si è avuto modo di menzionare, in un intervento precedente, come il sofista Protagora avesse espresso un giudizio radicale nei riguardi del suo collega e rivale Ippia di Elide. Quest’ultimo avrebbe insegnato la musica come una disciplina fine a se stessa, ossia senza farne un mezzo o tramite per l’esercizio della politica. Le testimonianze su Ippia e i pochi frammenti rimasti delle opere di questo sofista sembrano darci, tuttavia, un quadro diverso della sua figura. Per estensione, gli uni e le altre ci forniscono anche uno spaccato più complesso del suo rapporto con le arti performative.

La fonte da cui conviene partire è la voce del lessico Suda dedicata al sofista. Essa riferisce che Ippia non aveva dubbi che il fine a cui ogni essere umano dovrebbe tendere è l’autarchia. Si tratta di un’informazione isolata che, tuttavia, diventa credibile non appena si guarda al ritratto che Platone dà del sofista nei dialoghi che portano il suo nome: l’Ippia maggiore e l’Ippia minore. Pur affrontando argomenti tra loro diversi, infatti, i due testi sono concordi nel presentare Ippia come un pensatore enciclopedico, dotato di numerosi talenti e abile nel procurarsi da sé ogni cosa. L’Ippia maggiore – dedicato alla definizione del “bello” – mostra il sofista che decanta la sua capacità di ricavare grandi ricchezze in ogni luogo, la sua arte mnemonica prodigiosa, la sua vasta conoscenza sulle discipline più disparate, quali musica, geometria, astronomia e metrica (Filostrato aggiunge alla lista anche la pittura e la scultura). L’Ippia minore – che, invece, pone la questione se sia meglio mentire volontariamente o involontariamente, a partire da una discussione se Omero ritenesse migliore Achille che dice sempre la verità, o Ulisse che sa mentire con facilità – completa il quadro riportando che Ippia era addirittura in grado di foggiarsi i vestiti che indossava. Non si può allora escludere che questo modo di vivere del sofista fosse la diretta conseguenza della sua ambizione di rendersi libero. La mnemotecnica lo liberava dalla dipendenza da libri e maestri, l’abilità di foggiarsi i vestiti non lo costringeva a pagare sarti e calzolai, le molte ricchezze e conoscenze accumulate gli consentivano probabilmente di compiere da sé moltissime attività (per esempio, l’astronomia lo avrebbe aiutato a orientarsi da solo nei luoghi attraversati durante i suoi lunghi e numerosi viaggi).

Un altro elemento che concorda con la voce del lessico Suda è la notizia della sua costante ricerca della novità nella sua carriera intellettuale, che può essere interpretata come il desiderio di rendersi autonomo dalla tradizione poetica e filosofica antecedente. Questo aspetto è appena accennato nella testimonianza dei Memorabili di Senofonte, mentre è descritto dettagliatamente nel frammento più lungo che ci è arrivato dell’opera di Ippia, conservato dagli Stromati di Clemente di Alessandria. Il sofista scriveva qui, infatti, che era sua intenzione di consultare gli scritti di molti autori, come Omero o altri poeti, e «scelti tra tutti i più importanti e affini tra loro, ne farò questo nuovo e multiforme discorso».
Combinando le informazioni di Platone con il frammento preservato da Clemente, si può dedurre che l’autarchia di Ippia era di natura sia materiale che spirituale. Un essere umano autarchico sa procurarsi tanto beni come la ricchezza e il vestiario, quanto un suo originale pensiero sulla realtà. Così facendo, non ci sarebbero state cose o persone capaci di renderlo succube del loro potere.

Ora, in che modo si inscrive il teatro in questa sua riflessione etica? La risposta è duplice, almeno stando alle poche informazioni che abbiamo. Una prima consiste nel supporre che Ippia si sarebbe reso a sua volta indipendente dal teatro, dai suoi attori e dai suoi drammaturghi, facendosi maestro e realizzatore anche di quest’arte. L’Ippia minore di Platone testimonia che il sofista era un esperto conoscitore non solo di Omero, ma anche di molti altri poeti, mentre l’Ippia maggiore menziona di sfuggita autori di tragedie e poesie drammatiche, che forse poteva anche recitare da sé. In questo senso, se Ippia fosse stato preso dal bisogno di assistere a uno spettacolo tragico, non avrebbe avuto bisogno di andare a teatro. Gli sarebbe bastato allestire un palco e mettere in scena da solo i testi scritti da lui medesimo, interpretando con la propria voce e il proprio corpo tutti i personaggi partoriti dall’immaginazione. Inoltre, il frammento di Clemente suggerisce anche che un poeta drammatico sarebbe stato concepito non come un’autorità da seguire passivamente, bensì come uno dei molti autori da sfruttare per ricavarne il «nuovo e multiforme discorso» sul mondo.

La seconda risposta alla domanda di cui sopra è più interessante, ma ancora più speculativa di quella appena formulata. Ippia poteva aver utilizzato il teatro per educare gli altri esseri umani a rendersi autarchici a loro volta e per impartire agli spettatori alcuni suggerimenti utili a tale fine. Non abbiamo purtroppo alcun frammento delle sue tragedie o composizioni poetiche che possa giustificare questa ipotesi. D’altro canto, sempre l’Ippia maggiore di Platone ci serba memoria dell’incipit del Dialogo troiano, che è ricordato da Filostrato come l’opera maggiore di Ippia.
Si tratta di un testo che il sofista avrebbe composto e recitato davanti al pubblico degli Spartani, che rappresentava il giovane Neottolemo, figlio di Achille, che chiede a Nestore – ritenuto essere altrove da Ippia come il personaggio più saggio tra quelli immaginati da Omero – che cosa avrebbe dovuto fare per diventare uomo buono e valente, ricevendo al riguardo molti ammaestramenti di grande valore.

Ora, visto che un dialogo è in fondo una costruzione poetica di tipo drammatico o teatrale, è possibile con molta cautela immaginare che il Dialogo troiano fosse un testo di teatro, che si rivolgeva in maniera discreta al pubblico per guidarlo verso l’autarchia. Per un greco, infatti, diventare uomo buono e valente significava divenire sapiente, figura che a sua volta era spesso considerata come l’individuo autarchico per eccellenza (si pensi solo all’affermazione di Antistene, discepolo di Socrate e contemporaneo di Ippia).
Naturalmente, non conviene insistere su una tesi così audace a partire da dati fragili e controversi. Se essa ha però ha un briciolo di plausibilità, ne potrà discendere che il giudizio di Protagora verso il suo collega e rivale era fortemente ingiusto. La musica, come il teatro, non erano per Ippia discipline da coltivare di per sé, quanto per rendersi il più possibile indipendenti e liberi: degli autentici self-made men.

Enrico Piergiacomi

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Ippia figlio di Diopite, nato in Elide, sofista e filosofo, scolaro di Egesidamo, pose come fine dell’uomo «l’autarchia». Scrisse molte opere (Lessico Suda, voce Ippia o ι 543, = Ippia, 86 A 1 DK)

Andato io una volta in Sicilia mentre vi si trovava Protagora, già celebre e anziano, io che pure ero molto più giovine, in poco tempo guadagnai più di centocinquanta mine; e da un solo paese, e assai piccolo, Inico, più di venti mine. Tornato a casa con questa somma, la detti a mio padre, tanto che lui e gli altri cittadini ne furono meravigliati e sbalorditi. Quasi quasi credo d’aver guadagnato più io che altri sofisti in due, quali tu voglia (Platone, Ippia maggiore, 282d6-e8 = Ippia, 86 A 7 DK)

– Ma in nome degli dèi, di quali argomenti dunque ti lodano gli Spartani, o Ippia, e quali godono di udire? Certo quelli che tu conosci mirabilmente, cioè la scienza degli astri e i fenomeni celesti? – Neanche per sogno! Di questi argomenti non ne voglion neppur sentire. – Allora godono di sentir parlare di geometria? – Neppure; molti di loro non conoscono, per così dire, nemmeno i numeri. – Sono ben lungi dunque dal tollerare che tu parli loro di calcoli? – Oh sì, molto, per Giove! – Ma allora, di quello che tu sai più acutamente di alcun altro analizzare, cioè del valore delle lettere, delle sillabe, dei ritmi, degli accenti? – Ma che accenti, ma che lettere, amico mio! – O allora, per che cosa mai ti stanno ad ascoltare con piacere e ti lodano? Dimmelo tu, che da me non lo trovo. – O Socrate, perché racconto le genealogie degli eroi e degli uomini, e le fondazioni, cioè come anticamente si fondarono le città; in una parola, essi amano ascoltare la storia antica, sicché per loro sono stato costretto a studiare e a mettermi al corrente di tutto questo. – Per Giove, Ippia, buon per te che i Lacedemoni non amino sentir enumerare i nostri arconti a cominciar da Solone, se no, avresti avuto un bel daffare a impararli! – Perché Socrate? Io, se sento una volta sola dire cinquanta nomi, li ritengo a mente. – Hai ragione; non pensavo che tu possiedi l’arte mnemonica, sicché comprendo che abbian ragione i Lacedemoni di ascoltarti volentieri, giacché sai tante cose; e che faccian con te come i fanciulli con le vecchierelle, che si fanno raccontar le fole (Platone, Ippia maggiore, 285b5-e2 = Ippia, 86 A 11 DK)

Il sofista Ippia, di Elide, manteneva ancora, da vecchio, una memoria così potente, da saper ripetere nello stesso ordine anche cinquanta nomi uditi una volta sola; nelle sue conferenze trattava di geometria, di astronomia, di musica, di metrica; parlava anche di pittura e di scultura. Questo in altri luoghi; a Sparta però s’intratteneva di genealogie, di colonie, di affari, poiché gli Spartani, desiderosi com’erano di predominio, amavano questo genere di discorsi. C’è di lui anche un Dialogo troiano, di cui ecco l’argomento: Nestore in Troia conquistata suggerisce a Neottolemo figlio di Achille che cosa deve fare per acquistar fama d’uomo valente. Incaricato di ambascerie più spesso d’ogni altro greco, per conto della città di Elide, non solo non gli capitò mai di diminuire la propria fama sia in pubblici discorsi, sia nelle discussioni, ma anche acquistò moltissime ricchezze, e fu iscritto nelle tribù di città piccole e grandi (Filostrato, Vite dei sofisti, libro I, cap. 11, §§ 1-5 = Ippia, 86 A 2 e B 5 DK)

Tu [Ippia] sei assolutamente il più esperto degli uomini in moltissime arti, come appunto ti sentii vantare, una volta che in piazza, presso i banchi dei cambiavalute, esibivi la tua grande e invidiabile sapienza. Raccontavi d’esser andato una volta ad Olimpia portando indosso tutte cose fatte da te: anzitutto l’anello (cominciasti da questo) che avevi, dicevi esser opera tua, poiché tu sai incidere anelli; e un sigillo, anche opera tua, e un raschiatoio e un’ampollina da olio foggiati da te; poi, i calzari che portavi dicevi averli tu stesso lavorati, e aver tessuto il mantello e la tunica; ma quel che a tutti parve più straordinario, e prova di sapienza somma, fu quando dicesti che la cintura della tua tunica era uguale alle più ricche cinture persiane, e tale l’avevi foggiata tu stesso; oltre a ciò dicevi di aver portato con te delle tue composizioni poetiche, come poemi epici e tragedie e ditirambi, e poi molti discorsi in prosa, sugli argomenti più svariati; e di essere venuto provvisto, più di qualsiasi altro, di dottrina in quelle arti che testé nominavo, cioè nell’uso corretto dei ritmi, degli accenti e delle lettere, e di ancor altre moltissime cose oltre queste, a quanto mi par di ricordarmi. Ah, ecco, dimenticavo quel tuo artificio mnemonico, nel quale pretendi d’esser illustre davvero (Platone, Ippia minore, 368a5-d7 = Ippia, 86 A 12 DK)

«Certamente» disse Ippia, «io cerco sempre di dir qualcosa di nuovo» (Senofonte, Memorabili, libro IV, cap. 4, § 6 = Ippia, 86 A 14 DK)

Di questi concetti forse alcuni si trovano detti in Orfeo, altri in Museo; in breve, alcuni qua, altri là; alcuni in Esiodo, altri in Omero, altri in altri poeti, altri in libri di prosa; e alcuni detti da Greci, altri da non Greci. Io poi, scelti tra tutti i più importanti e affini tra loro, ne farò questo nuovo e multiforme discorso (Clemente di Alessandria, Stromati, libro VI, cap. 2, sezione 15, § 2 = Ippia, 86 B 6 DK)

Pertanto, se Ippia acconsente, chiederei volentieri che cosa pensa di questi due uomini [scil. Achille e Ulisse], quale dei due egli ritiene essere migliore, dato che ci ha mostrato molte altre svariate particolarità di altri poeti e di Omero (Platone, Ippia minore, 363b5-c3; trad. di Rosa Maria Parrinello)

Sì, per Giove, Socrate, anche di recente riportai là [a Sparta] un gran successo, parlando delle nobili occupazioni a cui conviene che un giovane si dedichi. Io ho appunto su quest’argomento una composizione magnifica, soprattutto per la scelta dei vocaboli. Lo spunto e il principio del dialogo è su per giù questo: dopo la presa di Troia, immagino che Neottolemo domandi a Nestore quali siano le nobili occupazioni alle quali debba dedicarsi un giovane per farsi un ottimo nome. Dopo ciò prende la parola Nestore, che gli suggerisce moltissime e bellissime norme. Io lo recitai là, e sto per recitarlo anche qui doman l’altro nella scuola di Fidostrato, insieme a molte altre composizioni degne d’esser udite; me ne pregò Eudico, figlio di Apemanto (Platone, Ippia maggiore, 286a3-c2 = Ippia, 86 A 9 e B 5 DK)

Io dico dunque che Omero ha voluto rappresentare Achille come il più valoroso di quanti andarono a Troia, Nestore come il più saggio, e Ulisse come il più versatile d’ingegno (Platone, Ippia minore, 364c4-7 = Ippia, 86 A 10 DK)

…il sapiente è autarchico (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VI, § 11; trad. mia)

[I testi di Ippia sono citati in traduzione italiana dal capitolo 86 di Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969. L’estratto dell’Ippia minore tradotto da Rosa Maria Parrinello è in Enrico Maltese (a cura di), Platone: Tutte le opere. Vol. 3, Roma, Newton Compton, 1997]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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