Si nota all’imbrunire, l’ultimo testo scritto e diretto da Lucia Calamaro, è in questi giorni in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Abbiamo intervistato la drammaturga e regista.
Lucia Calamaro detesta la chiacchiera e vuole la conversazione. Allora ha inventato un teatro che possa custodirla. In questi giorni il pubblico milanese sta applaudendo, al Piccolo Teatro Grassi, Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato), coproduzione tra Cardellino srl e Teatro Stabile dell’Umbria. Prima sono venuti Tumore. Uno spettacolo desolato, Autobiografia della vergogna. Magick, L’origine del mondo. Ritratto di un interno, Diario del tempo e La vita ferma. Sguardi sul dolore del ricordo.
L’autrice, nata a Roma, cresciuta in Uruguay e formatasi tra Parigi e il resto d’Europa, tornava in Italia nel 2002, dedicandosi alla scrittura per il teatro e alla regia nell’ambiente indipendente capitolino, tra centri sociali e spazi occupati (Villaggio Globale e Rialto Santambrogio). Oggi è prodotta dai maggiori teatri italiani e la sua scrittura tradotta in diverse lingue: la sua parola drammaturgica possiede una qualità complessa, riproduce il movimento ellittico del pensiero e del pensiero espone anche le incongruenze, le piccole fratture, le ridondanze e la vertigine. Si può dire che Calamaro abbia coniato una nuova lingua teatrale, digressiva e sovrarticolata, intensamente sentimentale ma piena di precisione: uno strumento al servizio del tentativo di nominare i processi emotivi e psicologici, per natura sfuggenti. In questo senso, semantico prima ancora che tematico, il suo teatro pare essere la sede di una «vera conversazione».
La raggiungo al telefono, il giorno dopo il debutto milanese, per parlare del processo creativo, di come si articoli a partire proprio dalla pagina, ma anche di cura dell’ascolto e di teoria del colore, di come la sua formazione intellettuale e accademica francese si relazioni, nella scrittura, con il tessuto fonetico della lingua italiana, e di spazi mentali che riverberano negli spazi scenici.
La tua scrittura racchiude uno sforzo di significazione e una forte sensibilità semantica ai dettagli. A volte si affaccia un lessico neuroscientifico, necessario a nominare, con il massimo della precisione, i processi emotivi. Accanto a questa funzione descrittiva mi sembra ci sia una componente ritmica, sonora (Christian Raimo ha parlato di «velocità di verbigerazione») che è un vero e proprio “dato scenico”. Come tieni insieme, nel momento della scrittura, queste esigenze?
Io lavoro “di flusso”, non costruisco a tavolino. Quello che tu identifichi credo abbia a che vedere con la mia formazione, che è insieme letteraria-scientifica; quindi le mie letture si traducono poi in quella lingua. Però non c’è strategia o una lavorazione finalizzata a ottenere quel tipo di movimento e di vibrazioni; potrei dirti, con molta onestà, che quella sono io, che quella lingua è ciò che più mi somiglia. Tutto il lavoro si posiziona in un secondo momento, perché la lingua non è subito evidentissima agli attori. C’è sempre un momento di difficoltà, che si presenta come un problema di memorizzazione del testo da parte degli interpreti, ma che poi si prolunga anche sulla scena, abbandonato il copione: credo abbia a che vedere con il fatto che devono assorbire un essere umano che si traduce in una lingua. È una specie di “possessione” dell’attore, uno strano mélange alchemico tra me e loro, che passa esattamente per la lingua.
In effetti, soprattutto nei monologhi, i diversi personaggi sembrano somigliarsi molto tra di loro, nella tensione introspettiva, nello sforzo di nominare quello che provano e anche nelle scelte lessicali. In che modo lavori sulla direzione degli attori e sulla caratterizzazione dei personaggi?
Il rapporto con gli attori è un incontro, e non è mai del tutto razionale. O succede o non succede, si muove su una materia invisibile ma sicuramente sensibile: si tratta di avvertire un’empatia, e il movimento deve essere reciproco. A partire da questo incontro, in sala prove si sviluppa un contatto artistico: avviene quando io riesco a identificare la zona di questa persona che a me piace di più, che mi risveglia una sensazione incondizionata, di assoluta affettuosità, senza giudizio. Una volta compresa questa zona, tento di far muovere l’attore dentro a quell’ambiente energetico, ritmico e anche emotivo. È come se gli dicessi: «Per me lì sei più bello che in tutti gli altri tuoi ambienti possibili». A quel punto procediamo di improvvisazione, creiamo la confidenza, io chiedo loro di testare quella zona energetica e, quando loro si sono assestati in quello spettro (che non è mai strettissimo), passiamo al lavoro sul testo. Mi capita di arrivare con dei testi che mi trovo a riscrivere da capo, perché diventa evidente quanto non riescano ad aderire alla persona, al personaggio e all’energia. È un meccanismo di congiunzione e richiede un po’ di tempo, ho bisogno di lavorare senza fretta in prova. Questo però facilita veramente tanto il successivo lavoro tecnico e artistico.
Luca Ronconi, in riferimento a Jean-Luc Lagarce, ha detto: «In Italia facciamo il teatro da guardare, in Francia il teatro da ascoltare». Vorrei ci parlassi di questo punto di incontro, tra il tuo pensiero per formazione francese e l’energia italiana della tua lingua.
È un po’ così. Da una parte mi interessa tantissimo l’ascolto dello spettatore, ci penso costantemente, mi domando se possa farcela a sostenere il flusso della parola. Visto che faccio spettacoli lunghi mi devo concentrare, in sala prove, sulla ricezione, devo interrogarmi sul livello di stanchezza del pubblico, tagliare e modificare di conseguenza, uccidere scene. Non voglio che lo spettatore rimanga seduto in poltrona con i suoi pensieri, voglio davvero portarlo dentro i miei mondi. So che c’è una misura da mantere per riuscirci: il centro del mio lavoro è sull’ascolto, non sull’immagine, io seduco con l’ascolto. Ecco, questo sì, è un procedimento molto razionale: non c’è la spontaneità della materia sensibile, ma ci sono un metodo e un controllo ereditati dalla scuola francese. Dall’altra parte, però, c’è l’irruenza di una lingua espressiva ed energica come l’italiano, e si tratta, di nuovo, dell’unione di un carattere naturale con un metodo che lo disciplina e lo misura.
Due elementi di dettaglio, ricorrenti nei tuoi lavori: la conservazione dei nomi propri degli attori per i personaggi e la presenza, quasi sempre, di un titolo e di un sottotitolo.
Non riesco a parlare a una persona chiamandola con un altro nome. Forse perché tutto inizia con un caffè; avendo a che fare con un essere umano mi sembrerebbe assurdo poi, di colpo, cambiare il nome. Per me esiste fortemente la presenza umana dell’altro, o almeno io ci confido molto. Il mio autore, da piccola, era Samuel Beckett, ho il ricordo di quella drammaturgia pensata (e segnalata espressamente) “in funzione” di quegli attori. Commediografo è una parola antica, però esprime bene questa idea dello scrivere per l’attore, avendolo sempre presente, almeno nel retropensiero. Ecco, per me funziona così.
Quanto ai titoli e sottotitoli, credo c’entri il fatto che ho avuto per tanto tempo la “tentazione universitaria”: negli stessi anni in cui lavoravo in teatro, pensavo anche di intraprendere una carriera accademica in sociologia e scienze umane. Quindi ho l’abitudine alla bibliografia, ai saggi, all’esercizio di esplicazione, che trasporto nell’impianto drammaturgico. Anche qui si avverte l’impostazione francese: il titolo può essere simbolico, ma il sottotitolo deve spiegare.
Ho percepito nei tuoi lavori la presenza di luoghi “di confine”: il terrazzo di Riccardo ne La vita ferma, il reparto d’ospedale che è l’habitat di Tumore, il paesino dove si ritira Silvio in Si nota all’imbrunire. Come sviluppi la relazione tra l’ambiente scenico e l’evocazione di questi spazi mentali, queste “soglie” tra dentro e fuori? E come gestisci l’uso del colore in scena?
È vero, da qualche parte nei miei lavori c’è questo rapporto con il limite, il varco, la soglia: tra la vita e la morte. È tutta una poetica orientata – senza paura, bruttura e ombre – a un pensiero pacificato con la fine della vita, e quindi con quello che c’è appena prima. Questi luoghi di cui parli sono sempre un po’ la zona del penultimo, dell’“appena prima”. Ricado lì, sto sempre sull’uscio, in questo “aldiquà” di confine.
Quanto al colore, io amo il monocromo, ma odio il nero. Mi infastidisce guardare le cose scure: il nero del teatro – le quinte, le pareti – mi innesca il desiderio di sconfiggerlo, per questo creo sempre una scena estremamente luminosa. Il colore subentra come rottura, serve a definire una qualità specifica, un punto di fuga, dove l’occhio si attacca. Nel bianco, l’occhio credo funzioni come il pensiero: oscilla da destra a sinistra, da una cosa all’altra, e appena capta un punto di colore ci si appiglia deliberatamente. Cerco di dosare il colore in modo da indirizzare questa possibilità dello sguardo di catalizzarsi: lo sguardo che si fissa è un pensiero che si fissa, segna un momento di attenzione. La luce diffusa, tanta e chiara, è un vagheggiare del pensiero che accompagna l’introspezione dei personaggi.
In un’intervista hai dichiarato che spesso le scene ti arrivano in forma di visioni improvvise, in modo del tutto inconscio, e che poi tenti di inserirle nell’allestimento scenico. Come avviene questo inserimento?
Io decido mesi prima di voler lavorare attorno a una determinata questione. Il prossimo si chiamerà Nostalgia di Dio, e stavolta non c’è sottotitolo. Fisso un luogo del pensiero, o del sentire, che voglio indagare attraverso uno spettacolo e, mentre gradualmente approfondisco, ho come delle epifanie, del tutto casuali. Nel tempo ho capito che, quando succede così, quella scena è giusta. Mi appare all’improvviso mentre faccio altro, però poi la trattengo, rimane: allora provo a scriverla, la verifico in sala prove, e in questo modo si sono sviluppate quelle che credo siano le mie scene più belle. Provengono da zone a me sconosciute, punti dell’inconscio in cui mi sono impigliata perché stavo lavorando su quel grado del sentire. Poi c’è naturalmente un lavoro di costruzione, più razionale e più sereno, un momento di elaborazione dei legami tra queste visioni. La sala prove, per me, è il luogo della concentrazione. Mi riferisco a un livello estremamente intenso di concentrazione, simile a quello di quando si scrive una tesi, o si prega. È il momento in cui i pensieri arrivano più fluidi e, in quella intensità, si può stabilire la costruzione tra un’epifania e l’altra.
Ilaria Rossini
fino al 31 marzo 2019 al Piccolo Teatro Grassi di Milano, all’Arena del Sole di Bologna dal 17 al 19 aprile, dal 3 al 12 maggio al Teatro Bellini di Napoli, dal 14 al 19 maggio 2019 al Teatro Argentina di Roma.
SI NOTA ALL’IMBRUNIRE
(solitudine da paese spopolato)
di Lucia Calamaro
con Silvio Orlando
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi Ornella e Marina Campanale
luci Umile Vainieri
regia Lucia Calamaro
produzione Cardellino srl
in coproduzione con Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
Spettacolo presentato nell’ambito del protocollo d’intesa tra Napoli Teatro Festival Italia e Festival dei Due Mondi di Spoleto.