Al Teatro dell’Opera di Roma ha debuttato Orfeo e Euridice di Gluck/Calzabigi, con la direzione di Gianluca Capuano e la regia di Robert Carsen. Recensione.
La stagione 2018/19 del Teatro dell’Opera di Roma continua a mantenere alto il proprio livello qualitativo, con il nuovo allestimento, realizzato in coproduzione con il Théâtre des Champs-Elysées, lo Château de Versailles Spectacles e la Canadian Opera Company. Dopo più di mezzo secolo, torna al Costanzi l’Orfeo ed Euridice di Gluck, con la direzione di Gianluca Capuano e la regia di Robert Carsen, uno dei registi d’opera più acclamati degli ultimi vent’anni.
Il sipario si apre ed entriamo in un altro mondo, quello del «timeless modern», come lo definisce lo stesso Carsen nell’intervista allegata al libretto: una modernità senza tempo, né collocazione spaziale. Il “non luogo” scelto per ambientare questo Orfeo è una landa desolata, un tappeto di brecciolino grigio, che sembra quasi il suolo lunare, accerchiato da un telo bianco dalla forma ellittica, sul quale vengono riflesse e proiettate le luci. Siamo al funerale di Euridice. Il coro di Pastori e Ninfe, vestito a lutto, cerca di stare vicino all’inconsolabile Orfeo (Carlo Vistoli), che sta perfino per togliersi la vita con un pugnale. A turno, i partecipanti al funerale gettano nella tomba aperta di Euridice una pala di terra ed escono di scena. Orfeo rimane totalmente solo, sospeso nel nulla di quel luogo, a piangere la morta dell’amata.
È questa l’ambientazione in cui si svolgono i tre brevi atti dell’opera. Solo 85 i minuti che servono alla coppia Gluck-Calzabigi nel 1762 per raccontare la celebre storia d’amore tra Orfeo ed Euridice. Gluck, con quest’opera, segna infatti l’inizio di quella che verrà chiamata “riforma gluckiana”, un’operazione di semplificazione e di eliminazione progressiva di ogni elemento secondario al dramma: i balli, le lunghe arie col “da capo”, il contrappunto, ogni tipo di eccesso stilistico dei cantanti viene epurato, a vantaggio dell’essenzialità. In questa versione dell’Orfeo, rispetto alle precedenti, viene abbandonata persino la metafora della musica come arte, se non superiore, pari alla poesia. Se nell’Orfeo di Monteverdi (1607) il protagonista riesce a penetrare negli Inferi grazie al suo grande talento musicale, qui le furie sono mosse esclusivamente dal dramma della vicenda privata di Orfeo, dal suo strazio d’amore.
Essenziale è la parola per comprendere l’approccio di Carsen a questa regia, direzione che si esprime essenzialmente con pochi studiati movimenti, concentrati esclusivamente sul nodo drammatico dell’opera, così come voleva Gluck. Lo vediamo a partire dalla soluzione adottata per generare quello che è uno spazio più immaginifico che reale. A Carsen e al suo light designer Peter Van Praet non servono proiezioni, videomapping o le nuove tecnologie digitali per ricreare i boschi ameni o i campi elisi. Le care vecchie luci, magistralmente orchestrate in modo modernissimo, costruiscono via via spazi fisici sempre diversi, disegnando contemporaneamente il luogo emotivo della vicenda. Minimalismo nella sua pura essenza, senza risultare concettuale, pochi semplici richiami simbolici, che si rifanno ai quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Attraverso la tomba di Euridice, scavata nel terreno, Orfeo discende negli Inferi. Qui vi trova le furie spettrali, esseri bianchi che strisciano al suolo come larve. Queste spengono la fiamma ardente nel cuore di Orfeo, fisicamente quella delle fiaccole che delimitano lo spazio infernale, utilizzando delle ciotole riempite d’acqua. Finalmente vede la sua amata Euridice (Mariangela Sicilia), che però non può guardare.
Quando la direzione musicale riesce a concordarsi con quanto vediamo in scena, riuscendo, insieme, a esprimere i nodi centrali dell’opera, il risultato è uno spettacolo di grande intensità e conseguentemente di successo. Lo dimostrano il teatro pieno, alla seconda replica, e gli applausi che scappano di mano alla fine delle arie dei due protagonisti. Il maestro Capuano è essenziale tanto quanto Carsen, precisissimo, una conduzione che fluisce lieve, elegante, ma attenta al dramma della vicenda. Carlo Vistoli è un controtenore molto intenso che, nel puro rispetto dello stile dell’opera, non si lancia mai in eccessivi virtuosismi, rendendo lo stile falsettistico, proprio della parte, incredibilmente naturale. Insieme a Mariangela Sicilia, creano una coppia armonica, a lungo, giustamente, applaudita dal pubblico in sala.
Nell’atemporalità del mito greco si collocano i due protagonisti, un uomo e una donna dei nostri, ma di tutti, i tempi, che combattono contro le due pulsioni fondamentali della vita stessa: amore e morte. È il deus ex machina Amore (Emőke Baráth) che impedirà fisicamente per due volte a Orfeo di togliersi la vita e che indosserà prima i panni di lui, poi i panni di Euridice, diventando la personificazione del sentimento dei ragazzi. I due concetti di eros e thanatos sono così intimamente legati in questa versione che si ha l’impressione di non aver mai lasciato il funerale di Euridice. Nonostante il momento di gioia del finale, con la resurrezione della donna, con il ballo del coro e il duetto d’amore dei due, tutto è ancora grigio, cupo, c’è un’aura di solennità. Sul finale i pastori sollevano i due amanti in alto, che si baciano, mentre dietro di loro c’è Amore, con un telo bianco sulle spalle e le braccia a triangolo, come a riprodurre la classica iconografia del Dio cristiano. Per un attimo viene il dubbio che Orfeo ed Euridice siano entrambi morti, piuttosto che entrambi vivi, ma la morte, ora, è qualcosa di sereno, pacifico.
Flavia Forestieri
Marzo 2019, Roma, Teatro dell’Opera
Orfeo ed Euridice
Musica Christoph Willibald Gluck
Azione teatrale in tre atti
Libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Prima rappresentazione
Vienna, Burgtheater, 5 ottobre 1762
Durata: 1h 30′ circa senza intervallo
DIRETTORE Gianluca Capuano
REGIA Robert Carsen
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE E COSTUMI Tobias Hoheisel
LUCI Robert Carsen e Peter Van Praet
PRINCIPALI INTERPRETI
ORFEO Carlo Vistoli
EURIDICE Mariangela Sicilia
AMORE Emőke Baráth
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento
in coproduzione con Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles Spectacles, Canadian Opera Company
con sovratitoli in italiano e inglese