Pubblichiamo un’intervista raccolta in esclusiva italiana. Ilse Ghekiere è un’artista e un’attivista, fondatrice del movimento Engagement, impegnata a battersi contro il sessismo, le ingiustizie e le presunte molestie sessuali subite da alcuni performer nel mondo della danza e del teatro.
Aggiornamento 30 aprile 2022: Il tribunale di Anversa ha dichiarato Jan Fabre colpevole di bullismo, violenza e comportamenti sessuali indesiderati.
Questo contenuto è prodotto e distribuito in collaborazione con Dinamopress.
Traduzione intervista dall’inglese a cura di Gaia Clotilde Chernetich e Sergio Lo Gatto (Teatro e Critica)
traduzione lettera aperta dall’inglese a cura di Marina Donatone
Sessismo, molestie sessuali, abuso di potere. Negli ultimi anni, il movimento #metoo è esploso gettando luce su una situazione ampiamente nota, ma ancora non completamente espressa. Ora che i riflettori e l’attenzione dei media potrebbero cominciare di nuovo ad affievolirsi, ci siamo domandati: e adesso? Quando il dibattito su #metoo era in pieno corso, abbiamo tutti osservato la situazione chiedendoci dove mai tutto questo avrebbe portato. Eravamo al corrente della situazione e del potenziale “punto di non ritorno” che ci saremmo trovate e trovati ad affrontare.
Dal momento che permette a una consapevolezza di emergere, qualsiasi esperienza ci insegna quanto abbiamo bisogno di diverse strategie di educazione e quanto dobbiamo sforzarci a non reiterare dinamiche di potere e di manipolazione. Di certo, la questione non riguarda esclusivamente le artiste, o le donne in generale, ma tutte le figure che partecipano alle arti sceniche.
Legata a un suo precedente articolo (#Wetoo: What Dancers Talk About When They Talk About Sexism), la lettera aperta co-firmata da venti ex performer e collaboratori della compagnia Troubleyn / Jan Fabre (qui la traduzione italiana) ha aiutato a rompere il silenzio all’interno del mondo della danza.
Per fare il punto sulla situazione, abbiamo aperto un approfondito dialogo con la danzatrice e attivista belga Ilse Ghekiere la quale, attraverso il proprio contributo, ha aiutato a dare voce a coloro che stavano affrontando le conseguenze di una giustizia mancata. Il conflitto evidenziato dagli artisti firmatari della lettera esprime l’effetto di qualcosa che deve essere affrontato, in modo che la situazione evolva e che le cose possano prendere presto un nuovo corso. Ci stiamo imbarcando per un viaggio che potenzialmente non ha fine, e che ci riguarda tutti.
Come racconterebbe la storia del suo impegno nel movimento #metoo nelle arti performative a qualcuno che non ne abbia mai sentito parlare? Come è nato il suo coinvolgimento?
Quelli che sto per elencare sono i punti chiave del movimento #metoo nella scena della danza belga:
1) Nel 2017 ho pubblicato un articolo che ha spinto il Ministero della Cultura belga a commissionare un’indagine nel settore artistico e culturale.
2) Insieme ad alcuni colleghi abbiamo creato un gruppo segreto su Facebook che si è poi trasformato in un più ampio movimento artistico collettivo chiamato Engagement.
3) Nel frattempo, Engagement ha redatto una dichiarazione e ha organizzato diverse azioni come incontri settimanali, una lettura pubblica di testimonianze al Kaaitheater di Bruxelles, azioni per sensibilizzare la consapevolezza relativa alla presenza e alla rappresentazione dei generi nelle programmazioni teatrali e, inoltre, portato avanti attività di lobbying con i sindacati e con il governo.
4) Flemish TV ha trasmesso una controversa intervista a Jan Fabre nel momento in cui il piano d’azione è stato diffuso dal Ministero.
5) La redazione e la diffusione della lettera aperta.
6) La Dichiarazione dei Coreografi che riconoscono la questione e si impegnano a cambiare la situazione.
7) Una lettera a un teatro di New York, scritta in collaborazione con la comunità di danza locale, in cui si mette in questione il loro ruolo come istituzioni.
Il mio impegno è iniziato alla fine del 2016. Ho cominciato a lavorare grazie a un finanziamento dedicato agli artisti che si trovano in un momento di transizione della propria carriera. Ho lavorato come performer per più di dieci anni, ma ho anche conseguito una laurea in storia dell’arte e iniziato un dottorato di ricerca, per poi tornare a danzare dopo un anno. Il finanziamento mi serviva per mettere le mie capacità al servizio di un argomento per me molto interessante da approfondire, il sessismo. In particolare, volevo approfondire questo termine nel contesto della scena della danza belga. Allora pensavo che il risultato sarebbe stato qualcosa di molto più vicino a un progetto artistico, mentre si è poi spostato sull’attivismo e sulla costruzione di una comunità. Il primo articolo è uscito in concomitanza con l’unico altro caso #metoo in Belgio. Dopo la sua pubblicazione le cose hanno cominciato a cambiare e so che l’articolo ha avuto forte impatto su diverse compagnie, dando vita a un delicato dibattito. Avevamo rotto il silenzio.
Che cosa è successo dopo la pubblicazione dell’articolo?
Innanzitutto, abbiamo ricevuto molta attenzione dai media e alcuni colleghi hanno sentito di dover fare di più. Abbiamo creato un gruppo segreto su Facebook, un’idea presa in prestito dalla Scandinavia, per raccogliere testimoni aderenti ai principi del #metoo. Ciò ha finito per essere molto complesso per la scena di Bruxelles, così abbiamo organizzato una serie di incontri settimanali aperti rivolti a danzatori che si identificano con il genere femminile. Il progetto era di incontrarsi per condividere esperienze e per ragionare su possibili iniziative di attivismo. Il risultato di quegli incontri, così come delle stesse storie condivise, è stata la decisione di aprire un sito web. Sembrava che nessuno sapesse davvero che cosa fare di fronte alle molestie sessuali o alla discriminazione incontrata in un contesto di lavoro. Ecco come ha preso vita il movimento anti-sessista Engagement: abbiamo cominciato a condurre ricerche su come ci si potrebbe comportare rispetto a questi incidenti e abbiamo reso i ragionamenti accessibili online.
Portando avanti il processo abbiamo ricevuto diverse testimonianze da danzatori e danzatrici, ma anche da attori, artisti visivi e musicisti. Certe situazioni accadevano nei teatri, altri in piccole compagnie, altri nelle scuole e nelle accademie. La natura delle testimonianze era estremamente variegata. Ho notato che la casella email collegata al mio articolo riceveva più segnalazioni relative a Troubleyn. Benché la mia ricerca non fosse espressamente focalizzata su Jan Fabre, continuavo a sentire che “ogni passaggio” del mio articolo rifletteva quell’esperienza. Dopo otto o nove interviste, la traccia era inconfondibile. Era chiaro che si trattasse di uno schema ricorrente in diverse esperienze.
Inizialmente non avevamo idea di come gestire la massa di informazioni: rivolgerci ai giornali? Scrivere un altro articolo? Alcune persone, dopo aver realizzato che la propria non era stata un’esperienza isolata, cominciavano a pensare a un’azione legale, ma in verità nessuno era completamente convinto di quell’approccio. Nessuno era interessato al denaro o a una forma di punizione, ma persisteva un forte bisogno di giustizia. Tuttavia, come fare? Ricordo di aver, ingenuamente, proposto di scrivere una lettera alla compagnia e di instaurare un dialogo, ma gli altri mi risero in faccia, dicendomi che non c’è alcun modo di avere una conversazione aperta con Troubleyn. Sottolineavano le condizioni economiche di cui godevano figure come quella di Jan Fabre, che avrebbero potuto disporre di ottimi avvocati. In qualità di danzatori precari, nessuno pensava di avere realisticamente una chance. È incredibile notare come le persone continuassero ad essere intimidite dal potere anche una volta prese le distanze dalla situazione in cui quello stesso potere era stato messo in azione. Nessuno del gruppo originario che avevo intervistato aveva vissuto un’esperienza simile di recente, perciò anche se lo schema di comportamento suggeriva l’opportunità di comporre un potenziale caso di gruppo, un’azione legale sarebbe stata possibile solo in presenza di una testimonianza recente che avesse a disposizione delle prove. Ma come si produce la prova di una molestia sessuale? A meno che non esista una testimonianza scritta in un messaggio, una email o una nota vocale, non esiste una prova schiacciante. Tutti questi casi erano accaduti in un contesto privato, senza testimoni. Non avevo idea di che cosa stesse succedendo, allora, nella compagnia. Avevo sentito di certe discussioni (il che era un buon segno), ma sapevo anche che non avevano avuto seguito. In qualche modo speravo che le cose migliorassero dopo la pubblicazione del mio articolo, poi, verso la primavera di quell’anno, un membro ha lasciato la compagnia e scritto in una email: «Me ne vado a causa di una “#metoo experience”». Ricevuta questa notizia, mi sono resa conto che le cose, dopotutto, non erano cambiate affatto. Era la prima volta che entravo in contatto con uno di loro; questa persona mi ha risposto che il movimento #metoo e il mio articolo avevano aiutato lei e altri colleghi della compagnia a condividere ciò che succedeva all’interno di Troubleyn e che erano stati utili per individuare il problema e dargli un nome. Non volevo forzare la situazione, per cui ci è voluto un po’ di tempo prima che ci trovassimo a parlare.
Un mese dopo, Jan Fabre ha rilasciato un’intervista alla TV pubblica (quella menzionata all’inizio della lettera) in cui accennava a un «faux pas», un passo falso. Il Ministro della Cultura aveva pronta un’interrogazione per molestie, che è stata presentata alla stampa all’inizio dell’estate e il giornalista è riuscito a fargli riportare al microfono particolari che risultavano provocatori e lontani dalla realtà di alcuni danzatori e dalla loro esperienza.
Come avete reagito?
Alcuni danzatori che vivono in Belgio si sono infuriati vedendo l’intervista. L’intervista è stata quindi tradotta e condivisa con gli ex danzatori della compagnia Troubleyn che vivono all’estero. In quel momento, è partito anche un giro di email ed è stata discussa la seguente proposta: «Ci sentiremmo abbastanza forti da scrivere/supportare/firmare una lettera in cui indichiamo che qualcosa deve cambiare nella compagnia guidata da Jan Fabre? Insieme possiamo pensare al contenuto della lettera, in modo che vengano comunicati i giusti valori e le giuste preoccupazioni. Engagement può di certo incaricarsi di gestire l’intero processo, di modo che la redazione della lettera rimanga anonima. Questa lettera poteva anche avere la funzione di una sorta di “chiamata” indirizzata al Ministero della Cultura, perché in questo piano politico di lotta alle molestie abbiamo bisogno di qualcosa di più del solito sistema e di qualche linea di condotta. È necessario il coraggio di istituire un dialogo diverso. È necessario guardare alle molestie sessuali e metterle in relazione con i salari bassi, con il sessismo e con l’abuso di potere nella danza. È necessario raggiungere e coinvolgere tutti i colleghi. In questo modo evitiamo di rivolgere l’attenzione solo e soltanto su Jan Fabre. Quella di demonizzarlo non è una soluzione. Nessuno si rafforza nel pensare che gli esseri umani siano dei mostri. Come questa lettera venga diffusa, poi, è una questione diversa. Se la condividiamo pubblicamente, potremmo pubblicarla su Rekto:Verso (la rivista che ha ospitato l’articolo su #metoo). Possiamo di certo anche indirizzarla direttamente a Troubleyn e al Ministero della Cultura, ma in questo modo perderemmo l’occasione di un dibattito pubblico».
Dopo quella email ancora più danzatori sono stati coinvolti. Al dibattito si sono aggiunte tre persone che avevano appena lasciato la compagnia per solidarietà verso coloro che avevano scritto la “#metoo-mail” o perché avevano vissuto esperienze simili. Una giovane danzatrice che per prima ha lasciato la compagnia è stata molto coraggiosa: si era appena diplomata e aveva rinunciato a tre diversi grandi progetti, uno dei quali era un solo. Era stanca del modo in cui veniva trattata e si sentiva totalmente bloccata da una costante manipolazione. È una decisione caparbia, quella di lasciare il tuo primo lavoro, un lavoro come quello, e ritrovarsi disoccupata e con nessun altro beneficio.
C’è voluto un mese di scambi. Il gruppo di Engagement si è rivolto a un sindacato per avere supporto, ma non si è potuto fare molto perché Troubleyn non ha un sindacato attivo all’interno della compagnia. Eravamo consapevoli che tutto questo avrebbe attirato l’attenzione dei media; in questo senso, dunque, la scrittura collettiva della lettera è stato anche un modo per mantenere il controllo sulla nostra narrazione. C’erano un altro paio di lettere aperte relative a #metoo nell’ambiente artistico, che hanno ispirato la nostra operazione; una di queste era relativa al direttore di Art Forum. Era molto importante che si trattasse di una lettera collettiva scritta dai danzatori, e da nessun altro. Engagement avrebbe potuto supportare e aiutare a coordinare il tutto, ma la lettera doveva essere scritta da loro.
Come avete lavorato alla redazione della lettera?
È stato un processo interessante, le persone hanno scritto le proprie testimonianze e questo è avvenuto in maniera indipendente, in modo che non si influenzassero. Io ho ascoltato e analizzato le loro storie. Solo le esperienze che si ripetono possono essere usate per supportare un messaggio collettivo. Le informazioni sono state condivise con un paio di danzatori che erano particolarmente impegnati nella scrittura della lettera. È stato molto simile a un progetto di storia orale, teso a raccogliere tutte le informazioni restando però il più possibile oggettivi. Era chiaro che l’umiliazione e il bullismo rappresentavano delle zone grigie, indossando la maschera della trasgressività. A ritornare spesso nelle conversazioni erano i progetti fotografici di Jan Fabre… i danzatori mi hanno detto che quando un danzatore o una danzatrice non si trovava d’accordo con la proposta ricevuta veniva punito durante le prove o su un più generale livello professionale. Molti rapporti all’interno della compagnia richiamavano relazioni di co-dipendenza ed erano alimentati da una competizione indotta tra i danzatori stessi; il modo in cui le persone si interfacciavano una con l’altra, con i danzatori meno giovani che supportavano questo sistema di bullismo gerarchico e gli altri che – una volta entrati nel meccanismo – erano forzati a reiterare la stessa dinamica. Una danzatrice mi ha detto di sentirsi come se stesse uscendo fuori da un lavaggio del cervello.
Nel corso delle interviste emergevano diversi aspetti problematici, come lamentele su una non equa o non corretta distribuzione del salario e sul tipo di procedura da seguire in seguito agli infortuni. Lo sfinimento fa parte del lavoro artistico, ma rende il performer vulnerabile dal punto di vista fisico e psicologico. Pare che non ci fosse tempo sufficiente per una vera e propria guarigione dagli infortuni; le lunghe ore di prove, ma anche le audizioni facevano sì che i danzatori stessero sempre “in bilico”; durante le tournée, inoltre, secondo alcuni danzatori la privacy tendeva a mancare del tutto.
Veniva segnalato un ambiente iper-competitivo e una generale mancanza di solidarietà tra i danzatori sembra fosse stimolata e strutturata dalle stesse modalità di lavoro. Questo aspetto si collegava a una dinamica basata sul binomio “castigo/ricompensa”, nel quale ciascuno è intento a rintracciare gli imprevedibili sbalzi d’umore del coreografo. Ciascuno lo descriveva come un ambiente in cui si è costantemente forzati a tentare di compiacere o impressionare il capo in modo da evitare problemi. A essere messe in discussione erano anche le modalità di creazione. Pare che Fabre, per dare forma alla propria arte, utilizzi mezzi come manipolazione, umiliazione (commenti denigratori) e violenza (verbale e fisica). A lui piace individuare un capro espiatorio per creare competizione e per forzare ogni tipo di confine; usa la “fiducia” come un’argomentazione utile a non ascoltare i reclami espressi dalle danzatrici (“devi fidarti di me”). Una danzatrice spiegò come sembrava che ci fossero due distinti approcci nei confronti della “idea delle donne”. Da un lato, nelle proprie opere, posiziona le donne su un piedistallo: vengono loro assegnate pose scultoree, assoli; rappresentano un’idea di sessualità, bellezza e forza che, dal punto di vista pubblico, sembra celebrarle come creature mitiche e misteriose. Dall’altro le sottomette durante le ore di lavoro in prova; le riempie di commenti severi sul loro apparire (“sei grassa come una mucca”; “sei così brutta che non riesco neppure a guardarti”); sciorina commenti insensibili sulla maternità; le danzatrici hanno affermato che le scene di stupro in scena erano montate senza offrire ai performer un supporto o un reale discorso critico. Questi atteggiamenti avevano avuto un effetto negativo su alcune delle donne coinvolte nel lavoro. Nella ricerca ho notato che questo comportamento aveva smosso traumi passati (una negativa immagine di sé; disordini alimentari; remote esperienze di abuso sessuale) o creato nuovi traumi (le persone sentivano di dover entrare in psicoterapia, smettevano di danzare; operavano scelte radicali nella propria vita).
Penso che questo sia un aspetto importante della discussione che va al di là delle esperienze avvenute all’interno di Troubleyn. Dobbiamo chiederci: quali sono le ripercussioni psicologiche sul lungo termine di questi comportamenti? Troubleyn non è l’unica compagnia in cui l’arte è stata usata come “metodo di seduzione” non trasparente. In altri casi, una danzatrice mi ha detto di essere stata invitata nella stanza d’hotel di Jan Fabre. Non osava dire di no, perché la proposta era giunta come un incontro di lavoro. Poi, durante l’incontro, è stata incoraggiata ad assumere droghe…
Quando una danzatrice oppone resistenza, gli scenari possibili sono diversi, e portano a forme dirette o indirette di punizione. Per esempio, il coreografo diventa fisicamente o verbalmente aggressivo (specialmente in una fase avanzata del lavoro), la minaccia di sottrarle delle opportunità (secondo una modalità “niente sesso, niente solo”). La danzatrice è obbligata a fare i conti con questo atteggiamento ossessivo, che secondo diverse danzatrici potrebbe essere definito stalking: telefona nei momenti meno appropriati, è insistente, verbalmente aggressivo. In molti casi, è stata la danzatrice a lasciare la compagnia dopo la fine del progetto oppure, terminato il progetto, a non essere riconfermata per la produzione seguente. A volte qualcuna è stata licenziata, una danzatrice a questo proposito mi ha detto che le era stato comunicato di “non essere risultata abbastanza coinvolta”.
La danza, in generale, è un lavoro estremamente stancante, che richiede molto al corpo. È interessante notare come questo potenzi la tendenza alla manipolazione: non sto dicendo che la manipolazione sia necessaria per portare a termine un lavoro come questo, solo che questo lavoro rende certi danzatori più suscettibili all’abuso e che se lavori con un “maestro” manipolatore è molto facile restare imprigionato in giochi dubbi e incomprensibili. Questo soprattutto perché, nel caso di Jan Fabre, è interessante notare come lavori con molte persone giovani, all’inizio della propria carriera, che potrebbero non disporre del bagaglio emozionale necessario a leggere tra le righe di questi profili psicologici. È significativo come vi siano sempre molti stagisti nelle produzioni: si tratta di persone molto giovani, spesso donne, non pagate o pagate in maniera insufficiente, che provengono dall’estero e appartengono a strati sociali più bassi. Che potere hai quando devi confrontarti con richieste di sesso non consenziente?
Il concetto di limite appare molto centrale. Noi tendiamo a negoziare quali siano i nostri limiti, la nostra abilità di accettare certi compromessi, etc. Credo che, in sintesi, qui si stia parlando di questo e dell’estensione della libertà in simili contesti.
Nel suo diritto di replica, la direzione di Troubleyn ha scritto che nessuno è forzato a oltrepassare alcun genere di limite. Ma questo potrebbe essere proprio il cuore di quella stessa manipolazione, perché: che cosa significa essere forzati? Pensi di non star spingendo oltre il limite, ma, in un contesto così sovraccarico e competitivo, nel quale i danzatori si trovano a temere di perdere il lavoro… o se si sta tentando di fare una buona impressione sul coreografo, questi potrebbe trovarsi a spostare il limite in un modo non totalmente indipendente. L’idea di libertà, in molti contesti della danza, è di per sé molto limitata, perché ruota attorno a una lunga lista di condizioni che volgono quella libertà a favore di chi sta al comando.
In un contesto professionale specialmente i più giovani dovrebbero essere trattati con cura. Oltrepassare il limite per il solo gusto di farlo può diventare pericoloso. E la questione del limite non va neppure considerata nel lavoro in sé, ma riguarda ciò che accade fuori dal palco. Il fatto che tu spalanchi le gambe in scena non significa che tu sia disposta a fare lo stesso fuori dalla scena. Ironicamente, molti lavori creati da “artisti abusanti e geniali” si basano proprio su uno sguardo maschile ossessionato dall’oggettificazione della donna in scena. Secondo tutte le interviste che ho raccolto, molte danzatrici non hanno problemi a mostrarsi in maniera esplicita sul palco, ma il contesto cambia completamente quando ti trovi a fare qualcosa di simile in un “progetto privato” e a incontrare il tuo capo a casa sua, in una situazione uno ad uno. E se in quel momento cambi idea? Quali conseguenze devi affrontare?
Dovremmo parlare di consenso o di sfruttamento?
Di entrambi. Il consenso è cruciale, ma resta un concetto scivoloso, soprattutto quando persiste una chiara disuguaglianza di potere tra due persone. Quello che io ho capito, intervistando molti danzatori, è che le situazioni in cui si lavorava a “progetti privati” erano profondamente basate su principi di sfruttamento neoliberale. Lo scambio non è né giusto, né equo. Bisogna considerare che spesso i danzatori sono pagati male o non pagati affatto, perché hanno un contratto di apprendistato o perché sono in prova. E questa può essere la ragione per cui ci si ritrova in una situazione dubbia. Ti può venir offerto qualcosa e ti vengono promesse delle opportunità. Quando questo accade nel contesto di una compagnia, spesso accade segretamente e il proposito generale non è quasi mai chiaro. Certo, si potrebbe dire che si tratta di progetti d’arte, ma se fosse così, mancherebbero comunque di trasparenza. In più, molti hanno fatto riferimento alle droghe. Questo significa che le persone vengono attivamente manipolate affinché raggiungano uno stato alterato: questo non è fare arte, è solo il piacere di esercitare una forma di potere su un’altra persona. Se questa è la tua arte, perché non dire che stai manipolando i tuoi danzatori per avere la sensazione di possederli? Perché non essere onesti e sinceri?
Pensa che vi sia una sorta di “abilità” nel riconoscere quelle persone che con maggiore agio potrebbero accettare certe proposte?
Può accadere a tutti di essere vittime di manipolazione. Credo che questo derivi dal fatto che tutti desideriamo essere amati, guardati, e dal fatto che tutti godiamo nel ricevere attenzione. La vanità rappresenta una strada molto scivolosa: una persona insicura può sentirsi rafforzata dal fatto di essere sessualizzata o reificata, perché, in una logica patriarcale, il potere della donna è nel suo potenziale sessuale. Qui c’è un altro aspetto che andrebbe ridiscusso, per noi donne, ovvero quello di pensare a noi stesse in maniera differente: l’immagine della donna portatrice di un carico sessuale è uno dei più potenti strumenti del patriarcato e non dovremmo essere ingenue rispetto a questa verità.
Ha mai sentito di casi riguardanti i danzatori di sesso maschile? Nella compagnia tutto questo è capitato anche ai danzatori uomini?
Certo. Situazioni molto simili accadono anche tra gli uomini. La manipolazione patriarcale non si limita ai contesti eterosessuali. Ho trovato molta solidarietà tra i miei colleghi maschi. Per esempio, la lettera aperta è stata firmata e supportata da danzatori. Tuttavia, ci sono anche altri uomini (specialmente i colleghi più grandi di età) che si mettono molto sulla difensiva. Ho percepito una specie di fratellanza, qualcosa di simile alla relazione padre-figlio. Ancora, tuttavia, non tutti gli uomini si trovano a proprio agio in una cultura regolata da questo tipo di fratellanza. Per esempio, un danzatore mi ha detto che Fabre gli mostrò delle foto di nudo di una delle danzatrici, come se fosse una specie di trofeo. Se un danzatore si trovasse a dire di non essere d’accordo, la sua resistenza non sarebbe affatto rispettata. In generale, i danzatori l’hanno ripetuto più volte: Fabre vuole lealtà, non critiche o dissenso, a prescindere dal genere.
Questo è un modello di comportamento molto forte.
Sì, è il modello patriarcale, nel suo lato peggiore; riguarda autorità, ricchezza, prestigio, questo mondo si basa su questo. Fabre potrebbe essere visto, ma non solo lui, come l’incarnazione dell’idea romantica del genio artistico, un prototipo di comportamento di cui non si è ancora discusso abbastanza. Finché continuiamo a celebrare questo paradigma (anche se il genio artistico si incarna in una donna) non credo che avremo mai modo di infrangere questo modello. È un modello di potere, uno dei più potenti in assoluto. La lettera aperta, d’altronde, si occupa di fronteggiare diversi modelli di potere: è un tentativo di porre una questione in maniera collettiva e intelligente, svelando i meccanismi nascosti dietro alle molestie sessuali, rendendo la dimensione personale una dimensione politica. Io credo molto in queste azioni improntate a collettività, solidarietà e radicalità. Spesso lo ripeto: il movimento #metoo consiste nel grattare via la superficie del patriarcato e ora il nostro compito è quello di andare a fondo, raggiungere le ossa, il sistema nervoso. E reinventare il nostro corpo.
Tutto questo ha avuto origine da una ricerca artistica. Come ha lavorato concretamente?
Tre erano le azioni a cui tendevo. Una di queste era la ricerca, nel vero senso della parola. Ho trascorso un anno e mezzo leggendo solo autrici donne che hanno scritto sulla tematica del genere, narrativa e saggistica. Il secondo aspetto era condurre interviste e mettermi in ascolto della comunità e dei colleghi. E il terzo era escogitare pratiche fisiche che si legassero a quella ricerca. La ricerca e i materiali raccolti sono divenuti il centro del lavoro che sto svolgendo oggi. Importante è stato soprattutto leggere la letteratura femminista, nel tentativo di comprendere il patriarcato e la discriminazione sessuale. Ho creato un progetto su Instagram intitolato Open Canon, che deriva dall’interesse nel leggere il lavoro degli altri. Oggi è un modo per tenere traccia della mia pratica di lettura. Sono molto interessata al potere del canone, a come si costruisca, a come ci plasmi e a come plasmi l’immaginazione. Questo mi ha portato a scrivere un articolo a riguardo (la lettera aperta, ndr).
Diverse sono le indicazioni che ho raccolto e che mi hanno spinto verso tutto questo: ho sperimentato dei significativi “scatti femministi”, come li chiama Sarah Ahmed. Me ne sono resa conto, per esempio, nel processo di scrittura: avevo davvero la sensazione che qualunque sensazione provassi, in qualità di danzatrice, mi bloccasse nei miei impulsi creativi. Nel fatto di essere stata un giovane corpo femminile che danza, qualcosa mi aveva lasciato dei segni. In quel processo mi sono trovata a riportare alla memoria diversi episodi che in qualche modo avevo rimosso. Ho sentito di aver bisogno di svolgere un lavoro tutto mio, era chiaro che avevo qualcosa da dire. Ma ho anche pensato di non volermi rendere vulnerabile: era la mia storia, nient’altro che la storia di una singola persona. Sono occorsi un paio di mesi prima che ci pensassi e capissi che si trattava di un sentire più generale, riguardante il femminismo, il collettivo e la comunità. Poi è stato eletto Donald Trump e a quel punto mi sono detta: OK, questo è il momento di reagire a una società patriarcale e orientata al genere maschile. Non prendiamoci in giro pensando che tutto questo sparisca nel nulla. Dobbiamo alzare la voce. Dobbiamo essere organizzate e intelligenti. Non voglio parlare della mia storia, perché parlare della storia di noi stessi come danzatori, tutti insieme, ha molto più valore e può rafforzarci di più che non parlare della mia vicenda personale. Coloro che hanno firmato la lettera erano pronti per aderire a #metoo. Un collettivo si stava svegliando. Non si tratta degli individui. Non avevo in programma di diventare un’attivista, ma adoro tutte le sfaccettature che questo comporta. È fantastico firmare articoli, ma dovremmo tutti essere ghostwriter di articoli dedicati a una causa comune. Non perché in questo modo tu possa nasconderti dietro l’anonimato, ma proprio perché puoi amplificare la voce di un gruppo. È un’identità molto precisa, sulla quale vorrei continuare a concentrarmi.
Come tutto questo influenza la sua carriera di danzatrice? Questa sembra ora una sua evoluzione naturale.
Di certo questo mi rafforza molto, le cose sembrano avere più senso e, nel processo, ho imparato molto. Il patriarcato e la supremazia dei bianchi rappresentano sistemi globali di oppressione e questo è solo il principio di un lungo percorso fatto di molte azioni come “disfare” e “disimparare”. Sono solo una delle molte persone che si stanno battendo per nuove definizioni e per mettere in pratica l’uguaglianza. Oggi faccio parte di una scena della danza molto attiva e impegnata. Danzo di meno, ma sono contenta di svolgere il lavoro di attivista. Rappresenta un nuovo modo di pensare al “movimento” e, di certo, questo implica una “coreografia” decisamente interessante.
Gaia Clotilde Chernetich
Aggiornamento 30 aprile 2022: Il tribunale di Anversa ha dichiarato Jan Fabre colpevole di bullismo, violenza e comportamenti sessuali indesiderati.