Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari presentano Amleto take away al Teatro Biblioteca Quarticciolo dal 28 al 30 marzo. Abbiamo intervistato Berardi, che per questo spettacolo ha vinto il Premio Ubu 2018 come miglior attore. Un’intervista creata in modalità media partnership.
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In un’intervista hai dichiarato: «Amleto è il peggior testo di Shakespeare».
Sì, Amleto è stato considerato un testo incoerente, della produzione shakespeariana uno di quelli “scritti peggio”. Ha dei “salti” difficili, alieni rispetto alle modalità della drammaturgia dell’epoca: però è proprio attraverso questi salti che riesce a dare spazio un pensiero così profondo.
Nella nostra drammaturgia, scritta da Gabriella Casolari, coesistono molte riflessioni mescolate: Amleto è quasi un pretesto per indagare le nostre percezioni attorno al contemporaneo, a questa epoca di incertezza, di assenza di prospettiva, in preda alla confusione. Il dubbio amletico è sostituito dalla permanenza in un immobilismo, una condizione in cui sappiamo che certe cose non si possono fare. Tutto è smembrato, confuso, rovesciato. Oggi Amleto non è uno, siamo tutti Amleto, ma qualcuno riesce a praticare lo spirito critico del dubbio e procede per la propria strada. Un tipico attacco che viene rivolto alla drammaturgia contemporanea è che sia incoerente, incompiuta. A noi piacciono i testi che non chiudono formalmente il proprio percorso, perché lasciano spazio alle incursioni.
Come è stata elaborata la relazione tra attualità e plot shakespeariano?
Amleto per noi non è stato un vero e proprio punto di partenza. Amleto è un “dispositivo”, e secondo me anche per Shakespeare è stato qualcosa del genere: scrivendo questa tragedia si è tolto tanti sassolini. Parla dei paradigmi dell’essere umano (politica, famiglia, tradizione, amore), di un adolescente ma anche di una generazione “aperta”, come la nostra. Nel nostro caso il percorso è stato inverso: stavamo lavorando a un testo nostro, originale, completamente esploso, in totale libertà come facciamo sempre. Amleto è intervenuto, attraverso la maglietta dell’Inter, a vestire le nudità dello spettacolo. Abbiamo inserito nelle sue fessure varie tematiche che volevamo affrontare: la famiglia come sede di un ricatto manipolatorio, il dovere di stare in un confine tracciato, l’insicurezza, la tradizione, la messa in discussione del proprio destino, l’immobilismo dettato dalla paura di fallire. Vogliamo anche riflettere sul fatto che, nel mondo attuale, il virtuale si è sostituito al reale perché dà l’illusione di amplificare il coraggio. E poi sul teatro, che rischia di essere piccolo sistema di scambismi autoreferenziali, un circuito chiuso, onanistico appunto perché piccolo e ma, allo stesso tempo, istituzionalizzato. Leggendo Amleto abbiamo avvertito la presenza di tutti questi temi e ci siamo anche riconosciuti il diritto di parlare di cose così disparate, senza preoccuparci troppo della nostra incoerenza. Si tratta anche di un modo di rendere onore al maestro: battagliare, combattere non vuol dire solo imprimere delle nuove orme in un punto selvaggio e mai battuto, ma anche ricalpestare il sentiero già aperto da qualcuno che ha avuto il coraggio di rompere gli schemi (e penso non solo a Shakespeare, ma anche ai maestri che hanno fatto avanguardia nel Novecento), per fare sì che quelle tracce non si perdano. La giungla cresce rapidamente, bisogna cercare nuovi linguaggi ma anche lavorare perché quello che è stato conquistato non venga di nuovo sepolto.
In più di un’intervista ti riferisci alla dimensione privata e intima della rivoluzione.
I nemici più grandi che abbiamo sono quelli interiori: tutto quello che ti balena intorno ed è nefasto funziona perché fa leva e pungola qualcosa che hai dentro, che risuona potentemente e va in collisione. L’unica rivoluzione che puoi fare consiste nel modificare te stesso; ci metti tutti la vita e non è detto che tu ci riesca. Però non hai scampo: nella vita o migliori o peggiori. Una cosa che mi ha insegnato la cecità – come condizione fisica e come metafora – è che dobbiamo smetterla di vivere come se fossimo affacciati alla finestra, guardando fuori in attesa che qualcosa intorno a noi cambi. Bisogna stare concentrati sulla solidità delle nostre gambe, lavorarci. Il teatro dà forza ai fragili, è l’unico luogo dove i fragili diventano vincenti, perché è il luogo dove si può mettere in mostra l’umanità.
Nei vostri lavori gli spettatori sono spesso chiamati in causa in modo diretto. Ora andrete in scena Teatro Biblioteca Quarticciolo. Che cosa contraddistingue il pubblico di un teatro di quartiere? Credi che, in questo spazio, il vostro spettacolo sarà percepito diversamente rispetto a un teatro nazionale?
Dipende tutto, soprattutto, dal grado di apertura con cui la gente si predispone all’ascolto. Ci sono posti di provincia, piccoli quartieri, che sono più “intelligenti” anche se meno istruiti, ma non è sempre così. Ci sono periferie belle dure, dove puoi avere un rapporto diretto con le persone. Ma poi devi comunque fare i conti la natura “borghese” del teatro occidentale. Trasportando e modificando il verso di una canzone di Dario Brunori, potrei dirti che a teatro «non c’è neanche un muratore», e questo vale anche per il piccolo teatro di quartiere. Noi cerchiamo di fare spettacoli “a cuore aperto”, per gente con le orecchie, e anche per gestori aperti. Abbiamo incontrato, per farti un esempio, un grande calore al Quirino, che è tutt’altro che un centro sociale. Sfatiamo i luoghi comuni: gente assiepata, imborghesita, formalizzata, con la naftalina nel cervello la trovi in provincia come nei teatri nazionali. Poi la responsabilità è anche di chi crea. Il nostro Amleto allude, a un certo punto, al «marketting»: ecco, chi lavora così non rischia niente, e il pubblico che lo va a vedere è quello che ha voglia di dormire. Il nostro teatro è una festa popolare, lavora sulle emozioni delle persone e cerca di farlo direttamente, senza tanti sofismi.
La stagione del Quarticciolo è intitolata Cosa può un teatro (?). Secondo te?
Un teatro può dare luce a ciò che un artista può fare, e quindi può – creando le connessioni tra le persone – creare anche una comunità. Un teatro può cambiare un quartiere, un paese, cambiare la vita a una persona, fornire stimoli, spunti e incontri perché il destino di un essere umano (o di tanti esseri umani) cambi. Per un’ora, per un giorno o per tutta la vita, questo dipende anche dalla volontà di chi guarda.
Redazione