La gioia, il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, dopo il debutto modenese di novembre 2018 e una breve tournée di fine anno, arriva al Teatro Argentina di Roma. Recensione.
«Ho scelto di intitolare il mio spettacolo La gioia, una parola che mi fa paura, che mi evoca immagini di famiglie felici, di bambini felici, di paesaggi felici. Tutto morto, tutto falso». Questa frase di Pippo Delbono, tra le lunghe note di regia che corredano il programma di sala, fulmina la mia attenzione. Il palco del Teatro Morlacchi di Perugia lo accoglie in una luce opaca, lievemente grigia, in un’atmosfera sospesa, quasi orfana delle note di Don’t Worry, Be Happy di Bobby McFerrin che si sono appena depositate.
Prima di presentare uno a uno i membri della compagnia, prima di avviare questo «cammino verso la gioia», Delbono prende congedo da sua madre. «Adesso non vi parlerò più di mia mamma» e in platea vibra una risata tenue, il segno della complicità di un pubblico evidentemente capace di decodificare l’ironia e la (dis)continuità di questo lavoro con gli ultimi, Orchidee (2013) e Vangelo (2016). Discontinuità perché – come il regista ha dichiarato in un’intervista apparsa su queste pagine alla vigilia del debutto – La gioia vuole rappresentare un ritorno alla scena sgombra di Barboni (1997), esprime una volontà di concentrazione intensa su persone e storie, un passaggio evolutivo. Si tratta anche di uno scarto che, traducendo in immagini una volontà di focalizzazione, apre la strada in direzione della visione filosofica di Lev Tolstoj (accennata anch’essa nelle note di regia) della «non resistenza al male»: un atteggiamento che, accogliendo il dolore come entità naturale al pari della gioia, conduce alla riconciliazione.
Si intrecciano dunque una meditazione sulla vita come successione di casi – nella vera accezione di casus, di fortuità – e una forte ricerca di visioni, correlativi oggettivi che trasferiscano la potenza dell’estemporaneo sulla scena. E se il palco è libero dal fasto degli apparati, il nero è comunque spezzato da macchie di colore: oltre alle invasioni floreali (curate da Thierry Boutemy), le cataste di panni che, alludendo alle estensioni del mare, si fanno quasi «allegria di naufragi» alla maniera di Ungaretti e correlativo visivo della consegna, attraverso le parole di Erri De Luca, della preghiera (e della sua retorica) all’ascolto. I membri della compagnia attraversano il palco come apparizioni, ciascuno portatore di una vicenda accennata (e di uno statuto estetico) per uscire di scena come se il tempo fosse esaurito e l’unico prolungamento possibile del sentire evocato fosse affidato alla capacità dello spettatore di elaborare la relazione tra le storie.
La forza di alcune immagini chiede di essere annotata: una milonga lentissima è uno struggente rito funebre, la qualità bruciante di una danza stroboscopica acquisisce le luci grigie di un horror, fino alla panchina di legno dove sedeva Bobò, scomparso il 1° febbraio 2019. Scrivere all’indomani della sua morte vuol dire anche chiedersi come lo spazio che lascia vuoto potrà essere mai reimpiegato, come «il senso profondo e il segreto del teatro» che, secondo Delbono, portava con sé potranno ancora essere celebrati.
Secondo il regista «Bobò non possedeva il tempo» e poteva dunque festeggiare il proprio compleanno ogni giorno. Un passaggio de La gioia mette in scena uno di questi momenti, con il gruppo che si raccoglie attorno all’attore sordomuto per festeggiarlo offrendogli una torta su cui spegnere l’ennesima candelina. Oggi Pippo Delbono dichiara, in apertura, che questo spettacolo «sopravvive a Bobò» e sarà proprio il regista a occupare il suo posto nella scena del compleanno, su quella panchina che è quasi una soglia, inventata per lui, in cui paiono incontrarsi riferimenti a Samuel Beckett e a Lewis Carroll: da un lato l’osservatorio delle azioni inaccadute, dall’altro la scoperta dei «doni ingenetliaci», il rituale del «non-compleanno» possibile solo “attraverso lo specchio”.
A margine di una concezione (e un esercizio) del teatro come un vero lavoro di gruppo e della natura transitoria – come quella dei fiori e come quella del circo, che compare negli abiti – che esso onora, rimane da dire qualcosa sulla cifra equivoca dello spettacolo.
Si avverte con forza l’intenzione dichiarata di uscire da una narrazione autobiografica tout court per aprire la scena al tempo presente, alle sue miserie, agli emarginati e ai rifugiati ed è impossibile non registrare il calore, quasi confidente, della platea al cospetto delle invenzioni di Delbono. Eppure, forse anche per l’effetto di “riconfigurazione” di alcuni simboli e materiali che sono ormai il fondamento della sua poetica (e attivatori del sentimento di familiarità da parte del pubblico), la sensazione rimane quella di una trasfigurazione a metà.
I passaggi più euforici espongono una misura di intensità, tanto più sincera quanto più indifesa di fronte alla contraddizione: dopo la fioritura furente che esonda sugli stridori e sui rintocchi di musica cupa, l’atmosfera appare decadente e cimiteriale e la luce dei fiori, a strapiombo in proscenio, acquista una sfumatura materica di posticciato, che consente l’ingresso nella verità di un dolore, quello depressivo, che non ha più, finalmente, bisogno di celare il proprio naturalissimo egoismo. E anche i momenti in cui la riflessione si fa più secca, precisa, virtuale («la gioia non è un fatto, un risultato, una cosa, te ne basta una […] la gioia scioglie i nodi, è l’alfabeto della leggerezza, la fioritura della carne, il maggio delle ossa») esprimono, con la purezza di un esorcismo, il bisogno e la convulsione.
Il riverbero di questo dolore non raggiunge invece la costellazione degli ultimi, portatori di una pluralità narrativa soltanto esteriore che vorrebbe forse smarcare La gioia dai rischi dell’autoreferenzialità e che invece (spezzando la promessa di “crocefissione scenica” che lampeggia per tutto il tempo) sembra reiterarla di continuo. Nel calore dell’applauso finale si avverte la misura di un conforto, quello offerto dalla trattazione di tematiche di così forte urgenza, ma anche – a livello di ricezione della costruzione spettacolare – l’efficacia di una macchina dell’empatia, già tanto collaudata.
Ilaria Rossini
Teatro Morlacchi, Perugia – novembre 2018
LA GIOIA
di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella
composizione floreale Thierry Boutemy
musiche Pippo Delbono, Antoine Bataille, Nicola Toscano e autori vari
luci Orlando Bolognesi
suono Pietro Tirella
costumi Elena Giampaoli
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzione Théâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale