Sonia Beramasco porta in scena al Teatro Vascello L’uomo seme, un racconto breve di Violette Ailhaud. Intervista
C’è un rumore assordante in questo bar, tazzine sgocciolanti che si toccano appena prima di rompersi, lo sbuffo del vapore di un prossimo caffè, l’aria satura di un chiacchiericcio disagevole e una frenesia cui nulla può la stasi di due persone, il tentativo di fermarsi nel mezzo dell’umanità in movimento e fermare, per un attimo, il tempo. Scelgono una sola strada: parlare di teatro, del suono e della testimonianza, della relazione e della distanza. Sonia Bergamasco si fa tramite di storie, parole, spirito di un tempo al tempo successivo. Fa dunque teatro, perché come tutti i grandi attori, teatro, lo è.
Quali sono i punti di riferimento attorno al quale ruota il tuo mestiere di attrice?
La prima cosa a cui penso è fare tabula rasa, come ogni volta rinascere. In questi ultimi anni il desiderio è stato sempre quello di togliere, di cercare una concretezza del gesto, del modo; ed è un’operazione estremamente difficile raggiungere la semplicità. Cerco ogni volta di mettermi in relazione al testo, alla situazione, all’oggetto con cui devo entrare in dialogo, attraverso l’empatia che mi permette di trovare sempre un nuovo centro, affinché fiorisca l’anima di ciò che devo esprimere.
L’uomo seme, un racconto molto breve di Violette Ailhaud, ha un legame fortissimo con l’origine, con l’evoluzione, l’atto cioè di trasformare ogni volta il mondo. Cosa ti ha stimolato nel portarlo in scena?
Prima di tutto il libro mi è stato regalato, da due persone diverse che mi hanno detto quanto per loro fosse un testo adatto a me. Mi sono chiesta cosa li avesse spinti a pensare al legame tra me e una contadina dell’Ottocento dell’Alta Provenza, ma quando l’ho letto mi ha catturato ho sentito da subito l’esigenza di trasferirlo sulla scena, poter condividere questa comunità femminile in una dimensione corale, che dal testo emerge fortissima. In questo caso il canto – da molto seguo nei miei lavori una ricerca musicale – come in tutte le comunità rurali è radicato nel cuore della storia, a tal punto che ho sentito necessità di coinvolgere voci femminili, il quartetto vocale Faraualla che lavora sul repertorio di musica popolare e antica di tutto il mondo, per esprimere l’essenza del racconto attraverso un linguaggio nato dal legame tra tutti i dialetti con cui sono state a contatto, una lingua madre che abbiamo reinventato come un grammelot.
Nel testo emerge l’evocazione de Le Troiane di Euripide, per la tragica concomitanza in cui si trovano le donne delle due opere, prive di uomini nella loro comunità che, in tal modo, si avvia a scomparire. Cos’è secondo te l’elemento che garantisce la resistenza, la speranza di queste donne?
Il desiderio, sensuale, potente, che corre per tutto il racconto in maniera concreta, ma anche un desiderio di futuro, uno scarto di fantasia creativa in una resistenza arrabbiata e nostalgica: queste donne continuano a progettare il futuro, vogliono far fiorire di nuovo il villaggio, arrivando così ad un gesto eversivo e amorale, pieno di sostanza, che tuttavia fa scaturire sfumature emotive al punto da rompere quasi un equilibrio, ma che finirà per ricompattarle perché vince in loro quel desiderio di farsi ancora comunità. L’uomo che arriva, l’altro da sé, non è un uomo oggetto, viene da un disastro e comprende l’esigenza, mettendosi al servizio di qualcosa di più grande.
Durante la tua carriera come il pubblico ha modificato il tuo modo di stare in scena?
Si è chiarita per me la necessità di avere un rapporto empatico istantaneo con il pubblico, che sia una distanza di pochi metri, che sia un soffio, che mi circondi o che sia lontanissimo, quella necessità di respirare insieme che ogni sera è una scommessa.
Il tuo è un mestiere di osservazione, della realtà certo, ma anche di spettacoli memorabili. Qual è il tuo? Quello che ti ha impedito di andare altrove che qui?
Sicuramente Carmelo Bene, il suo Hamlet Suite al Teatro Argentina, quello in cui è solo sulla scena. Ho sentito un attore attraversato, un attore che si fa strumento, tramite della materia. È stata un’esperienza magica.
In ultimo una suggestione. Federico Garcia Lorca disse che “il teatro è una poesia che si alza in piedi”. Cosa evoca in te?
Molto bella! Mi fa pensare a Stéphane Mallarmé e la sua idea di Teatro di poesia. Ho cercato di lavorare su questo con il gruppo Tempo Reale, nato dalla ricerca di Luciano Berio, a Firenze; era un lavoro sul suono e sulla vocalità, ero in una Erodiade di Mallarmé in cui dalla poesia si cercava, attraverso la sonorità, di far nascere teatro. E la poesia, quando è di carne e ossa, è un corpo irrealizzabile; e per questo va masticata.
Simone Nebbia
5 Marzo – 10 Marzo
Teatro Vascello – ROMA
L’uomo seme
racconto di scena ideato e diretto da Sonia Bergamasco
dal L’uomo seme di Violette Ailhaud
(traduzione di Monica Capuani)
drammaturgia musicale a cura di Rodolfo Rossi
e del quartetto vocale Faraualla
con Sonia Bergamasco, Rodolfo Rossi, Loredana Savino, Gabriella Schiavone, Maristella Schiavone, Teresa Vallarella
scene e costumi Barbara Petrecca
luci Cesare Accetta
cura del movimento Elisa Barucchieri
assistente alla regia Mariangela Berardi
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
produzione Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco
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