Arriva al Teatro Argot Studio di Roma The Dead Dogs di Jon Fosse diretto da Thea Dellavalle e Irene Petris. Recensione.
Che freddo. Questa è la prima sensazione che ci portiamo dietro dopo essere, letteralmente, sopravvissuti a The Dead Dogs di Jon Fosse nella messinscena curata da Thea Dellavalle e Irene Petris e vista al Teatro Argot Studio di Roma. È un freddo invincibile, sinistro, spietato quello che arriva dal testo del grande drammaturgo norvegese, nel suo divaricare lo spazio tra una e l’altra battuta, nel suo aprire spifferi che diventano voragini, nel suo ficcare in bocca ai personaggi monosillabi e fonemi sfilacciati, spezzati, frammentati, nel suo riempire i dialoghi di ripetizioni a specchio e pause interminabili, nel suo abbandonare gli sguardi dei protagonisti di fronte a un’immaginaria finestra che sempre si affaccia su un fiordo, ora cupo e minaccioso, ora quieto e minaccioso comunque.
Un giovane uomo (Giusto Cucchiarini), preda di una totale apatia, vive con la madre (Federica Fabiani) nella casa di famiglia sperduta di fronte al Mare del Nord. Il suo cane è fuggito inaspettatamente ed egli, abbandonato su una panca, non osa andare a cercarlo: è convinto che tornerà e tuttavia qualcosa (forse il titolo stesso) non lascia sperare per il meglio. Mentre si attende la visita della sorella con il marito odiato (Irene Petris e Luca Mammoli), arriverà inatteso un amico d’infanzia (Alessandro Bay Rossi), lui sì riuscito a fuggire dalla sonnolenta campagna per cercare fortuna e uno stipendio decoroso «nella città». E poi che cosa succede? Superando la paura di svelare il conflitto centrale del dramma, è la compagnia stessa ad aprire le note di accompagnamento allo spettacolo con: «Un giovane uomo uccide il suo vicino di casa perché il vicino di casa ha ucciso il suo cane». A neutralizzare questo attentato ai danni della suspense è, in fondo, lo stesso Fosse, il quale – rispettando un proprio linguaggio che è ormai culto – sceglie sempre di abbassare la temperatura emotiva dello spettatore, di affamarla nutrendola solo di privazioni, in un algoritmo drammaturgico affilato e brutale che sradica via l’azione concreta, alla maniera di Beckett, e allude a un contesto e a un sottotesto di ibseniana memoria, in cui chiunque non compaia in scena esiste in ogni caso come traccia di un passato o di una funesta compresenza.
In questo spettacolo si avverte innanzitutto un meticoloso lavoro sul ritmo della lingua. Thea Dellavalle, ci spiega, non si limita a realizzare una traduzione dall’inglese (pratica tristemente abusata, in passato, su testi non anglofoni né francofoni all’origine), ma si occupa – dizionario norvegese alla mano – di verificare la ricorrenza dei termini, per assicurarne l’incidenza e la necessità. Il basso continuo è un grave senso di disagio, condiviso tra attori e spettatori. Il ritmo delle battute, così scandito da silenzi già cronometrati in didascalia, si avvale non solo di uno studio minuzioso dell’emissione vocale da parte di un solido ed efficace gruppo di attori e attrici, ma di un calibro preciso della dimensione spaziale, organizzata in un palco vuoto dove spiccano tre panche bianche, un vassoio per il caffè e lo schiaffo cromatico dato da abiti in tono con filo di palloncini colorati che segnerebbe il “benvenuto”, ma che viene rimosso quasi subito, al manifestarsi di quel ghiaccio delle relazioni di cui Fosse è maestro.
Uno schermo a fondale proietta foto in bianco e nero di cani, prima tenuti a guinzaglio o in braccio a esseri umani, poi lasciati liberi in una carrellata di espressioni ferine, intervallata da didascalie di contesto e da un’analisi della locuzione “dead dog”, che in inglese compone phrasal verb che inneggiano alla separazione, al raggelarsi dei rapporti o all’omertà. Un “dead dog” è qualcosa di non più utile; il “dead dogging” è il distacco emotivo da un rapporto prima che esso generi dolore; “let the sleeping dog lie” è l’esortazione a tenere nascosta una verità funesta.
Secondo Dellavalle «a pesare di più in questo testo è ciò che non compare ma c’è». La resa scenica, infatti, incatena le circostanze a un luogo chiuso, mantenendo lontano l’altrove (quella città da cui provengono “gli altri”), evidenzia la dinamica narrativa di un testo che pare procedere seguendo i dettami della tragedia greca, in cui ogni fatto di sangue avviene fuori scena e viene raccontato da provvidenziali messaggeri: l’atto di violenza si traduce nel simbolo quando la sepoltura del cane e l’omicidio dell’aguzzino si condensano nel rabbioso accanimento contro un sacco di terriccio. L’eroe, qui, non esiste se non come espressione di un fiero fallimento, che riconferma l’immobilismo totale al quale i personaggi di contorno cedono in una resa incondizionata.
Spesso colto immobile in controluce (le luci funebri e gelide sono di Paolo Pollo Rodighiero), alle spalle del protagonista gli altri personaggi si interrogano sulla sua sorte; egli si dimostra incapace di mettere in pratica un’azione che non sia catartica come una cieca vendetta, il cane sembra presentarsi come unico esempio di relazione plausibile, perché non basata sul linguaggio razionale. In questo horror esistenziale l’umano pare affrontare la schiavitù dell’esserci, quell’idea che era di Jean-Paul Sartre, secondo cui bisogna «esistere per assolvere questa stessa incombenza e vivere per dimenticarla». Che freddo.
Sergio Lo Gatto
Teatro Argot Studio, Roma – marzo 2019
THE DEAD DOGS
di Jon Fosse
traduzione Thea Dellavalle
con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabiani, Luca Mammoli, Irene Petris
progetto compagnia DELLAVALLE/PETRIS
suono Claudio Tortorici con la partecipazione di GUP Alcaro
musiche Paolo Spaccamonti
luci Paolo Pollo Rodighiero
produzione compagnia DELLAVALLE/PETRIS e La Corte Ospitale
con il sostegno di Sementerie Artistiche
in collaborazione con Centro Teatrale MaMiMo’
grapich & collage art by Marisa Dipasquale
progetto vincitore del bando Forever Young 2018