Storia di un’amicizia è uno spettacolo di Fanny & Alexander ispirato alle atmosfere create dal caso letterario internazionale Elena Ferrante. Recensione.
Identificazione e distanza. Questi due possibili estremi entro cui si muove il progetto ambizioso di Fanny & Alexander, Storia di un’amicizia, serie di tre spettacoli a partire dalla quadrilogia di Elena Ferrante, romanzo caso editoriale edito da E/O che, in cinquant’anni di storia, mostra, nasconde, ricuce e “smargina” l’amicizia tra due donne, Lila e Lenù. Identificazione che, come riporta Chiara Lagani in relazione all’adattamento drammaturgico da lei firmato, è nata innanzi tutto a partire dalla propria esperienza di lettrice, conquistata dal meccanismo di «millimetrico riconoscimento» verso quell’ineluttabilità del sentimento che lega a filo doppio la protagonista alla sua amica “geniale”. Il tutto nonostante i contrasti, nonostante i delicatissimi equilibri dell’amicizia, nonostante il gioco perverso e attraente nei confronti di chi ci cresce accanto, chi ci supera, lasciamo indietro (nel possesso della bambola, in bellezza, nell’amore conteso, nella lotta alla vita).
Nel romanzo, l’epopea delle due amiche, prima bambine poi adulte, attraversa diversi momenti storici di una Napoli dei Quartieri e delle case con le cantine misteriose e fameliche, delle vacanze al mare fatte di corpi dalla bellezza antica, delle contestazioni politiche. Sul palco del Teatro Torlonia di Roma, dove lo abbiamo visto passare, prende forma attraverso una stratificazione di mezzi: innanzi tutto a partire dai corpi e dalle voci delle due attrici (assieme a Lagani è in scena Fiorenza Menni), guidate come sempre dalla regia eterodiretta da Luigi De Angelis. Qui la direzione si prende cura anche del sound design e della spazializzazione del suono, tra i suoni concreti (a opera di Damiano Meacci di Tempo Reale) e la ricerca percussiva (di Cristiano De Fabritiis); così la traccia video di Sara Fgaier si associa nel rendere conto dell’atmosfera e dell’umore delle epoche storiche in cui vivono le protagoniste.
Ciascuna di queste drammaturgie sembra proseguire una strada autonoma, quasi al punto da porre lo spettatore a una discreta distanza, straniante, rispetto alla linearità della narrazione. Scelta, questa, dettata dall’impossibilità del teatro di dare spazio e tempo al pari di un romanzo, che porta a isolare episodi, a rimodularne di nuovi, alla ricerca di una mediazione tra volontà documentaria e istanza poetica. In questo un grande aiuto è offerto dalla qualità della ricerca di Fgaier su materiali video e fotografici provenienti da archivi famigliari: il suo sguardo si accosta con delicatezza alla flagranza delle vicende narrate, attraverso una quotidianità perduta e genuina nel suo carattere di immagine “non pubblica” ma “sentimentalmente privata”.
Lagani e Menni, invece, prestano la propria presenza a un piano più complesso da gestire, poiché se dal punto di vista vocale sono le portatrici del racconto, a livello corporeo i loro gesti mescolano astrazione e reiterazione a una concretezza stilizzata che non sempre stratifica la narrazione, ma a volte la confonde, la devia. Eppure questa «grammatica gestuale e ossessiva», quei gesti estranei – coreografie di un arto, camminate sbilenche, pose di volta in volta irrigidite, languide, molli – iniziano anch’essi a suggerire un linguaggio: provano a farsi vettore emotivo dei personaggi delle due donne, dei mariti, delle bambine. Nel tempo, allora, superato il disagio dato dalla sfasatura tra gesto e pensiero, osserviamo mutare i caratteri e i tic: l’una decisa, sensuale, irrequieta; l’altra intimidita, stanca eppure rapita.
Che queste azioni rimandino ad alcuni stilemi della danza contemporanea (citati nelle note di regia sono i riferimenti a Pina Bausch, Trisha Brown, Maguy Marin, Anne Teresa De Keersmaeker e Maurice Bejart) sembra più un punto di partenza interno, un tratto da poter, volendo, riconoscere, ma tutto sommato più debole nel tentativo di costruire un sistema di segni che tenga conto della dimensione storica e delle diverse temperature psichiche ed emotive.
Molto più efficaci, allora, risultano i contrasti visivi e luministici (sempre curati da De Angelis) tra ombre e colori del terzo momento, tra profili proiettati che si sovrappongono l’un l’altro sullo sfondo. La musica, a sua volta astrazione emotiva di uno stridore oramai conclamato, si profila sempre più netta, mentre le due, oramai vicine di casa ed entrambe madri, deviano il proprio sentire comune.
L’infanzia piena di ammirazione e paura, la volontà di chi rifiuta di rimanere ingabbiata e contemporaneamente si lega, la tragicità della vita nel suo essere ineluttabile portano in questa Storia di un’amicizia un’idea quasi metalinguistica, una forma che, nel continuo smarginarsi, si riconosce e al contempo prende distanza.
Viviana Raciti
Teatro Torlonia – Teatro di Roma, marzo 2019
STORIA DI UN’AMICIZIA
Le due bambole, Il nuovo cognome e La bambina perduta
ideazione Chiara Lagani e Luigi De Angelis
con Chiara Lagani e Fiorenza Menni
drammaturgia Chiara Lagani
sound design Tempo Reale/Damiano Meacci
video Sara Fgaier
lyrics Emanuele Wiltsch Barberio
percussioni Cristiano De Fabritiis
ricerca e allenamento coreografico Fiorenza Menni
regia, light design, spazio scenico, progetto sonoro Luigi De Angelis
supervisione tecnica e cura del suono Vincenzo Scorza
tecnico di palcoscenico Giovanni Cavalcoli
collaborazione al video Alessandra Beltrame, Davide Minottie Stefano P. Testa
materiali di archivio Associazione Home Movies | Archivio Nazionale del Film di Famiglia
organizzazione e promozione Ilenia Carrone
una coproduzione Napoli Teatro Festival, Ravenna Festival, E-production
in collaborazione con Ateliersi
ringraziamenti Lorenzo Gleijeses, Giorgia Sanguineto, Sofia Di Leva, Andrea Argentieri
testi Elena Ferrante (brani da L’amica geniale), Chiara Lagani (brani liberamente ispirati a Frank Lyman Baum, Toti Scialoja, Wislawa Szymborska)