Al Teatro Torlonia di Roma è andato in scena il primo passo del progetto di Elena Arvigo su Il dolore di Marguerite Duras. Una visione dello spettacolo e una conversazione con l’attrice e regista genovese.
«Contrariamente a come spesso li immaginiamo, gli intellettuali non sono esseri staccati dalla realtà; sono esistiti intellettuali con i piedi radicalmente piantati nella realtà e nella Storia». Questo uno dei tanti pensieri emersi durante un informale scambio di idee con Elena Arvigo al termine del suo Il dolore, un assolo a partire dall’omonimo scritto di Marguerite Duras.
Sull’alto palco del Teatro Torlonia di Roma, spinti versi il proscenio, l’artista genovese ha distribuito diversi elementi d’arredo risalenti ai primi decenni del Novecento: poltrone, comò, toletta, specchi, libri, quaderni, abat-jour, cappelliere, valigie, sgabelli, un telefono a disco, che pare essere l’unico oggetto di plastica. Questa parata di legni, vetri, cartoni e stoffe, solo in apparenza è immobile e muta come lo sono le gallerie d’antiquariato; qui diventa una sorta di giungla di passato, in mezzo alla quale si aggira Elena Arvigo, portando le parole di Duras nella voce, nel corpo e nello sguardo della grande attrice che è.
Le luci – tagli precisi che cancellano un fondale e un boccascena che non sarebbe adatto – la trovano sprofondata in una poltrona, a un lato del palco, vinta da un’immobilità che è quella dell’attesa, ma che lascia intuire il fuoco di una strenua resistenza emotiva, messa alla prova dagli eventi.
Il dolore è un romanzo autobiografico pubblicato solo nel 1985 e adattato da Duras a partire da un diario privato e smarrito anni prima. Racconta le settimane vissute dalla scrittrice a Parigi nell’aprile 1945; lei e l’amico (e amante) Dyonis tentano di raccogliere informazioni su Robert Antelme, marito di Duras, arrestato nel giugno 1944 e deportato al campo di concentramento di Dachau. L’attesa di questa moderna e tenace Penelope è restituita da Arvigo attraverso un accurato lavoro sulle pause, sulla coreografia di minuziosi movimenti delle mani e delle gambe, su una partitura gestuale e vocale che la disegna intrappolata nella propria stessa casa, così polverosa e vuota. Come un funesto amuleto ella maneggia il quaderno di pelle – d’epoca anch’esso, racconta, trovato a un mercatino d’antiquariato – che racchiude il racconto febbrile di quei terribili giorni. Mentre i giornali e le piazze sbandieravano la fine del Conflitto, per i suoi protagonisti si apriva un interminabile capitolo finale, per alcuni neppure salvifico: il ritorno a casa.
«Studiando a fondo questo periodo storico – racconta l’attrice – ci si accorge che la fine della guerra non è stato un passaggio istantaneo. Contrariamente a quanto ci restituiscono i libri o le immagini di repertorio, in quel 1945 per milioni di persone si è aperto un secondo inferno, perché dovevano tornare in un momento in cui l’urgenza era quella di restaurare, di cancellare». «Allo stesso modo, nei Monologhi sull’atomica, ho capito perché è stato impossibile far davvero scoppiare quella guerra, perché per il mondo l’inferno era finito, non si poteva più far passare informazioni di guerra, era un tabù. Piuttosto conveniva ucciderli tutti, far sì che il Giappone sparisse, implodesse, perché i potenti del mondo erano già passati a un nuovo capitolo».
Rimozione di una memoria dolorosa, innanzitutto. Ed è di questa intuizione che si compone l’idea scenica di Elena Arvigo, che ha presentato questo appuntamento come uno studio su cui sente il bisogno di lavorare ancora. «Sarebbe bellissimo se questo spettacolo si potesse basare sul linguaggio breil, in cui il personaggio tocca gli oggetti e le vengono alla bocca le parole». Eppure gli elementi portati alla luce brillano già per coerenza e coraggio: l’atto di leggere dal quaderno risulta efficace e molto potente. La sensazione, viva per molti scrittori, di dubitare dei propri appunti passati quando li si va a rileggere a posteriori genera una distanza di rispetto tra il ricordo del sentire e la sua attualizzazione. Come anche i manoscritti raccolti nei Quaderni della Guerra, Il dolore presenta la memoria come un mostro invincibile, una creatura misteriosa che in questo adattamento non si lascia afferrare ma che abita ogni singola stanza, angolo, superficie, cassetto, sedia.
Dal modo in cui gli occhi dell’attrice passano, insofferenti, dalla pagina alla platea, sembra non vi sia modo di dimenticare ciò che è successo, ma neppure di ricordarne esattamente i risvolti, sia fattuali che intimi, come esistesse nell’umano una forza segreta che tenta disperatamente di rimuovere i traumi. Allora la dimensione narrativa di questo Dolore è quella del limbo, del sogno, del tormento e del tremore, della febbre che coglie Marguerite preda dell’attesa e che coglie poi Robert, che si porta nel corpo e nel ricordo gli orrori della guerra.
«Questa attesa ha mutato l’identità di lei e della coppia», e lo prova l’epilogo: dopo un’altalena di disperazione e sollievo rispetto alla sorte di Robert, che lo vede sopravvivere a Dachau, Marguerite si sente pronta a chiedere il divorzio. Perché mai potrebbe vivere un giorno di più accanto a un dolore che l’ha segnata così tanto. Tutto il carico di disperazione diviene allora un bagaglio necessario a trovare il coraggio per spostare una pesante pietra sopra qualcosa di irreparabile. «Un passaggio violentissimo ma anche questo, come altri, dà conto della statura intellettuale di queste persone. Duras, Antelme, così come Sartre o Brecht, o Mitterrand, che qui compare mentre si mette sulle tracce di Robert, è già, in nuce, il leader che sarà, consapevole dei passi necessari per attraversare la Storia».
Nella parte finale dello spettacolo, Elena Arvigo scende dal palco e passa in platea a consegnare agli spettatori piccole fotografie d’epoca, prima di lasciar cadere un mazzo di lettere giù dal palco. Questo, così come la stessa scelta degli elementi di arredo in perfetta consonanza stilistica, danno allo spettacolo la potenza della materialità, ci riportano a un momento della storia in cui il passaggio delle informazioni, la figurazione dei contesti, lo stesso percorso di ritorno dalla guerra passavano attraverso processi materiali e spaziali ormai per noi inimmaginabili.
Per questo, anche, la coreografia dei movimenti chiama così spesso in causa gli oggetti: oggetti da far cadere, da raccogliere, con cui gingillarsi, da guardare, da tastare, da odiare; cappotto e scarpe da infilare e sfilare, valigie da aprire e chiudere, lampade da spegnere e accendere. Il gesto fisico accompagna il misterioso percorso della memoria e ritrova nell’evidenza del corpo una possibile ultima spiaggia di salvezza al tormento mentale (e intellettuale) che vede l’assenza e l’attesa tramutarsi in chiaro simbolo dell’insensatezza della guerra.
Sergio Lo Gatto
Teatro Torlonia, Roma – marzo 2019
IL DOLORE
di Marguerite Duras
diretto e interpretato da Elena Arvigo
regista collaboratrice Virginia Franchi
produzione SantaRita & Jack Teatro e Teatro OutOff